sabato 30 aprile 2011

L'affitto controllato e l'odissea del frigorifero

A San Francisco, città dove il mercato immobiliare ha da tempo raggiunto prezzi folli, abbiamo la fortuna di vivere in un rent controlled apartment, cioè in un appartamente affittato con un contratto simile al vecchio equo canone italiano. Il rent control è un sistema di controllo degli affitti che varia da città a città (e spesso manca del tutto), e che permette all'inquilino di stabilizzare il canone d'affitto al momento della firma del contratto; da quel momento saranno possibili solo aumenti minimi, legati all'inflazione. Tutto questo, però, è valido solo per lo stesso inquilino che ha firmato il contratto: nel momento in cui dovesse subentrare un nuovo inquilino, il proprietario è libero di adeguare l'affitto agli attuali prezzi di mercato, con un canone che viene riagganciato al rent control da quel momento in avanti. Da qui si capisce perché una persona ci pensi due volte prima di lasciare un appartamento in centro in cui vive da decenni, che magari è diventato troppo piccolo ma per il quale paga un canone che adesso non gli basterebbe neanche per un box auto. E si capisce anche perché i padroni di casa ce la mettano tutta per far sloggiare i vecchi inquilini aggrappati con le unghie e con i denti al loro appartamento a "buon" mercato.

Questo sistema può creare dei problemi, per esempio nel momento in cui si decida di cambiare un elettrodomestico. Il nostro vecchio frigo, un cimelio degli anni '70, ha un enorme iceberg al posto del freezer, e va sostituito. Ma qui sorge un problema. Quando si prende in affitto una casa, a San Francisco, la si prende con tutti quanti gli elettrodomestici già installati, che non appartengono all'inquilino, bensì al proprietario. E non sto parlando di case ammobiliate. Semplicemente, qui funziona così. Spesso anche quando si compra una casa la si trova già fornita degli elettrodomestici appartenuti al proprietario precedente. Quando spiego che di solito, in Italia, chi prende in affitto un appartamento vuoto ci mette dentro il suo frigorifero e la sua cucina, qui tutti mi guardano e ridono. Che scomodità, mi dicono. Sì, certo, però quando devo cambiare il frigorifero, in Italia, vado in un negozio e ne compro uno nuovo. Qui invece devo convincere la padrona di casa a cambiarmelo. Dopo estenuanti discussioni in cui lei tenta di dimostrare che il frigo è ancora seminuovo e funziona benissimo, devo subire una dozzina di ispezioni della suddetta padrona di casa accompagnata dai "suoi" operai sottopagati, incaricati di prendere le misure.  Ogni volta lei non è convinta, non vuole pagare in anticipo l'uomo del frigo, ritorna un'altra volta per prendere le misure... Tutto questo va avanti da circa un mese, e intanto l'iceberg è sempre lì.

venerdì 29 aprile 2011

Beautiful Houses/4 (and bestselling authors)

Pacific Heights

And if you walk around Pacific Heights, you can't miss this one, at the corner of Broadway and Steiner. I don't find this house beautiful, but there's something interesting to it:

 














The Spreckles Mansion  is an enormous limestone mansion which was built in 1913 by the sugar baron Adolph Spreckles for his new wife. It now belongs to the writer Danielle Steel. According to Wikipedia, she has sold more than 600 million copies of her books (as of 2010) worldwide, she is the fifth bestselling writer of all time*, and currently the bestselling author alive. Mmm... maybe I should try to write a romance novel...

*Who are the first four? 
1. William Shakespeare + Agatha Christie (both with 4 billion books); 2. Barbara Cartland (1 billion); 3. Harold Robbins (750 million); 4. Georges Simenon (700 million);  5. Sidney Sheldon +  Enid Blyton + Danielle Steel (600 million).

giovedì 28 aprile 2011

Meet my husband/4: The New Yorker story

Here is a piece by Adam Gopnik which appeared last year in the New Yorker's "Talk of the Town" section. The piece is about  Strange Skies, a show which was installed at the AC Institute in New York. Jonathon will soon be back at the AC Institute with a new show, Quantum Entanglements.

