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lunedì 1 ottobre 2012

Nathan Englander: Ebraico Show

Ripubblico qui la bella recensione di Caterina Ricciardi ai racconti di Nathan Englander che ho recentemente tradotto per Einaudi.

L'aneddoto di traduzione di cui parlavo QUI è ora a pag. 76 dell'edizione italiana.


EBRAICO SHOW
CATERINA RICCIARDI
ALIAS della DOMENICA n. 38 del 23/09/2012
EBREO-AMERICANO CLASSE 1970, NATHAN ENGLANDER RILEGGE L'EREDITÀ TRAGICA DEL NOVECENTO CON UMOR NERO E DOLORE MORALE: OTTO RACCONTI IN COMMEDIA
Sapiente combinazione di «umorismo» e «dolore» (Philip Roth), «ironia» e «complessità» (Jennifer Egan), «umiltà e sicurezza morale», capaci di unire «una sottile commedia con una tragedia enorme» (Jonathan Franzen), un risultato traboccante di «gemme» e «rivelazioni». Quest'ultimo spezzone di omaggio viene da un altro emergente, Jonathan (Safran Foer), più giovane di sette anni (ma già alla stessa altezza) del correligionario Nathan Englander (classe 1970), così coralmente lodato sulla quarta di copertina del suo terzo libro – tre in tutto e subito tradotti in italiano (1999, 2007, 2012) –, Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank (Einaudi «Supercoralli», pp. 199, € 19,00): otto racconti nella bella traduzione di Silvia Pareschi – la quale gentilmente ci dà in nota il significato dei termini più ostici dello yiddish –, otto racconti «in tema di cose ebraiche» (dice l'autore nei Ringraziamenti), cose che accadono, o che continuano ad accadere, negli Stati Uniti, dove l'ortodosso Englander è nato (a New York), assorbendo «profondamente il sogno americano», e a Gerusalemme, dove ha soggiornato per diversi anni.
Le «cose» di cui si parla sembrano avviluppate sul perno delle possibili letture della Storia e dell'eredità della storia – qui intesa come ‘allegorica' – di Anne Frank (già mascheratamente evocata da Safran Foer in Molto forte, incredibilmente vicino) con le sue altrettanto possibili rivisitazioni. È giusto (sembrerebbe di no) giocare con la storia di Anne Frank come si fa nel racconto che dà il titolo alla raccolta? Ovvero, inscenare un «gioco» sulla generosità del «Gentile Giusto», pronto a rischiare in proprio per la salvezza dei perseguitati? La risposta diventa difficile se quel gioco si trasforma in un test perturbante mirato a capire la verità su se stessi. La simulazione pericolosa riguarda i quattro protagonisti (ma non solo loro), tutti ebrei americani: una coppia, trasferitasi in Israele e convertitasi a un'intransigente e ridicolizzata ortodossia chassidica, e l'altra, laica, radicata negli Stati Uniti, in Florida (dove si nascondeva uno degli attentatori delle Torri), ma ossessionata (la moglie, in particolare) dal primo e da un eventuale secondo Olocausto che l'11 settembre renderebbe plausibile. Dopo la brillantezza caricaturale dell'incontro fra vecchi amici, ormai culturalmente distanti a causa delle sfere geopolitiche (e religiose) in cui agiscono, il sommesso finale, pur lasciando spazio alle aperture della ‘fede, non è consolatorio: forse, sì, in caso di minaccia, i mariti abbandonerebbero le rispettive mogli a un destino atroce. Il titolo – si è insistito molto in America – si rifà a Carver (Di che cosa parliamo quando parliamo d'amore?), solo che qui, attraverso l'olocausto di Anne Frank, si parla – giocando – della dubbia solidarietà umana (Agapè), senza distinzioni di sorta. Intanto, l'eterno spettro della Shoah, che assume il volto di Anne, è entrato in circolo nel libro, assieme alle verità scoperte da quel gioco pericoloso.
«Sono lusingato e commosso per queste dichiarazioni», ha detto Englander ad Antonio Monda per la Repubblica a proposito dei blurb dei suoi colleghi – coetanei e di più stagionata generazione: un padre (quale potrebbe essere l'assente Auster) o nonno emerito (Roth) –, e aggiunge di sentire «anche un certo disorientamento che nasce dalla responsabilità». Una preoccupazione comprensibile e condivisibile da parte del cauto recensore posto di fronte agli esordi, o ai passaggi, dei numerosi ultimi «talenti» (come Roth definisce Englander) cresciuti nel vivaio degli Stati Uniti. Il libro che abbiamo fra le mani sembra non deludere le promesse che qualcuno aveva depositato nelle prove precedenti di Englander. È una raccolta coraggiosa, matura nell'uso del tono e del dialogo asciutto, dialettica nell'ironia, spesso farsesca nella tragedia, addirittura irriverentemente fiabesca, come nell'avvio di Le colline sorelle, una microstoria della colonizzazione di un pezzo di terra in Samaria mentre scoppia la guerra del Kippur: una nube di polvere in lontananza turba il giorno dell'Espiazione e «Hanan fece un cenno d'assenso. E insieme ai suoi tre figli si incamminò verso la guerra». Tutt'altro è il tono della scioccante cronaca sul possesso di una figlia da parte di due madri, una cronaca che, da quell'inizio, giunge fino ai nostri giorni riflessa nello specchio sempre fluttuante del territorio sul confine arabo, e della disputa armata sul suo possesso. La figurina femminile ritratta sul punto di abbattere con l'accetta un simbolico ulivo secolare nella copertina quasi ‘fiabesca di questo libro ne è l'indomita protagonista.
Englander è in grado di trattare la Storia, e la condizione umana intrappolata nel dramma storico, con un «black humor» inflessibile, understatements stranianti e spinosi. A differenza di molti suoi predecessori americani, in lui non c'è un vittimismo compiaciuto, spesso parodiato nel lamento brillante e psicanalizzato sulle sfortune dell'io etnico. C'è una diversa ‘commedia nera, imbastita in costruzioni antifrastiche che si traducono in controluce per far emergere, come in un «Peep show» a luci rosse, le cattive coscienze, le laiche inosservanze, le tenaci ortodossie, le verità del «gioco di Anne Frank», o le trasformazioni grossolane e menzognere di una storia famigliare (Tutto quello che so della mia famiglia dalla parte di mia madre): visioni dal buco della serratura che dalla Storia si trasferiscono nella vita corrente.
La vita è ormai lenita dal sogno americano per un gruppo di vecchi «sopravvissuti» con il numero tatuato sul braccio, ospiti di un campo estivo nel New England, un campo diverso da altri «campi» da loro frequentati nel lontano passato. Tutto sembra scorrere per il meglio, a parte piccoli inconvenienti, i soliti pettegolezzi, e invece eccolo, tutto d'un tratto lo riconoscono, sul loro campo americano, quel nazista del vecchio campo del paese lontano. Nell'effervescente paranoia senile del gruppo minacciato dall'alzheimer non c'è via d'uscita per l'eterno spettro. «È colpa della storia, se certi pensieri orribili vengono fuori». La storia è crudele, ma è ancora più crudele se la si ripete nel presente con una ‘misura per misura e un ‘campo per campo. Sembra non esserci via d'uscita. E non si presentano vie d'uscita neanche a generazioni più recenti in una cittadina di Long Island. Il finale di Come vendicammo i Blum è ribaltante per i ragazzi che si ribellano alla violenza di un «Antisemita»: l'esito vittorioso della clownescamente architettata ritorsione porta loro solo una nuova consapevolezza: la vecchia paura radicata nella memoria atavica («facciamogli vedere cos'è la paura», dice del presunto nazista uno dei villeggianti di Camp Sundown).
È vero, altre fughe, ma di più ambigua lettura, si possono cercare in un bordello per guardoni e palpatori (Peep show), dove il passato abiurato dal protagonista si manifesta nella presenza denudata e comicamente infernale dei mostruosi rabbini della sua yeshiva. Il confronto serve a smascherare i segreti di entrambe le parti. Da guardone Allen si trasforma in guardato (e giudicato), fin nei panni sporchi della sua adolescenza. Ma è il Rabbi che egli intende giudicare a sua volta: «ho abbandonato la mia religione per colpa di quelli come lei» (e per «religione » qui si può intendere anche Storia). Gira le spalle ai suoi maestri e, da riprovevole e osceno oggetto di sguardo, si offre – quasi eucaristicamente, come «oggetto del desiderio» – al contatto delle mani di un sudamericano.

