lunedì 31 ottobre 2011

Don't Mind Your Language? Siamo proprio sicuri?

Qualche tempo fa ho trovato questo video sull'ottimo blog Terminologia etc. di Licia Corbolante. Il video è tratto da un brano del geniale Stephen Fry, che potete trovare per intero qui, e di cui riporto alcuni punti salienti:

(...) People seem to be able to find sensual and sensuous pleasure in almost anything but words these days (...) anyone who expresses themselves with originality, delight and verbal freshness is more likely to be mocked, distrusted or disliked than welcomed. The free and happy use of words appears to be considered elitist or pretentious. Sadly, desperately sadly, the only people who seem to bother with language in public today bother with it in quite the wrong way. They write letters to broadcasters and newspapers in which they are rude and haughty about other people’s usage and in which they show off their own superior ‘knowledge’ of how language should be.
(...) ‘Because it’s ugly,’ whinge the pedants. It’s only ugly because it’s new and you don’t like it. Ugly in the way Picasso, Stravinsky and Eliot were once thought ugly and before them Monet, Mahler and Baudelaire. Pedants will also claim, with what I am sure is eye-popping insincerity and shameless disingenuousness, that their fight is only for ‘clarity’. (...) No, the claim to be defending language for the sake of clarity almost never, ever holds water. Nor does the idea that following grammatical rules in language demonstrates clarity of thought and intelligence of mind. Having said this, I admit that if you want to communicate well for the sake of passing an exam or job interview, then it is obvious that wildly original and excessively heterodox language could land you in the soup. I think what offends examiners and employers when confronted with extremely informal, unpunctuated and haywire language is the implication of not caring that underlies it. (...) But that is an issue of fitness, of suitability, it has nothing to do with correctness. There is no right language or wrong language any more than are right or wrong clothes. Context, convention and circumstance are all.
(...)  There’s no right or wrong in language, any more than there’s right or wrong in nature. Evolution is all about restless and continuous change, mutation and variation. (...) Convention exists, of course it does, but convention is no more a register of rightness or wrongness than etiquette is, it’s just another way of saying usage: convention is a privately agreed usage rather than a publicly evolving one. Conventions alter too, like life. (...) 
If you are the kind of person who insists on this and that ‘correct use’ I hope I can convince you to abandon your pedantry. (...) But above all let there be pleasure. (...) So if you’ve got it, use it. Don’t be afraid of it, don’t believe it belongs to anyone else, don’t let anyone bully you into believing that there are rules and secrets of grammar and verbal deployment that you are not privy to. (...) Words are free and all words, light and frothy, firm and sculpted as they may be, bear the history of their passage from lip to lip over thousands of years. (...)




Ho trovato interessante questo brano perché riproduce perfettamente un'eterna discussione tra me e mio marito, dove lui la pensa come Fry, e io, a quanto pare, sarei sulla buona strada per diventare una grammar nazi, come quello che appare in questo divertente video. Io rispondo che se non distinguessi il giusto dallo sbagliato nella lingua potrei anche cambiare lavoro, ma penso anche che Fry non abbia tutti i torti. 
Si tratta però di tracciare un limite, e allora dove lo tracciamo? Diamo il benvenuto alla creatività linguistica dei parlanti ma rifiutiamo, per esempio, i calchi dall'inglese? Perché dovremmo, se rappresentano un'evoluzione della lingua? (Senza contare che possiamo anche rifiutarli, ma non abbiamo certo il potere di arrestarli.) Eppure, come non rabbrividire davanti a espressioni che si stanno diffondendo a macchia d'olio, come skillato, macciare (da match) e schedulare (e io che ero ferma al buon vecchio manàggement), o a parole italiane che assumono proditoriamente nuovi significati, come "confidente" che prende il posto di "fiducioso", oppure "organico" che si sostituisce a "biologico"?

Voi cosa ne dite?

domenica 30 ottobre 2011

Sul tradurre/3

Sempre perché in questi giorni, oltre che a praticare la traduzione, ne sto anche parlando, vi offro questo brano, tratto dal capitolo sulla traduzione del bel libro di Fruttero & Lucentini I ferri del mestiere (Einaudi, 2003).

Carlo Fruttero, noto soprattutto per i libri scritti insieme a Franco Lucentini, è anche un grande traduttore, che ci ha regalato la versione italiana di Beckett, Ellison e molti altri. La sua traduzione dei Nove racconti di Salinger (Einaudi, 1962) è un capolavoro.