Plant TV

by Adam Gopnik, March 15, 2010 

 

The television-for-plants project has been installed in a fifth-floor space at the AC Institute, on West Twenty-seventh Street, in Chelsea. A collection of houseplants—the kind of rubber plants that your great-aunt watered and tended—rest on the floor, thoughtfully regarding a video on a screen above their heads. The video shows, on a six-and-a-half-minute loop, a beautiful Italian sky, which passes into night, complete with romantic Italian moon, and then returns to dawn. Visitors are urged to bring their own plants to watch the show.
Jon Keats—that really is his given name—has mastered an expression so sincere that one begins to suspect him of irony. With that look embossed on his face, he explained to a visitor, the other day, that television for plants was an extension of an earlier project to make pornography for plants. “Pornography is where every filmmaker starts out,” he said evenly, “and in my case I was making pornography for plants by filming bees pollinating flowers.” There were two different shows of plant porn: one in Chico, California, for about a hundred rhododendrons, and one at Montana State University, for as many zinnias. “I knew that the act of pollination was the most titillating experience for plants,” Keats said. “So I spent a couple of days on the ground, seeing how light and shadow were experienced from their perspective. Once I had a very stark black-and-white image—sun up high, bees flying by. I let it run for a month, and let the plants experience vicarious sex. And let people stand at the periphery and giggle nervously.” 


He continued, “So I decided to go on to other plant subjects, and to me the subject that would be most interesting to plants is travel. Plants don’t get to go anywhere. They’re rooted in the ground. But if you’re a plant you’re not going to get excited about the Eiffel Tower—instead, you’re going to be excited about the sky.”
Keats filmed an Italian sky over two months. “We know that plants experience light very differently in different parts of the spectrum,” he said. “Both NASA and the Soviet-era agronomy schools studied this problem closely, because of their interest in how to grow plants in space or indoors in Siberia. I wanted to think of it not as manipulation of plants but as entertainment and edification for them. I knew that they could experience color, and—knowing that where you are in the world will have a great effect on what color relationships you experience—I wanted to bring that whole specific set of color experiences to plants, which would otherwise never be able to get to Italy.” (Keats also included jet trails in the video, because “I didn’t want to be too pastoral. I didn’t want to idealize Italy for the plants. These are travel documentaries, not advertisements to get plants to travel.”)
The plants, soberly observing their entertainment, seem wholesomely unmanipulated. But Keats is also aware of the small didactic point lurking in the project. “What I’m always doing is trying to pose thought experiments in the old-fashioned philosophical way,” he said, “imagining from a radically different perspective circumstances that are very familiar to us, in order to make them unfamiliar and force us to start to pull them apart. So if your children are supposedly vegetating in front of the television when they watch it for hours, what happens when you show television to vegetables? I don’t have the answers, or I wouldn’t make the work.”  

Jonathon has already appeared on the blog here:

mercoledì 27 aprile 2011

Una gita in campagna: il biologico made in California

Ieri siamo andati a trovare la nostra amica Christine, che lavora alla Green String Farm, l'azienda agricola del famoso Bob Cannard. Green String si trova nella Sonoma Valley, la seconda zona vinicola della California dopo Napa, e delle due senz'altro la più autentica e meno "disneylandizzata". Il panorama, per chilometri e chilometri, è questo:

Bob Cannard è un pilastro del movimento per l'agricoltura sostenibile in California. La sua idea di base, oltre naturalmente al totale rifiuto di qualsiasi agente chimico e alla rotazione delle colture, è quella che occorre restituire alla terra la stessa quantità di nutrimento che le abbiamo preso per sfamarci. Per questo il famoso Chez Panisse - il ristorante pioniere dello "slow food" californiano fondato dall'altrettanto famosa Alice Waters, che storicamente si rifornisce di verdura presso Green String - rimanda indietro tutti gli scarti vegetali della cucina alla fattoria, dove vengono riutilizzati per il compost. Inoltre, secondo Cannard le erbacce non esistono. Qualunque pianta migliora la composizione del suolo e apporta svariati benefici alle coltivazioni, e così la raccolta della verdura diventa una specie di caccia al tesoro in mezzo alla giungla. Questo, per esempio, è un campo di pomodori:

Durante la gita alla fattoria, oltre a salutare il nostro amico Chewy, il toro con la permanente

abbiamo visitato il vicino Beauty Ranch di Jack London, o almeno una parte dell'enorme proprietà (4 km²) acquistata da London nel 1905: le rovine di Wolf House, il mastodontico palazzo che doveva diventare la dimora dei sogni di Jack e di sua moglie Charmian. Si narra che Jack, spaventato dal terremoto e dall'incendio che distrussero San Francisco nel 1906, volle costruire una magione a prova di incendio, ma per una beffa del destino la sua Wolf House venne distrutta dalle fiamme quando stava per essere terminata, nel 1913, appena due settimane prima che Jack e Charmian vi andassero ad abitare. Forse Jack non avrebbe mai dovuto pronunciare l'infelice frase: "My house will be standing, Act of God permitting, for a thousand years." 
Jack London morì nel 1916, a soli 40 anni, senza mai riuscire a ricostruire Wolf House. Che oggi ci appare così:

lunedì 25 aprile 2011

An evening with Lydia Davis/4: Madame Bovary.3

Lydia Davis ha lavorato tre anni alla traduzione di Madame Bovary. Forse nel frattempo faceva anche qualcos'altro (non scrivere, però, visto che durante la conferenza ha dichiarato che la traduzione assorbe la maggior parte del suo tempo e della sua creatività, e che quindi non ha più intenzione di impegnarsi in progetti mastodontici come questo, o come la traduzione di Proust), ma dall'incredibile minuzia che mette nel suo lavoro si direbbe di no. Lei stessa afferma che, nelle giornate migliori, riusciva a tradurre tre pagine. (Probabilmente una mano gliel'ha data il fatto di aver ricevuto, nel 2003, la MacArthur Fellowship, il famoso "Genius Award" che viene assegnato ogni anno a 20-40 cittadini o residenti americani per "eccezionali meriti creativi". Ammontare della fellowship: 500000 dollari. Sì, gli zeri sono cinque. Essere un artista negli Usa è - per adesso - ancora un po' più facile che altrove. Per saperne di più, vedi anche questo mio articolo.)

Non contenta di collazionare un gran numero di traduzioni precedenti, a un certo punto  Davis trovò alla New York Public Library una copia della traduzione di Eleanor Marx Aveling annotata ai margini da Vladimir Nabokov. Passò tre giorni a ricopiare le infinite, minuziosissime (e spesso indignate) annotazioni di Nabokov ("flies don't crawl, they walk", scriveva Nabokov a margine della frase "flies crawled up the glass"), finché non si rese conto che forse questo era un po' troppo anche per lei.

In un articolo pubblicato successivamente su The Paris Review, si possono leggere le risposte di altri traduttori, e in particolare i commenti di Edith Grossman su due importanti aspetti del lavoro di Davis: il confronto con i predecessori e l'abitudine di non leggere fin dall'inizio il libro che si sta traducendo (interessante, questa seconda questione, perché ritorna spesso anche nelle domande che mi vengono rivolte sul mio lavoro). 
Grossman non vede l'utilità di confrontarsi con i precedenti traduttori: " a che scopo, mi sono chiesta, quando l'obiettivo di una nuova traduzione è quello di essere una nuova traduzione, con una voce fresca e un punto di vista diverso". Davis invece ricorre volentieri al confronto, ma solo dopo aver ultimato una solida prima stesura della sua traduzione, come parte di un più generale “no stone unturned approach”. Le profonde differenze stilistiche fa la sua versione e le altre, infatti, non le consentirebbero di lasciarsi influenzare neppure se lo volesse. 
Sulla questione della lettura preliminare, invece, di cui Grossman dichiara di non poter fare a meno, Davis risponde di aver chiesto spesso l'opinione di altri traduttori, e per quelli che la pensano come lei, fra cui William Weaver and Gregory Rabassa, la risposta era la stessa: una certa curiosità verso il testo e la freschezza di ogni pagina sembrano infondere una maggiore energia alla traduzione. E dopotutto, il libro verrà riletto per intero molte  e  molte volte nel corso della traduzione (soprattutto se abbiamo a disposizione tre anni per tradurlo, aggiungo io).

Nel frattempo, il Center for the Art of Translation ha messo online l'audio della serata. Potete sentirla qui.

A questo punto sarei curiosa di sentire anche altre opinioni...

domenica 24 aprile 2011

Let's Levitate!


I'm going to rest today, and levitate a bit with Yowayowa's amazing photographs. Check out her blog. I love it. (I'll be back soon with Madame Bovary.)

 



sabato 23 aprile 2011

An evening with Lydia Davis/3: Madame Bovary.2

Nel secondo dei suoi articoli sulla traduzione di Madame Bovary, Lydia Davis torna a raccontare cosa significhi doversi confrontare con un gran numero di traduzioni precedenti.
Ogni volta che ne scopriva una nuova, infatti, a una prima lettura la trovava quasi sempre ben fatta, e si chiedeva se il suo lavoro non fosse in definitiva inutile. Ma poi, confrontando la traduzione con l'originale, cominciava a rendersi conto dei suoi difetti.

Per esempio, ecco una frase dall'ultima pagina del libro, presa da una delle precedenti traduzioni: “Cantharides beetles droned busily round the flowering lilies.” Tutto bene, dice Davis, finché non la si confronta con il francese: “des cantharides bourdonnaient autour des lis en fleur.” Perché, si chiede, quell'aggiunta stereotipata e gratuita di “busily,” che personifica le api proprio quando Flaubert era così attento a eliminare le metafore?

