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domenica 7 settembre 2014

I colpi, un racconto di David Means

Di questo bel libro ho già parlato QUI. Ve ne propongo un altro estratto. QUI trovate la versione originale.
Ora, io mi chiedo: se dopo aver tradotto Jonathan Franzen sono diventata un'ornitofila, e dopo aver tradotto questo racconto mi sono ritrovata gli elefanti al piano di sopra (i nuovi vicini sono rumorosi quanto le cheerleader), forse dovrei sperare di tradurre un libro in cui qualcuno vince alla lotteria?

 
"L’uomo al piano di sopra si ferma un momento, giusto per aumentare la tensione, e poi ricomincia, all’inizio più adagio, andando da est a ovest e poi di nuovo a est, dirigendosi verso il lato dell’edificio affacciato su Fifth Avenue; fa una pausa per orientarsi, per guardare il panorama, immagino, prima di dirigersi a ovest; fa una pausa proprio qui sopra, per stuzzicarmi, prima di rimettersi in movimento per qualche minuto, stabilendo l’andatura con moto oscillante, seguendo il tracciato delle pareti dell’appartamento – il suo identico al mio, perfettamente identico – e poi c’è un’altra pausa, e io mi piego all’indietro per esaminare il soffitto e sento, in lontananza, il suono dei colpi nella sua cucina, e infine – forse cinque minuti dopo, forse di più – torna indietro e comincia, persistente e regolare, senza la solita aggressività, come se mi avesse dimenticato, messo da parte, come se avesse rinunciato al suo desiderio di vendetta, offrendomi una tregua dalla natura dei suoi colpi. Forse una tregua di cinque minuti, più o meno, perché è impossibile indovinare quanto dureranno questi momenti di silenzio che si aprono al piano di sopra, sapendo, durante l’attesa, che i colpi ricominceranno, se non con un rumore di tacchi, allora sotto qualche altra forma: forse il suono del martello che usa per piantare i chiodi (è un grande piantatore di chiodi. Appende quadri a tutte le ore), oppure il tonfo gommoso della stampante in funzione (è un grande stampatore, sforna documenti nel cuore della notte, all’alba e al tramonto), o il tonfo del materasso che urta contro le doghe, accompagnato dal sibilo delle molle (il sibilo non è ufficialmente un colpo, certo, ma funziona come una specie di arabesco, un ornamento ai colpi del materasso che arrivano dopo qualche indolente oscillazione del letto). Altri suoni che potrebbero rientrare nella famiglia dei colpi mi si accumulano nella mente questo pomeriggio, un’intera storia di schianti fragorosi cominciata due anni fa, il giorno in cui venni ad abitare qui – una cornucopia di rumori diversi che comprendevano botte su pentole/padelle, il tonfo sordo dell’intonaco, lo sgocciolio gorgogliante dell’acqua, il risolino stridulo e graffiante che andò avanti per una settimana, i gemiti incessanti, e l’angoscioso sospiro di abbandono che si levava a intermittenza e che da principio mi era sembrato umano ma poi, nel giro di qualche giorno, aveva assunto un carattere meccanico, ripetuto, dal quale avevo capito che si trattava di una registrazione, una sorta di nastro in loop. Era un tipo così, lui. Disposto a fare ben oltre il necessario per scoprire come produrre un nuovo rumore, e per scoprire come ripeterlo all’infinito. Era il tipo che avrebbe imparato una nuova tecnica, un nuovo modo di appoggiare il tacco a terra, di alzare le dita del piede in modo che scuotessero un’asse del pavimento, per poi lavorare con efficienza da ginnasta – tutto ossa e muscoli – per trasmettere il suono attraverso il nudo pavimento prebellico, fatto di tavole di quercia dure e risonanti, abbastanza solide da resistere ai colpi più violenti. (...)"