Carlo Fruttero
"...Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell'autore. A lui si chiede di essere insieme, e a freddo, Napoleone e il suo più infimo furiere, di avere lo sguardo d'aquila dell'uno e la maniacale pignoleria dell'altro. Gli si chiede di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire un'intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. E di sapere annettere imperialisticamente questo mondo a un altro del tutto diverso, trasferendo ogni sfumatura, registro, accento, allusione, tonalità entro i nuovi confini. Gli si chiede infine di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare, senza mai salire sul podio o a cavallo. Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui. 
... Il traduttore è l'ultimo, vero cavaliere errante della letteratura."

giovedì 27 ottobre 2011

Cosmopolis: un romanzo di Don DeLillo e un film di David Cronenberg


"Ora il sonno lo abbandonava più spesso, non una o due bensì quattro, cinque volte la settimana. Che cosa faceva in quei momenti? Non passeggiava a lungo dentro gli arabeschi dell’alba. Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il tormento di una telefonata. Cosa dirgli? Era una questione di silenzi, non di parole.
Cercava di leggere fino ad addormentarsi, ma riusciva solo a sentirsi più sveglio. Leggeva scienza e poesia. Gli piacevano le poesie scarne collocate minuziosamente nello spazio bianco, file di tratti alfabetici impressi a fuoco nella carta. Le poesie lo rendevano cosciente del proprio respiro. L’essenzialità della poesia gli rivelava in un attimo cose che normalmente non notava. Questa era la sfumatura di ogni poesia, almeno per lui, di notte, in quelle lunghe settimane, un respiro dopo l’altro, nella stanza ruotante in cima all’appartamento a tre piani.
Una notte cercò di dormire in piedi, nella sua cella di meditazione, ma non ci riuscì, non era un vero adepto, non era un monaco. Aggirò il sonno e si addormentò in posizione di equilibrio, una calma senza luna in cui ogni forza veniva bilanciata da un’altra. Fu un sollievo brevissimo, una piccola pausa nell’agitarsi di identità irrequiete.
Non c’era risposta alla domanda. Aveva provato sedativi e ipnotici, ma lo rendevano dipendente, lo precipitavano dentro strette spirali interiori. Ogni sua azione era sintetica, ossessionata dal proprio fantasma. Anche il più pallido pensiero recava un’ombra ansiosa. Cosa faceva? Non consultava un analista impassibile nella sedia di cuoio. Freud è finito, adesso tocca a Einstein. Stava leggendo la Teoria Speciale quella notte, in inglese e tedesco, ma mise da parte il libro, infine, e giacque completamente immobile, sforzandosi di pronunciare la parola che avrebbe spento le luci. Nulla esisteva intorno a lui. C’era soltanto il rumore nella sua testa, la mente nel tempo.
Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito."


Così comincia Cosmopolis, il romanzo di Don DeLillo che ho tradotto per Einaudi nel 2003 (QUI trovate una recensione. Ne sono uscite moltissime, ovviamente, ma io rimando solo  a quelle con i complimenti alla traduttrice, he he).

David Cronenberg ha da poco finito di girare il film tratto dal romanzo, che uscirà nel 2012. I protagonisti saranno Robert Pattinson, Kevin Durand, Jay Baruchel, Paul Giamatti, Juliette Binoche.

QUI il sito ufficiale. 
QUI il fansite.

DeLillo e Cronenberg, che accoppiata. Non vedo l'ora di vederlo!

mercoledì 26 ottobre 2011

In the mood for poetry: Andrea Zanzotto

Per salutare un grande poeta.

Così siamo

Dicevano, a Padova, «anch'io»
gli amici «l'ho conosciuto».
E c'era il romorio d'un'acqua sporca
prossima, e d'una sporca fabbrica:
stupende nel silenzio.
Perché era notte. «Anch'io
l'ho conosciuto.»
Vitalmente ho pensato
a te che ora
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
e che per quanto s'affondino
gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza.

E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m'avvicini.

(Da IX Ecloghe, 1962)

martedì 25 ottobre 2011

How to be a Teetotaler


Dopo aver annunciato (per scherzo) che intendevo diventare astemia, ho ricevuto questa foto da un amico:


If you were around in 1919 and came upon the following poster...

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I mean, seriously ... wouldn't you just keep on drinking?

Divertente, ma poi ho cercato di spiegare in inglese che volevo essere una... teetotaler, e mi si è aggrovigliata la lingua. Questa parola, difficile da pronunciare e dal suono bizzarro, mi ha incuriosita. 
A quanto pare, la parola "teetotaler" cominciò a diffondersi nel gergo delle "leghe pro-astinenza" in seguito a un discorso tenuto nel 1833 da un certo Richard "Dicky" Turner, un operaio di Preston, in Inghilterra. Contrariamente a quanto sostengono alcuni, non esistono prove che Turner raccomandasse di bere "tea" al posto dei liquori, né che ai suoi seguaci venisse chiesto di scrivere una grande "T" - che stava per "Total Abstinence" - sui biglietti con cui si impegnavano solennemente a rinunciare all'alcol. Pare non sia vero neppure che Turner balbettasse, e di conseguenza gli uscissero frasi come “N-n-nothing but t-t-t-total abstinence will do.” La "tee" messa davanti a "total" era semplicemente un modo comune, all'epoca, di enfatizzare una parola, un fenomeno che i linguisti chiamano reduplicazione. L'uso di T-totally con il significato di "totally" è infatti registrato nel dialetto del Kentucky a partire dal 1832, e forse anche prima in Irlanda, anche se non nel senso di astinenza dall'alcol.