Quando leggiamo, spiega Davis, ci adattiamo in fretta allo stile del traduttore, e se questo non presenta ovvi problemi smettiamo di notarlo e ci lasciamo catturare dalla storia. E se la storia è abbastanza potente, come avviene in un grande libro come Madame Bovary, riesce a catturarci anche attraverso una traduzione non eccelsa. Finché non lo confrontiamo con l'originale, non sappiamo quel che ci perdiamo. O quello che leggiamo in più, come nel caso della traduzione di Gerard Hopkins, il quale, come scrive Davis nell'introduzione al libro, "aggiunge materiale praticamente in ogni frase".

Ecco un esempio, tratto dalle prime pagine del romanzo di Flaubert, delle differenze tra alcune delle traduzioni esistenti, effettuate nell'arco di 125 anni. L'esempio è tratto dall'articolo di Julian Barnes "Writer’s Writer and Writer’s Writer’s Writer", pubblicato sulla London Review of Books. La frase è questa: Aussi poussa-t-il comme un chêne. Il acquit de fortes mains, de belles couleurs.
1) Meanwhile he grew like an oak; he was strong of hand, fresh of colour.
2) And so he grew like an oak-tree, and acquired a strong pair of hands and a fresh colour.
3) He grew like a young oak-tree. He acquired strong hands and a good colour.
4) He throve like an oak. His hands grew strong and his complexion ruddy.
5) And so he grew up like an oak. He had strong hands, a good colour.
6) And so he grew like an oak. He acquired strong hands, good colour.
Tutte contengono le stesse informazioni, ma solo le parole "he", "like" e "strong" ritornano in ciascuna di esse. E tutte le sei versioni - qui fornite in ordine cronologico - hanno le loro virtù.
La n.1 è quella di Eleanor Marx Aveling (1888), che Davis, durante le sue ricerche, ritrovò annotata da Nabokov (ne parlerò ancora domani); la n.2 è di Alan Russell (1950); la n.3 è di Gerard Hopkins (1948); la n.4 (la più libera) è di Francis Steegmuller (1957); la n.5 è di Geoffrey Wall (1992); e la n.6 è di Davis. Le ultime due sono le più vicine all'originale, le meno ‘interpretative’.

Qui sotto, invece, un'immagine tratta dall'articolo "Knee-Deep in 'Bovary'", pubblicato dal New York Magazine. Si tratta di una pagina della traduzione di Margaret Mauldon, pubblicata nel 2004, con note a margine di Davis. La traduzione "moderna" di Mauldon è stata criticata per i suoi anacronismi, come per esempio la frase Et, d'ailleurs, les embarras, la dépense … Ah! non, non, mille fois non! Cela eût été trop bête!, tradotta così: "And anyway there's all those problems, all that expense, as well. Oh, no! No way! It would have been too stupid." Nell'articolo "No Way, Madame Bovary", pubblicato su The Atlantic, Clive James suggerisce che un semplice e comune "No, no, a thousand times no!" sarebbe stato perfetto al posto di quel "No way", troppo moderno, troppo slang.

In alto: L'originale. Notare il verbo "suffoquait."
Al centro: La traduzione di Margaret Mauldon, note a margine di Davis.
In basso: Versione finale di Davis. Charles soffoca e non sighiozza più.   


[Terza parte. Continua]

venerdì 22 aprile 2011

An evening with Lydia Davis/2: Madame Bovary.1

Come dicevo nel post di ieri, l'altra sera sono andata a sentire Lydia Davis che parlava della sua traduzione di Madame Bovary.
Lydia Davis mi piace molto come scrittrice, e da come scrive sapevo che mi sarebbe piaciuta anche di persona. E infatti mi è subito piaciuta la sua placida ironia, mi è piaciuto il suo modo di avere opinioni ben precise senza tuttavia prendersi troppo sul serio. E mi è piaciuto soprattutto come ha parlato di traduzione, con un approccio pratico, concreto, basato su esempi tratti dal suo lavoro assiduo e minuzioso sul testo. Niente teorie, niente sofismi, niente voli pindarici. Solo lei e un libro pieno di post-it. ("So che dovrei dire Sciarl, alla francese, ma mi riesce troppo difficile, quindi dirò Ciarls".)

Lydia Davis ha parlato del suo lavoro su Madame Bovary in una serie di articoli che ha scritto per The Paris Review. Li potete trovare qui. Ho trovato molto interessante rileggerli dopo averla sentita parlare. E dato che l'argomento è complesso e affascinante, ho deciso di trattarlo in una serie di post, nei quali metterò insieme le cose che ho sentito raccontare da Davis con altre che ho letto nel suo diario di traduzione.