domenica 16 settembre 2012

Il nome della traduttrice

Ah, che lagnosi questi traduttori, vogliono sempre che si citi il loro nome nelle recensioni. Adesso hanno persino aperto una pagina su Facebook per raccogliere le segnalazioni delle recensioni che escono senza il nome del traduttore. Qualcuno deve averli addirittura convinti che esista una legge che lo impone, una fantomatica "Legge n. 633 del 22 aprile 1941", che all'Art. 70, Comma 3 direbbe: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta."

Se andate su quella pagina Facebook e magari cliccate su "mi piace" (grazie!), vedrete che da qualche parte c'è anche il mio nome, che è misteriosamente scomparso da svariate recensioni di Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank.

Per fortuna, però, qualcuno se lo è ricordato.


mercoledì 5 settembre 2012

Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank, di Nathan Englander

Eccola, è appena uscita la mia ultima traduzione

Di Nathan Englander avevo già tradotto Il ministero dei casi speciali, e ora ho lavorato con grandissimo piacere a questa splendida raccolta di racconti.

QUI trovate lo speciale sul sito dell'Einaudi.

QUI l'articolo di Siegmund Ginzberg sulla Repubblica.

E qui sotto trovate un brano del primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta. 

– Mi ricordo che quando eravamo ragazze mi proponeva sempre, – dice Shoshana, girandosi verso Deb, – mi proponevi sempre questo tipo di giochi. Scegliere un nascondiglio. E quell’altro, ancora peggiore, ancora piú macabro…
– Zitta, – dice Deb.