E adesso stiamo a vedere quando cadrò di nuovo off the wagon...

lunedì 24 ottobre 2011

Il dolce più facile del mondo (Stati Uniti esclusi): il salame di cioccolato

I dolci non sono il mio forte. Anzi, diciamo che proprio non li so fare. Però ce n'è uno che mi viene benissimo, perché è il dolce più facile del mondo: il salame di cioccolato.
C'è un problema, però. Questo dolce semplice, veloce e squisito comprende fra gli ingredienti i biscotti secchi. Cioè, proprio quelli secchi secchi, i più economici, quelli nel pacco da un chilo che trovate nello scaffale più in basso del supermercato. 
Ecco, questi biscotti negli Usa non si trovano. Negli Usa non esiste la meravigliosa usanza di intingere i biscotti nel tè o nel latte. I cookies non si mangiano per colazione. La gente ride, quando mi vede mangiare i biscotti per colazione. Biscotti, si badi bene, che ho trovato al termine di una lunga ricerca, dopo aver frugato sconsolata tra scaffali pieni di cose burrosissime, dolcissime e cioccolatose, che tutto sembrano meno che biscotti.
Fatteli da sola i biscotti, direte voi. Ma io, come dicevo, i dolci non li so fare. Tranne questo, che oltretutto è anche sgraziato a vedersi e poco fotogenico. Dopo una serata esilarante passata con le amiche a fingerci food photographer, la foto migliore che abbiamo ricavato è questa:


Tanto, insomma, lo sapete tutti che aspetto ha il salame di cioccolato. Vi sfido a farlo sembrare più bello di così.

Intanto, ecco la ricetta:

100 gr. di cacao amaro in polvere 
300 gr. di biscotti secchi
150 gr. di burro
150 gr. di zucchero
1 tuorlo
1 bicchierino di marsala secco

Sbriciolate i biscotti. (Io in genere li metto dentro un asciugapiatti e poi li prendo a martellate.) Sciogliete il burro a bagnomaria, poi versatelo in una zuppiera e aggiungete gli altri ingredienti: prima il cacao, lo zucchero e il tuorlo, mescolando, poi i biscotti e infine il marsala. Mescolate bene l'impasto e poi versatelo sopra un foglio di carta stagnola, dove gli darete una bella forma cilindrica da salame. (A questo punto il livello di fotogenicità è al minimo). Infine schiaffatelo in freezer per qualche ora.  E poi ditemi se non è buono.

domenica 23 ottobre 2011

The Basic Laws of Human Stupidity finally published in English

Last April I wrote THIS post in praise of the genius of Carlo M. Cipolla and his Theory of Stupidity. As I said there, I was surprised to discover that his seminal work about stupidity was not published in English, and I even proceeded to translate his famous chart (which you can see at the bottom of this post). 

Today I discovered that this lamentable gap is finally going to be filled by Il Mulino publishing house, and an English edition of The Basic Laws of Human Stupidity will finally be available on Amazon starting from November 3rd. Don't miss it! The world will be much easier to understand, after you've read this little gem.
For those of you who read Italian, HERE's the article from Il Sole 24 Ore that talks about it.

venerdì 21 ottobre 2011

Una chiacchierata su "Le correzioni"

Come piccola "coda" alla chiacchierata che ho tenuto ieri alla scuola Holden, ecco un piccolo brano da Le correzioni. Venerdì 28 tornerò a Torino a parlare di Libertà.

“La razza umana aveva ricevuto il dominio della terra e aveva colto l’occasione per sterminare le altre specie, per riscaldare l’atmosfera e in genere per rovinare le cose a propria immagine e somiglianza, ma aveva pagato un prezzo per i suoi privilegi: il corpo animale limitato e specifico di questa specie conteneva un cervello capace di concepire l’infinito e di voler essere infinito a sua volta.”
(Jonathan Franzen, Le correzioni, Einaudi 2002, pag. 490)


mercoledì 19 ottobre 2011

"Avrete pure vent’anni ma siete vecchi anche voi"

Il dibattito sui fatti di sabato scorso a Roma continua. Fra le tante cose che ho letto, questo pezzo di Marina Petrillo, una giornalista di Radio Popolare che ha svolto un importante lavoro informativo sulle rivolte nordafricane ma anche americane, mi ha commosso per la sua bellezza e verità. Ve lo ripropongo perché secondo me vale davvero la pena di essere letto.