Davis comincia raccontando che, dopo aver accettato di ritradurre Madame Bovary (anche se il romanzo non l'aveva mai entusiasmata: il suo Flaubert preferito è infatti quello di Bouvard et Pécuchet), scoprì che esisteva un numero enorme di traduzioni dello stesso libro, più o meno una ventina. In genere, a parte quando aveva ritradotto Du côté de chez Swann (di cui esistevano due traduzioni precedenti, quella di C. K. Scott Moncrieff fatta durante gli anni '20 e '30, e una di un irlandese-australiano, James Grieve, pubblicata nel 1982 e quasi introvabile negli Usa), Davis aveva sempre lavorato su opere mai tradotte in precedenza. Questa volta, dunque, si procurò quasi tutte le altre traduzioni, con la speranza di poter copiare una frase qua e là ("lift", dice, aggiungendo che non se ne sarebbe affatto vergognata), per poi scoprire che gli altri traduttori si erano già copiati a vicenda.
Ma perché, si chiede Davis nel primo dei suoi articoli, tradurre di nuovo Madame Bovary?

Nel caso di un libro pubblicato più di 150 fa, e così importante per la storia del romanzo, ci possono essere più ragioni per voler effettuare una nuova traduzione, come per esempio la necessità di adeguare la traduzione a una versione dell'originale posteriore e più filologicamente corretta, oppure la ricerca di una traduzione più fedele, laddove i primi traduttori potevano aver alterato lo stile e perfino il contenuto per adattarli a un pubblico straniero. Ma anche semplicemente il desiderio di un traduttore di misurarsi con la ritraduzione di un classico.
Confrontando le varie traduzioni, Davis rimase sorpresa dalla loro scarsa aderenza all'originale. Quando un libro è ben scritto, infatti (e in questo sono completamente d'accordo con lei), basta mantenersi il più possibile vicini all'originale ("very close, not slavishly literal") per riuscire a conservarne il tono.
Eppure ogni versione era, a suo modo, diversa dall'originale e diversa dalle altre. Quanti modi, per esempio, per tradurre una sola espressione: bouffées d’affadissement:
  • gusts of revulsion (Davis)
  • a kind of rancid staleness 
  • stale gusts of dreariness 
  • waves of nausea 
  • fumes of nausea 
  • flavorless, sickening gusts 
  • stagnant dreariness 
  • whiffs of sickliness 
  • waves of nauseous disgust 

Davis conclude dicendo che a suo parere una traduzione superlativa può diventare immortale, ma ciò non significa che altri traduttori non possano cimentarsi nell'impresa. "The more the better, in the end." 

[Seconda parte. Continua.]

giovedì 21 aprile 2011

An evening with Lydia Davis/1: A story

Last night we went to listen to Lydia Davis at the Verdi Club, an event hosted by the Center for the Art of Translation
She gave a fascinating talk about her translation of Madame Bovary, about which I'll write tomorrow (probably in Italian). Today I just want to reprint the story that was read at the beginning of the evening: To Reiterate, from her great collection Almost No Memory.

"Michel Butor says that to travel is to write, because to travel is to read. This can be developed further: To write is to travel, to write is to read, to read is to write, and to read is to travel. But George Steiner says that to translate is also to read, and to translate is to write, as to write is to translate and to read is to translate. So that we may say: To translate is to travel and to travel is to translate. To translate a travel writing, for example, is to read a travel writing, to write a travel writing, to read a writing, to write a writing, and to travel. But if because you are translating you read, and because writing translate, because traveling write, because traveling read, and because translating travel; that is, if to read is to translate, and to translate is to write, to write to travel, to read to travel, to write to read, to read to write, and to travel to translate; then to write is also to write, and to read is also to read, and even more, because when you read you read, but also travel, and because traveling read, therefore read and read; and when reading also write, therefore read; and reading also translate, therefore read; therefore read, read, read, and read. The same argument may be made for translating, traveling, and writing."

Lydia Davis

[Prima parte. Continua]

mercoledì 20 aprile 2011

Happy 4/20!

Photo by Robyn Twomey
L'anno scorso mio marito (di cui ho parlato anche qui, qui e qui) doveva tenere una conferenza in un college nel nord della California. Il preside del college, tuttavia, gli disse che era meglio rimandare la conferenza di una settimana, perché il 20 aprile nessuno studente si sarebbe fatto vivo. "It's four twenty, you know".
"Four twenty", così si pronuncia in questo caso la data del 20 aprile, è la festa della cannabis, che, come ho spiegato approfonditamente qui, in California è legale per uso medico. Il termine slang 4/20 (o 420, o 4:20, sempre pronunciato "four twenty") nacque negli anni '70 per indicare l'ora in cui un gruppo di studenti di una scuola superiore di San Rafael si ritrovava per fumare marijuana, ma da allora è passato a indicare la data del 20 aprile, in cui si tengono festeggiamenti in tutto il paese (o almeno là dove si può).
Qualche giorno fa siamo andati a Sacramento per installare il Ristorante Fotosintetico, e mentre pranzavo in un bar e davo una scorsa ai giornali locali, ho trovato l'inserto del "Sacramento News & Entertainment Weekly", intitolato "The 420 Guide". Ho deciso quindi di pubblicare alcune foto.