– So cosa stai per dire, – intervengo, sinceramente emozionato.

– Il gioco, vero? L’ha fatto anche con te, quel gioco folle?

– No, – dice Deb. – Basta. Lascia perdere.

E Mark, che è completamente immerso nell’analisi delle certificazioni kosher, che sta strappando l’involucro di pacchi di merendine da cento calorie e ingozzandosi di noccioline tostate che prende a manciate da un barattolo, e che da quando siamo entrati nella dispensa ha pronunciato solo una frase, ora s’interrompe e dice: – Voglio giocare a questo gioco.

– Non è un gioco, – risponde Deb.

E sono contento di sentirglielo dire, perché è proprio quello che cerco di farle ammettere da anni. Che non è un gioco. Che è una cosa serissima, una specie di preparazione, e una vera e propria patologia che preferisco non assecondare.

– È il gioco di Anne Frank, – dice Shoshana. – Giusto?

Vedendo che mia moglie è molto turbata, faccio del mio meglio per difenderla. – No, non è un gioco, – dico. – È solo di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank.

– Come si gioca a questo non-gioco? – dice Mark. – Cosa dobbiamo fare?

– È il gioco del Gentile Giusto, – dice Shoshana.

– Altrimenti detto «Chi mi nasconderà?», – aggiungo.

– Nell’eventualità di un secondo Olocausto, – dice Deb in tono esitante, arrendendosi. – È una seria esplorazione, un esperimento di pensiero.

– Un gioco, – dice Shoshana.

– A volte ci chiediamo quali dei nostri amici cristiani ci nasconderebbero, nel caso di un Olocausto americano.

– Non capisco, – dice Mark.

– Come no, – dice Shoshana. – Certo che capisci. Funziona cosí. Se ci fosse un’altra Shoah, se succedesse di nuovo, se fossimo a Gerusalemme nel 1941 e l’avesse vinta il Gran Muftí, cosa farebbe il tuo amico Jebediah?

– Cosa potrebbe fare? – dice Mark.

– Potrebbe nasconderci. Potrebbe rischiare la sua vita, quella dei suoi famigliari e di tutti quelli che lo circondano. Il gioco è questo: farebbe questo per te, lo farebbe davvero?

martedì 13 dicembre 2011

Un altro aneddoto di traduzione: il wedgie

A quanto pare finisco spesso per raccontare aneddoti di traduzione che hanno a che fare con parolacce. Dopo l'aficasìa di Junot Díaz e la fuck-accia di Jonathan Franzen (che è finita anche sul sito del Dizionario Zanichelli), qualche giorno fa, traducendo questo, mi sono imbattuta nella seguente frase:
"He was out cold when we got there, beaten unconscious with his helmet on, his stick and gloves missing. We were no experts at forensics, but we knew immediately that he'd been worsted. And because he was suspended by his underwear from one of the bolts on the swing set, we also knew that a wedgie had been administered along the way."
Il povero bambino aveva subito un wedgie, ossia quello scherzaccio  in cui qualcuno arriva da dietro e tira su con forza le mutande del malcapitato, in modo da infilargliele dolorosamente fra le natiche.
Wikipedia elenca una serie di varianti sul wedgie di base, come il Melvin (detto anche Minerva se praticato su una donna), in cui le mutande vengono tirate su dal davanti (pericoloso); l'Atomic Wedgie, in cui l'elastico delle mutande viene tirato su fin sopra la testa, e lo Hanging Wedgie, in cui la vittima viene appesa per le mutande: il caso specifico di cui si parla nel racconto. 
Questa volta, per risolvere il problema, ho deciso di chiedere aiuto su facebook. I primi consigli che ho ricevuto mi rimandavano alla versione italiana dei Simpson o di film come American Pie, dove la parola wedgie viene tradotta con "smutandata". Ora, in passato mi era già capitato di usare il termine "smutandata" per tradurre wedgie, e tuttavia mi restavano dei dubbi sull'accuratezza di tale traduzione. A me "smutandata" fa venire in mente una persona senza mutande, idea confermata da siti sulla lingua gergale come questo (che mi davano "smutandata" come "allegra ragazza dalla mutandina facile e senza pudore", oppure "sinonimo di spogliarello") ma anche da colleghe come Valentina Daniele, che nei commenti al mio post mi spiega che "'smutandare' a Roma significa 'mettere in mutande', far fare una figuraccia".
I commenti su facebook continuano ad arrivare, e a un certo punto parte un dialogo fra altri due colleghi, Costanza Prinetti e Piero Ambrogio Pozzi, nel quale si arriva, passando per "infraculo" [sinonimo di tanga, N.d.T] al commento definitivo di Piero: "... nel quale lo chiamano 'sparticulo'".
E allora eccola qui, come diceva Calvino, la parola unica e perfetta: d'ora in poi il wedgie sarà... lo sparticulo!