Se poi avete voglia di leggere ancora, QUI c'è la lettera di Rebecca Solnit a Mohamed Bouazizi, l'attivista tunisino divenuto simbolo delle sommosse popolari in Tunisia del 2010-2011, dopo essersi dato fuoco in segno di protesta per le condizioni economiche del suo paese.

sul #15O
Potrei essere vostra madre, o vostra sorella - per fortuna non lo sono, perché immagino che per quanto amiate le vostre madri e sorelle, la loro saggezza vi appaia come un altro pezzo di quel presunto perbenismo che siete venuti a disfare con le vostre mani, con le vostre braccia giovani, con le vostre spranghe e i vostri bastoni. Ma non sono né vostra madre né vostra sorella, sono una giornalista, lavoro da tanti anni in una radio indipendente, e da poco meno di un anno faccio un lavoro che prima nemmeno esisteva, il curatore di social media, una persona che verifica e sceglie contenuti tratti dal lavoro collettivo della rete per produrre a sua volta contenuti informativi. Seguo da dieci mesi le rivolte arabe, e questo mi ha cambiato la vita. Non solo perché le rivolte l’hanno cambiata a tante persone, ma perché le migliaia di ragazze e ragazzi che stanno lottando per il futuro dei loro paesi mi hanno restituito la passione civile, mi hanno fatto sentire interrogata sui modi in cui facciamo politica, mi hanno strappato dal meccanismo di delega vuota degli ultimi quindici anni, e mi hanno fatto restare in un paese che prima volevo lasciare. Studiare l’attivismo in rete mi ha condotto alle stesse conclusioni di altre decine di curatori: non esiste bloggare o twittare da una posizione di neutralità; si può offrire alla rete la propria esperienza di verifica, di studio, di approfondimento, ma si diventa partecipi, e in qualche modo attivisti, senza quasi rendersene conto, senza averlo deciso. E un bel mattino si accetta che sia così. Perché, vi assicuro, non si può stare immersi nella lotta di piazza Tahrir senza sentirsi in qualche modo responsabilizzati, interrogati nel profondo, chiamati - non a riempirsi la bocca di slogan, ma a fare sul serio. E così come faccio dirette Twitter sul Cairo col cuore in gola perché ad ogni sit-in o corteo uno di quei ragazzi può lasciarci la pelle - come è successo a Mina Daniel, disarmato, durante il massacro dei copti il 9 ottobre - così ho twittato la Roma del #15O con crescente apprensione. Ho avuto paura che vi faceste accoppare da un poliziotto che perdeva la testa. Ho avuto paura che vi faceste pestare a sangue come chi è stato a Genova dieci anni fa ricorda bene e non dimenticherà mai. Ho avuto paura che saltaste in aria nell’esplosione di una di quelle auto che avete bruciato. Ho avuto paura che uno di quei blindati ubriachi vi investisse. Ho avuto paura che ammazzaste un poliziotto. Ho avuto paura che il vostro disprezzo evidente per la gran massa di gente perbene fra cui vi siete mimetizzati vi portasse a ferire, o a uccidere, o a far uccidere, una persona che un bastone o una spranga non li userebbe mai.
Poi ho capito che voi non avete paura. Voi vi piacete così, vi sentite belli con la vostra 
ferocia, con la vostra rapida coreografia della morte, ho capito che corteggiate il pericolo, che non vi importa delle conseguenze, che pensate di non avere niente da perdere (e siete troppo giovani per capire che invece avete parecchio), e soprattutto ho capito che non state costruendo niente. Senza quella folla immensa in cui vi siete nascosti - lo sapete benissimo - non siete niente, nessuno vi guarda, nessuno si cura di voi, non contate un accidenti. È vero, siete bellissimi e subdoli e veloci come un branco di lupi che discende in pianura. I miei amici antagonisti vi ammirano, sono dalla vostra parte, riconoscono in voi una rabbia profonda che tutti proviamo. Salvo poi essere un filo confusi - infiltrati della polizia oppure intrepidi compagni?
Devo scrivervi perché ho rispetto per chi muore per le cose in cui crede. Per chi non ha scelta. Per chi in piazza ci va studiando, facendo fatica, mediando con persone che la pensano diversamente. Per chi si stanca, e piange, per chi diventa eroe suo malgrado, e perde amici e fratelli, e pure non smette. Per chi da dieci mesi non dorme una notte intera, per chi si interessa della democrazia e si domanda come crearne una che funzioni e darle il proprio contributo. Per chi si fa un culo pazzesco nelle scuole, nella magistratura, nei sindacati clandestini, nei giornali censurati, nella tutela legale dei prigionieri politici, nel servizio d’ordine della piazza più rivoluzionaria del mondo. Per chi va in galera a vent’anni per aver scritto una cosa di troppo in un blog, o viene torturato per un graffito. Per chi rinunciando ad armarsi ha scelto la strada più lunga e produttiva. Per chi le botte