Il 420 College
La copertina dell'inserto
Le pagine verdi


Barbecue, lotteria, 10% di sconto per anziani, invalidi e reduci
Consegna a domicilio












45$ per la visita di valutazione (ambulatorio pulito, personale gentile)
Terriccio bio

martedì 19 aprile 2011

Beautiful Artists/8: Rosemary McGuire, writer

Rosemary McGuire is a sweet and tough woman, with a biography that's really worth recounting. She was born in bush Alaska, second of four kids in a cabin with no electricity or running water. Her father was a commercial fisherman. When she was eight, the land they were living on was designated mining territory, and they had to abandon their cabin. The McGuire family moved down to the coast, where Rosemary grew up. She started school at the age of 16, in Haines, Alaska. The following year, she left home, spent a year living in Europe and then entered college. She has worked as a fisherwoman for the last 10 years, and has traveled over much of the high Arctic, often solo. She is currently finishing a collection of linked short stories. 
Rosemary writes about the world of Alaskan fishermen (and women), and her stories are intensely situated in a world that we seldom see at all. Her language is very powerful, being able to convey the "salty" taste of the place and to poetically evoke the internal life of tough, monosyllabic carachters.

Here's one of her beautiful stories, Innocence.

 Luke’s body stretched out, hot, uncomfortable, the aluminum grid of the skiff ridging his back. Light poured into the bowl of the lashed skiff, and on the deck of the seiner below. The boat rocked to a steady chop that stung cold and salty along the side. Overhead, the boom creaked back and forth, moving a fraction of an inch each way before jerking tight against the rigging. A steel beam, familiar to him, so familiar he could feel its coldness, its blistered paint, against his palms without thinking of it or knowing he was doing it.
A line snapped up from the deck. Curled and disappeared. The other deckhand, horsing around. Pete had this idea he could learn to tie a bowline in midair. It was crazy irritating.
“That was weak, dude,” Luke called lazily. No answer.
Five hours still to Noyes Island.
If he raised up in his seat even a fraction the wind struck him, driving out the warmth. The sea was so bright it hurt his eyes, the islands too sharp a green and blue. Better to lie, drunk with light, his eyes closed against the sun, watching through the liquid curtain of his eyelids.
Thinking of Eva. He rolled over to conceal a sudden embarrassing hard-on, though there was no one in a position to see. If there was a girl on board….but there wasn’t. Jim’s daughters were too young.
If Eva was on board….he cramped up again with a gust of desire. Eva here, her small round butt bent over the sink. Eva’s flat little boobs in raingear. But Eva would never do that.
The line snapped up again, twitched against the sky and disappeared.
“Weak…”
“Shut up.” Pete’s grinning face lurched above the skiff wall and vanished, crepulous with red hair.
Four and a half hours to Noyes Island.
Overhead, he heard Jim’s shout. His wheelwatch. He dropped swiftly down on to the deck. Up in the wheelhouse, Jim stretched out, heels on the console, steering with one foot.
“Just keep her as she is,” he said. Luke slid into the seat. And Jim stood up, adjusting himself, stretching, yawning, looking out over the stern.
“Nice day,” he said. “Hope the weather holds.”
Luke nodded.
“You’re gonna want to call me when we hit that island up ahead,” he said. “I’ll make the turn.” He dropped down out of sight into the galley, easy in the plain authority of unquestioned intelligence. “We’ll get in behind it, check on ‘em before their pussies start hurting too bad.”
His head disappeared. Luke cued up the music. “ .. aa ah m,” the vocal-less rhythm seemed to shake the dusty, cigarette air of the wheelhouse. He pushed the window open. An albatross rode the air off their bow, the greyish kind. He felt a little sick now, in the enclosed space. The boat jerked against the chop, jerked like a dog on a leash. Whoops. Crash. Whoops. Crash. Again and again.
On the radio, far off, he could hear two men talking, first about their sets… “Gotta thousand on that one.” Longliners maybe. Then, “Gotta go make my baby. ..You should see the size of it….nothing worse’n a chili shit...”
Disgusted, he flicked the channel up, but the other channels just held static. He went back to the original; it scanned between 8, the chatter channel, and 16, for the Coast Guard. “Attention all mariners, attention all mariners. …navigational hazard….” But it wasn’t anything, only some logs reported drifting back in Cross Sound. Hazard for the pukers. Not for them. Though sometimes drift from the logging barges choked up the tiderips heavy as popweed.
He sighed, and shut it off. Four hours. He wondered how the others were doing down there. Where they were bound.
The sun rolled down the horizon overhead, touched the flat blue line of open ocean, seemed to swell and bleed outward. Shadow swept across the surface of the water, hollowing the sea; then as the sun sank further, the air seemed to thicken. The water held the last light like a liquid substance, dense as mercury, glowing back up at the paling sky. No land now anywhere in sight. Even the mountains had disappeared in the hazy air of evening.
Luke heard the galley door clang shut. Pete coming in, starting dinner. The smell of Eazy Cheez and chili—they were sick of that. Burnt coffee. Popcorn. The four food groups.
Jim’s snore, from the daybunk just below the hatch.
The fourth guy, Charles, had flown ahead.
Luke settled back, tried to think again of Eva, but it was no good. Though she was always somewhere in his mind, lately when he tried to think of her directly he got depressed. It was something about the way she hung on him, and something about the men in the hold below, with their air of purpose larger than themselves. He lit a cigarette, though he knew he shouldn’t, and blew the smoke slowly out the window. It met and mingled with a denser cloud, the exhaust blown forward from the stack, and the sooty drifting from the oil stove. The wind had changed, setting against their stern.
He leaned forward. Looked out on the back. Something seemed wrong.