e i gas lacrimogeni se li risparmierebbe se potesse, per chi i sassi li tira perché ha di fronte un apparato infernale e corrotto che da 40 anni lo schiaccia e lo tortura - e non per modo di dire. Per chi soltanto una settimana fa ha visto i soldati gettare nel Nilo cadaveri di cristiani disarmati. Voi siete solo imitatori, attori, pedine. Non avete rispetto per i vostri diritti, e ricoprite un ruolo ridicolo nella stessa recita che tanto detestate. È nato un movimento internazionale, se vi va di rendervene conto, che potrebbe perfino salvarci dal nostro provincialismo. Ha quattro regole in croce, e chiede di rispettare solo quelle. Ha scelto la resistenza passiva - la studia, la pratica, sa a cosa serve. Se volete, è anche casa vostra. Sta a voi. Dentro al movimento, con le vostre forti braccia e magari anche il cervello, potete sperare di contare qualcosa. Ma se non avete rispetto, se non vi fidate di nessuno, se siete cinici e nichilisti e avete già deciso che non cambierà mai niente, se pensate di essere un po’ più derubati degli altri, più precari degli altri, più disoccupati degli altri, allora andate a fare gli esclusi per scelta sugli spalti degli stadi, o a spaccare vetrine da soli finché non sarete cresciuti - con la vostra illusione di avere sempre ragione, di sfidare il sistema, o di distruggere i simboli della proprietà privata mentre è vostro padre che paga ancora le rate. Vi va bene che siete italiani. Vi va bene che qui c’è qualcuno a cui fa comodo che esistiate, che finge di non vedere i bastoni nascosti a San Giovanni dalla sera prima, che non vi ferma alla stazione Termini mentre passate col viso coperto e un metro di legno che vi spunta dagli zaini. Vi va bene che qui il rapporto di fiducia con la polizia è così corroso e malato che a via Merulana si è fatta un’assemblea tragica in mezzo ai lacrimogeni per decidere se consegnare o no 3 di voi agli agenti - perché la polizia è maiale se ti carica, o se carica quelli sbagliati, ma è anche vigliacca se non ti protegge dai provocatori. Vi va bene che siete nati in un paese così bizantino e pieno di segreti che le teorie del complotto sono sempre lecite. Vi va bene che siete in un paese vecchio, l’unico in cui il movimento che dichiara la fine di un sistema fallimentare scende in piazza ancora coi suoi stracci di bandiere, con le sue divisioni tribali, con i suoi rottami di sindacato, col suo ritardo spaventoso in un paese governato da un impunito. Vi va bene che siete in un paese ipocrita, teatrale, che sfila in tv ma poi alle assemblee di discussione non ci va, e che ha aspettato invano per anni che qualcuno lo chiamasse in piazza invece di andarci e basta. E vi va bene che siamo ancora così stupidi da organizzare cortei-fiume in mezzo ai palazzi più preziosi del mondo invece di occupare pacificamente una piazza - perché certo, poi ci toccherebbe anche metterla in sicurezza noi stessi, e tenerla pulita, e prendercene la responsabilità. Vi va bene che vi sia stato offerto di nuovo un palcoscenico - voi, e tre ore di caroselli anni ‘70 delle camionette in diretta tv. Col “sistema” sembrate d’accordo almeno su una cosa: sul fatto che è meglio non manifestare del tutto, che è meglio tenere la bocca chiusa e starsene a casa, cioè esattamente l’opposto di quello che reclama questo movimento - il diritto a riprendersi lo spazio pubblico, e a usarlo per il bene comune. Avrete pure vent’anni ma siete vecchi anche voi, non scandalizzate nessuno, e vi lasciate usare. Vi hanno fatto credere che la prima linea sia quella piazza da cui avete divelto i sanpietrini, e ci siete cascati. E invece, come vi dirà qualunque vero rivoluzionario, la prima linea è dentro, e si trova insieme, e costa tempo, pazienza, e fatica.
Una cosa è sicura - questo movimento sarà anche ingenuo, ma tanto non sarete voi a cambiare il mondo. Avreste dovuto restare a bocca aperta, quando la basilica ha aperto i suoi giardini ai manifestanti soffocati dai lacrimogeni a San Giovanni. A bocca aperta per la bellezza straordinaria di quel luogo che appartiene all’umanità intera, e che è nostro privilegio conservare a prescindere dalla fede religiosa. E qualcuno avrebbe dovuto dirvi che a gennaio, per proteggere con una catena umana il Museo Egizio del Cairo, uomini e donne si sono presi per mano mentre dai tetti gli sparavano addosso i cecchini del loro stesso presidente. E che quegli uomini e quelle donne sanno che la non-violenza ha un prezzo salato, come 700 morti, che non si finisce mai di pagare. Ma ci ricordano che è uno strumento collettivo di straordinaria civiltà e potenza; ti permette di vincere battaglie decisive, ti migliora, ti moltiplica, ti eleva, ti fa contare sul serio, e ti conquista il rispetto del mondo.