Read the rest of the story here

lunedì 18 aprile 2011

The Photosynthetic Restaurant: some pictures

The Photosynthetic Restaurant (for more information see here) is now open at the Crocker Art Museum in Sacramento. I'm posting here some pictures to show you how it looks like.








sabato 16 aprile 2011

Tassi di disoccupazione: una scoperta inquietante

Questo, secondo Google, è l'attuale tasso di disoccupazione in Italia: 8.4%

E questo è l'attuale tasso di disoccupazione in California: 12.3%
 
Questo, secondo quella miniera di informazioni che è il Bureau of Labor Statistics, è l'andamento della disoccupazione in California negli ultimi 10 anni:

E questa è la mappa della disoccupazione negli Usa, stato per stato. La California se la cava meglio solo del Nevada, che ha un tasso del 13.6.



Naturalmente si tratta di dati generici, che non tengono conto di fattori come il sesso, l'età, la razza, il grado di istruzione, le diverse zone di ogni stato... Ma ad ogni modo li trovo piuttosto inquietanti. Forse era meglio se restavo in Italia...
(Grazie a Marica che mi ha illuminata)

venerdì 15 aprile 2011

La lunga marcia verso la Green Card/2: La cattura dei dati biometrici

Innanzitutto un po' di terminologia.
Dopo aver cominciato le procedure per la Green Card (che se tutto va bene dovrebbe arrivare nel giro di un anno, dopo il famoso interrogatorio per decidere se gli sposi sono una coppia vera oppure una truffa), la prima cosa che si fa è prenotare una visita dal Civil Surgeon (della visita ho già parlato qui e qui).
Il termine "civil surgeon", ovvero "chirurgo civile", viene usato solo nel contesto delle procedure per l'immigrazione, e infatti nessun americano lo ha mai sentito. Se cercate su WikiAnswers, alla domanda "cosa si intende per chirurgo civile", la risposta è "potrebbe trattarsi di un chirurgo beneducato, oppure di un chirurgo che lavora per la popolazione civile invece che per quella militare". Fra l'altro in genere non si tratta neppure di un chirurgo, bensì di un medico autorizzato dal Department of Homeland Security (eh già, sono proprio loro che si occupano dell'immigrazione) a svolgere le analisi e le vaccinazioni necessarie per l'ottenimento della Green Card.
Prima della Green Card, però (sempre se tutto va bene) il candidato riceverà un permesso di lavoro e un permesso di viaggio temporanei. Il permesso di viaggio, quello che ti permette di uscire dal paese (cioè, volendo puoi uscire lo stesso, però quando rientri devi ricominciare tutta la procedura da capo. E quando sei in mezzo a questo tipo di procedure è sempre meglio tenere un profilo basso e non farti troppo notare) si chiama Advance Parole. Si tratta di un altro nome che gli americani non hanno mai sentito,  e quando lo sentono rimangono sbalorditi. Ecco infatti cosa riporta il dizionario per "parole": "libertà sulla parola, liberazione o scarcerazione sulla parola, liberazione condizionale; to be out on parole: essere in libertà sulla parola; periodo di libertà sulla parola". Insomma, quella che noi chiamiamo "libertà provvisoria". Che in questo caso è "advance", cioè anticipata. Bontà loro.
A questo punto, una volta affrontata la visita medica, dopo qualche settimana di attesa arriva un documento che ti convoca perché "you must have your biometrics captured". Ed è quello che ho fatto l'altro giorno, presentandomi alle nove del mattino allo USCIS Application Support Center di San Francisco per farmi catturare i dati biometrici.
Ebbene, è stata un'esperienza fantastica! La "cattura" delle mie impronte digitali e della mia foto ha richiesto in tutto una decina di minuti, durante i quali la gentilissima addetta ha fatto in tempo a chiedermi la ricetta della carbonara (però mi sono dimenticata di dirle che il bacon va tagliato a dadini. Temo che cucinerà una carbonara con il bacon a strisce), a portarmi la guida del telefono perché nell'ansia non riuscivo a ricordarmi il numero di casa mia, e a chiedermi due volte se ero proprio sicura che la foto andava bene (in effetti era orrenda, ma io non vedevo l'ora di finire e andarmene). Insomma, non mi sono mai trovata così bene in un ufficio pubblico! Dipenderà forse dal nome, visto che "centro di assistenza" suona molto più amichevole di chirurgo civile o libertà provvisoria, oppure da quei bigliettini gialli che ti fanno compilare all'uscita, dove ti chiedono di dare voti al servizio ricevuto (Excellent! Excellent! Excellent!), e come al solito ti ringraziano della collaborazione ("Thanks for Your Cooperation"), ma devo ammettere che mi sono addirittura commossa. Quasi quasi ci ritorno e mi faccio rifare la foto.