Marina Petrillo

martedì 18 ottobre 2011

How strong is your vocabulary?

Find out with this Vocabulary Quiz by the Merriam-Webster online.

Or, if you want a longer and more accurate test, try this one. (TestYourVocab.com is part of an independent American-Brazilian research project to measure vocabulary sizes according to age and education, and particularly to compare native learning rates with foreign language classroom learning rates.)

And if you want to strengthen your vocabulary, give a look at this amazing Corpus of Contemporary American English.


lunedì 17 ottobre 2011

I libri del buonumore/3

Ringrazio tutti quelli che sono intervenuti con preziosi commenti alla prima e alla seconda puntata. Nei commenti troverete altri preziosi consigli: potrete imparare come si chiama la prima investigatrice privata del Botswana; che Durrell fa ridere anche quando parla della sua amica Ursula; che non si può non citare Beckett e Jane Austen. Ringrazio anche la mia amica Irene, che fa il mestiere indispensabile della bibliotecaria e ha partecipato alla stesura di questa lista.
Se volete, segnalatemi altri libri. Sto preparando nuove puntate.

Ecco qui la terza cinquina dei libri del buonumore.




Il buon soldato Sc'vèik (Osudy Dobrého Vojáka Švejka, di cui sono disponibili due traduzioni dal ceco: una di Renato Poggioli e Bruno Meriggi, l'altra di Giuseppe Dierna), di Jaroslav Hašek
Il capolavoro del grande scrittore, umorista e burlone praghese. Un'infinita collezione di avvenimenti comici legati a un soldato nella prima guerra mondiale. Una feroce satira antimilitarista, rimasta incompiuta per la morte dell'autore, che attacca la società e tutte le sue istituzioni.


Fierce Invalids Home from Hot Climates (Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi, traduzione dall'inglese di Hilia Brinis), di Tom Robbins
Robbins, oltre ai suoi due romanzi più famosi, Even Cowgirls Get the Blues e Still Life With Woodpecker, ne ha scritti altri sette, uno dei quali è proprio questo,  introdotto dal solito, geniale titolo robbinsiano e caldamente raccomandato da Giusi MeisterUn agente della CIA, autorelegatosi su una sedia a rotelle a causa della maledizione di uno sciamano amazzonico, scopre un monastero nel deserto dove le suore custodiscono uno dei segreti di Fatima. L'agente Switters, famoso all'interno della stessa CIA perché conosce il nome della vagina in 72 lingue diverse, affronta le prove per svelare il mistero di Fatima, combattendo al contempo le forze scatenate dallo sciamano, lo scetticismo della CIA e il tentativo del Vaticano di mantenere segreto il mistero.


Il Ciclo di Malaussène di Daniel Pennac. Va bene, ho scoperto l'acqua calda, ma potevo non inserire questi capolavori del buonumore? Soprattutto i primi tre:
- Il paradiso degli orchi (Au bonheur des ogres, traduzione dal francese di Yasmina Melaouah)
- La fata carabina (La Fée Carabine, traduzione di Yasmina Melaouah)
- La prosivendola (La Petite Marchande de prose, traduzione di Yasmina Melaouah)



How To Be a Brit e How To Be an Alien, di George (György) Mikes Segnalato da Andrea Rényi, che ha già contribuito al blog con segnalazioni interessanti come questa, Mikes è un autore ungherese di nascita ma naturalizzato inglese. I due libri citati, fra i numerosi che ha pubblicato, sono descrizione umoristiche della sua vita in Gran Bretagna, con le piccole difficoltà quotidiane che vi aveva incontrato. Famoso il capitolo dedicato al sesso, condensato in una singola frase: "Gli altri europei hanno una vita sessuale; gli inglesi hanno le borse dell'acqua calda". I suoi libri sono molto diffusi e conosciuti nel mondo anglosassone e di lingua tedesca, ma allo stato attuale non risultano pubblicati in Italia. (In seguito a una breve ricerca, mi risulta che l'ultima traduzione italiana di How To Be an Alien - ossia Inglesi in pantofole : manuale per principianti e scolari abbastanza eruditi; il sito dell'Opac non riporta il nome del traduttore -  risale al 1955. Sarà magari ora di dargli una rinfrescatina?)

Pnin, di Vladimir Nabokov (traduzione dall'inglese di Elena De Angeli)
Questo me lo ha ricordato Elena Franchini. Il professor Timofej Pavlovic Pnin, esule negli Stati Uniti e titolare di un corso di lingua russa all’Università di Waindell, sta andando a tenere una conferenza in una località della sterminata provincia americana. Tradito dalla sua passione per gli orari ferroviari, che lo ha indotto a  elaborare personalmente l'itinerario, il professor Pnin si ritrova sul treno sbagliato. Comincia così, in modo emblematico, il ritratto ironico e affettuoso, esilarante e patetico di uno di quei personaggi che Nabokov sa disegnare con arte insuperata: un buffo émigré caparbiamente determinato a ricercare l’impossibile adattamento a un’altra civiltà, in lotta impari con un mondo in cui tutto – lingua, ambiente, gli oggetti stessi – pare rivoltarglisi contro.


domenica 16 ottobre 2011

A shameful day for Italy

Yesterday, in Rome, a bunch of damned criminals has ruined a protest which was meant to be peaceful. It happened only in Rome: in the rest of the world it was a day of peaceful protest. History repeats itself. Horrified, I followed the events live on the radio for the whole afternoon, thinking that in this way they will always win, the ones who look with scorn from behind the window. 
For those of you who read Italian, here's an article by Mario Calabresi: "Perché succede solo qui". 
And here's Alessandro Leogrande in Minima & Moralia.