giovedì 14 aprile 2011

Meet my husband/3: The Photosynthetic Restaurant

The Photosynthetic Restaurant's sign

These days we are staying in Sacramento, where Jonathon is installing his "latest conceptual-art effort", as Bruce Sterling writes in the Wired blog Beyond the Beyond (where he also says, "*We should be running banner-ads for this guy"). Here are some excerpts from the article:
 "Consumed by humans in salads and stir fries for generations, plants will finally attain a cuisine of their own with the debut of the world’s first photosynthetic restaurant in Sacramento this month. Situated in the luxuriant 19th Century gardens of the Crocker Art Museum, under the supervision of executive chef Jonathon Keats, the photosynthetic restaurant will provide botanical patrons with healthful and appetizing meals freshly prepared by filtering and mixing the full spectrum of sunlight. 
'Honestly I’m surprised that nobody else has done this,' says Mr. Keats, an experimental philosopher who has never operated a restaurant before.  'For nearly a half billion years, plants have subsisted on a diet of photons haphazardly served up by the sun and indiscriminately consumed, without the least thought given to culinary enjoyment. Frankly, it’s barbaric.' (((That’s really a great paragraph. There’s something Stanislaw Lem about it.)))
(...) Despite his want of kitchen experience, experts agree that Mr. Keats is uniquely suited to operate a photosynthetic restaurant. 'Jonathon has a long history of catering to other species,' notes Dr. Shields. For instance, Mr. Keats has choreographed ballet for honeybees at Yerba Buena Center for the Arts by selectively planting flowers around San Francisco hives.  He has also produced pornography for house plants by projecting videos of pollination onto their foliage in a darkened theater at the Armand Hammer Museum. 'Jonathon’s efforts to share aspects of human culture with other species encourage us to scrutinize our own cultural values,' Dr. Shields observes."
(Read the full article here)

The Recipe Book

 Yesterday, the online edition of Wired Magazine published the article Photosynthetic Restaurant Puts Green Spin on Food Porn. Again, here are some excerpts:
“'My recipes are all based on the scientific study of plant physiology, applied to the fine art of cuisine,' Keats told Wired.com. 'I’m publishing the recipe book so gardeners everywhere can prepare gourmet sunlight for their plants at home. For people who are lazier, or keep only a few plants indoors, I packaged my signature recipes for easy consumption by videotaping select wavelengths of natural sunlight and editing them into a quick and convenient TV dinner.
'I tried it out on my plants at home, and as far as I can tell, they responded well to my delectable mixtures of orange, violet and yellow, although I can’t be certain,' he added. 'Cuisine is a form of communication, and mine won’t be complete until plants evolve a mechanism for food criticism.'"

 In the same article you can also find a 3-minute video with a Tv dinner for plants, in case you want to try it out on you potted green friends at home.
Here's the link to the video.
(Read the full article here.)
Tv dinner for plants (Image courtesy Crocker Art Museum)

The Photosynthetic Restaurant will be open daily from April 16 to July 17, 2011 in the floral plantings of the Crocker Art Museum in Sacramento, CA. For more information, see http://crockerartmuseum.org/art/upcoming-exhibits/571-the-photosynthetic-restaurant-gourmet-sunlight-for-plants-as-catered-by-jonathon-keats