 
Wall Street Occupation: Looking down on Mr. Tambourine Man

(caption: Protesters affiliated with the Occupy Wall Street movement march past a bar in Lower Manhattan’s Financial District near Wall Street on October 5, 2011 in New York City. Thousands of protesters including union members and college students from an organized walkout joined today’s rally and march.)

Photo from BagNews

And then I look at this other picture and I feel like crying.



And this is a very moving image, this time from Italy. The woman's hand on the T-shirt is the only thing that can make the difference.

venerdì 14 ottobre 2011

Julie Otsuka: "Come, Japanese!"

Come, Japanese! (from the novel The Buddha in the Attic) 
Julie Otsuka

[This excerpt was published in the Spring 2011 issue of "Granta" (114: Aliens)]

  "On the boat we were mostly virgins. We had long black hair and flat wide feet and we were not very tall. Some of us had eaten nothing but rice gruel as young girls and had slightly bowed legs, and some of us were only fourteen years old and were still young girls ourselves. Some of us came from the city, and wore stylish city clothes, but many more of us came from the country and on the boat we wore the same old kimonos we’d been wearing for years – faded hand-me-downs from our sisters that had been patched and re-dyed many times. Some of us came from the mountains and had never before seen the sea, except for in pictures, and some of us were the daughters of fishermen who had been around the sea all our lives. Perhaps we had lost a brother or father to the sea, or a fiancé, or perhaps someone we loved had jumped into the water one unhappy morning and simply swum away, and now it was time for us, too, to move on.

Japanese immigrants arrive at Angel Island Immigration Station. Thousands of "picture brides" passed through the station between 1910 and 1924.
Credit: California State Parks Collection
  On the boat the first thing we did – before deciding who we liked and didn’t like, before telling each other which one of the islands we were from, and why we were leaving, before even bothering to learn each other’s names – was to compare photographs of our husbands. They were handsome young men with dark eyes and full heads of hair and skin that was smooth and unblemished. Their chins were strong. Their posture, good. Their noses were straight and high. They looked like our brothers and fathers back home, only better dressed, in grey frock coats and fine Western three-piece suits. Some of them were standing on sidewalks in front of wooden A-frame houses with white picket fences and neatly mowed lawns, and some were leaning in driveways against Model T Fords. Some were sitting in studios on stiff high-backed chairs with their hands neatly folded and staring straight into the camera, as though they were ready to take on the world. All of them had promised to be there, waiting for us, in San Francisco, when we sailed into port."

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giovedì 13 ottobre 2011

Julie Otsuka nominated for the National Book Award

I'm extremely happy to announce that Julie Otsuka's marvellous book, The Buddha in the Attic, which I had the honor of translating, is one of the five finalists for the 2011 National Book Award. The other four finalists are Andrew Krivak, The Sojourn; Téa Obreht, The Tiger's Wife; Edith Pearlman, Binocular Vision; Jesmyn Ward, Salvage the Bones.

The book will come out soon in Italian, but in the meantime, here's the synopsis:
Julie Otsuka’s long awaited follow-up to When the Emperor Was Divine (“To watch Emperor catching on with teachers and students in vast numbers is to grasp what must have happened at the outset for novels like Lord of the Flies and To Kill a Mockingbird” —The New York Times) is a tour de force of economy and precision, a novel that tells the story of a group of young women brought over from Japan to San Francisco as ‘picture brides’ nearly a century ago.
In eight incantatory sections, The Buddha in the Attic traces their extraordinary lives, from their arduous journey by boat, where they exchange photographs of their husbands, imagining uncertain futures in an unknown land; to their arrival in San Francisco and their tremulous first nights as new wives; to their backbreaking work picking fruit in the fields and scrubbing the floors of white women; to their struggles to master a new language and a new culture; to their experiences in childbirth, and then as mothers, raising children who will ultimately reject their heritage and their history; to the deracinating arrival of war.
In language that has the force and the fury of poetry, Julie Otsuka has written a singularly spellbinding novel about the American dream.

Tomorrow I'll publish an excerpt from the novel. Stay tuned!

mercoledì 12 ottobre 2011

Meet my husband/9: Un tipo un po' inquietante in The Milan Review of Ghosts

Il primo numero di The Milan Review è uscito già da qualche mese, ma siccome è semestrale sono ancora in tempo a scriverne. Fondata da Tim Small (direttore di "Vice Italia") e Riccardo Trotta (art director di "Vice"), "The Milan Review" è una rivista letteraria in lingua inglese sul modello di McSweeney's, ossia  un oggetto curatissimo, bello non solo da leggere  ma anche da vedere. La rivista è tematica, e il primo numero, "The Milan Review of Ghosts", parla di fantasmi: 192 pagine di racconti, illustrazioni e disegni con 14 autori e 2 artisti. I racconti di questo numero sono firmati da Dave Cull, Jonathan Dixon, Glen Hirschberg, Noy Holland, Jonathon Keats, Tao Lin, Clancy Martin, E.C. Osondu, Dawn Raffel, Nelly Reifler, Rebecca Rosenblum, Deb Olin Unferth, Corinna Vallianatos e Brent Van Horne. Le illustrazioni sono di Matt Furie e Maison Du Crac. Sul sito trovate lo store online per acquistare la rivista, che costa venti euro. 

Nella lista dei nomi degli autori figura anche quello di mio marito, Jonathon Keats, presente con il racconto Astonishing Christina, che comincia così: "Christina was a good girl, and then she went to Hell."


Mentre cercavo materiale online su "The Milan Review" ho trovato queste due definizioni di mio marito che mi hanno molto divertita.
1) "Jonathon Keats (un tipo molto molto strano e pure un po’ inquietante)".
Dalla recensione alla rivista pubblicata su Vice Magazine.

2) "jonathon keats, altro artista-filosofo-salcazzo che si veste come piperno e ha scritto questo http://www.ibs.it/code/9788880573784/keats-jonathon/libro-dell-ignoto.html
(oltre a stare con la tizia che traduce franzen, amy hempel e un po' tutti ultimamente)".
Dal forum online del mensile Il Mucchio.

martedì 11 ottobre 2011

In the mood for poetry: Nazim Hikmet

Mosca, 1961

Le sedie dormono in piedi
anche il tavolo
il tappeto sdraiato sul dorso
ha chiuso gli arabeschi
lo specchio dorme
gli occhi delle finestre sono chiusi
il balcone dorme
con le gambe penzolanti nel vuoto
i camini sul tetto dirimpetto dormono
sui marciapiedi dormono le acacie
la nuvola dorme
stringendosi al petto una stella
in casa fuori di casa dorme la luce

ma tu ti sei svegliata

mia rosa
le sedie si sono svegliate
si precipitano da un angolo all’altro anche il tavolo
il tappeto si è messo a sedere
gli arabeschi hanno aperto i petali
lo specchio si è risvegliato come un lago all’aurora
le finestre hanno spalancato
immensi occhi azzurri
il balcone si è risvegliato
ha tirato su dal vuoto le gambe
i camini dirimpetto si son messi a fumare
le acacie han cominciato a chiacchierare
sui marciapiedi
la nuvola si è svegliata
ha lanciato la sua stella nella nostra stanza
in casa fuori di casa la luce si è risvegliata
si è versata sui tuoi capelli
è colata tra le tue palme
ha cinto la tua vita nuda i tuoi piedi bianchi.

Traduzione di Joyce Lussu

lunedì 10 ottobre 2011

Happy Columbus Day!

Jonathan Franzen in China

"China in general, in its headlong pursuit of money, with fabulous millionaires and a vast underclass and a dismantled social safety net, and with a central government obsessed with security and skilled at exploiting nationalism to quiet its critics, and with economic and environmental regulation entrusted to incestuous consortia of businesses and local governments, had already been striking me as the most Republican place I’d ever been." 
Jonathan Franzen, from "The Way of the Puffin - Travels in the Chinese century", The New Yorker, April 21, 2008.


"In generale la Cina, con la sua folle corsa al denaro, i suoi favolosi miliardari, il vasto sottoproletariato e la rete di sicurezza sociale smantellata, con un governo centrale ossessionato dalla sicurezza e abile a sfruttare il nazionalismo per mettere a tacere le critiche, e con una legislazione ambientale affidata a incestuosi consorzi di imprese e amministrazioni locali, mi sembrava già il posto più repubblicano che avessi mai visto."
Dall'articolo The Way of the Puffin - Travels in the Chinese century, pubblicato sul "New Yorker" il 21 aprile 2008 (traduzione mia).

sabato 8 ottobre 2011

Sarà una risata che ci seppellirà

 
Ieri era il quinto anniversario della morte di Anna Politkovskaja, la giornalista e attivista per i diritti umani uccisa da ignoti sicari che l'aspettavano davanti all'ascensore di casa sua, a Mosca. 


Ieri il premio Nobel per la pace è stato assegnato a tre donne, "per la loro lotta non-violenta per la sicurezza e la partecipazione delle donne ai processi di pace". Eccole, belle come il sole: Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia; Leymah Gbowee, leader, insieme a Comfort Freeman, del movimento pacifista femminile liberiano; Tawakkul Karman, giornalista yemenita, protagonista della rivolta contro il presidente Abdullah Saleh.



Ieri Alessandra Mussolini riprendeva la pietosa battuta del presidente del consiglio e cantava su Radio 2 l'inno di "Forza Gnocca", prontamente ripresa da giornali anche "di sinistra" come Repubblica, che ha pubblicato il video della bella impresa (non pubblico il link perché mi fa schifo). La giustificazione è sempre la stessa: "era una battuta". Ma davvero, gli italiani ancora voglia di ridere di questa roba? Non si sono ancora stufati di tutte queste stronzate? "Ha ha, quanto siamo simpatici, quante belle battute che facciamo, guardate gli altri come sono seri e noiosi!" Ancora con questa solfa, intanto che il paese sprofonda? Cuor contento non sente stento, dice il proverbio. Sarà...