David Means, dal racconto I colpi, in Il punto. Traduzione mia

 © 2014 Einaudi, Torino

lunedì 28 aprile 2014

Il punto, di David Means

«Sarebbe stato bello guardare le erbacce del giardino ondeggiare dolcemente, arrendendosi al vento; dalla strada sarebbe arrivato un leggero odore di catrame; la casa avrebbe ansimato e cigolato piano sotto il sole ardente, e lei avrebbe girato per le stanze e le avrebbe esaminate in cerca di indizi, di vestigia perdute della vita che si era svolta in quella casa prima che venisse ridotta a vetri rotti, a lunghe ferite nell’intonaco che mostravano il graticcio retrostante; si sarebbe prostrata carponi davanti a Dio; si sarebbe ritrovata nel seminterrato, tra la luce polverosa che entrava dai pozzetti, l’odore di nafta e il pavimento di terra battuta, compattato in quell’angolo laggiù, sotto il vecchio tavolo, in quella rientranza piena di ragnatele che lei ricordava da quando aveva esplorato la casa insieme agli uomini, e Byron aveva picchiato sul vecchio serbatoio mentre August, trascinando in giro la sua mole, faceva un balletto e cantava Sympathy for the Devil; avrebbe provato l’impulso di trascorrere il resto dell’eternità là sotto, in quella fresca oscurità, perché in quel momento, mentre guidava, desiderava solo togliersi dal sole abbagliante e dall’impressione che il territorio selvaggio in cui si trovava fosse così levigato dalla luce che era impossibile guardarlo».
David Means, Il punto, traduzione mia
 © 2014 Einaudi, Torino

Questi bei racconti stanno ricevendo recensioni entusiaste. QUI Ernesto Aloia su il Giornale, QUI Christian Raimo su Europa Quotidiano, QUI Cristiano de Majo su Rivista Studio.


sabato 29 marzo 2014

Mai ci eravamo annoiati, di Renata Adler


"Una volta ho visitato l’Università della California a Santa Cruz. Era ricca, e vicina al mare, e piena di sequoie. Gli studenti che non avevano voglia di andare a lezione a piedi venivano trasportati in calesse. Non c’era modo di organizzare uno sciopero studentesco, perché era permesso quasi tutto. A lezione non venivano segnate le presenze. L’unico modo per scioperare era andare a lezione con una fascia nera al braccio, simbolo degli scioperanti. Gli studenti volevano scioperare a favore degli abitanti di Santa Cruz, che li detestavano. Lo sciopero consisteva in un boicottaggio dell’uva. Gli studenti picchettavano i negozi che vendevano uva. Gli abitanti compravano tutta l’uva e la sventolavano in faccia agli studenti. Non c’era alcuna comprensione reciproca. I poliziotti erano lì per proteggere gli studenti dagli abitanti armati di bastone. Gli studenti pensavano che gli abitanti fossero oppressi dai poliziotti. L’istruzione, forse, a suo modo, ne soffriva. «Qui l’unico modo per ottenere il numero legale in classe» mi ha detto un professore «è con un corso in Addestramento alla Sensitività o Meditazione Trascendentale.» Me ne sono andata presto."

Renata Adler, Mai ci eravamo annoiati, traduzione mia
 © 2014 Mondadori, Milano

Per saperne qualcosa di più, leggete QUI.

sabato 2 giugno 2012

Storia parziale delle cause perse


Per qualche giorno sarò lontana da internet. Vi lascio con una barzelletta russa.
 
«Allora, c’è Stalin che appare in sogno a Putin» disse Viktor. «Putin, gli fa Stalin. Per mantenere il potere devi fare due cose: dipingere il Cremlino di verde e uccidere tutti i tuoi avversari politici. Putin lo guarda e gli risponde: perché di verde?»

La trovate nel libro Storia parziale delle cause perse, di Jennifer DuBois, appena uscito per Mondadori e tradotto da me.



lunedì 25 luglio 2011

Il giocoliere della motosega, un racconto di Arthur Bradford

Da oggi fino alla fine di agosto il blog entra in modalità risparmio energetico, nella quale verranno pubblicati un paio di post alla settimana. Da settembre si riprenderà a ritmo normale.

Nel frattempo auguro buone vacanze a chi le farà, e vi offro una piccola lettura estiva.

Mentre scrivevo degli artisti della motosega, nel mio post precedente, mi sono ricordata di un libricino delizioso da me tradotto per Einaudi alcuni anni fa, Dogwalker, di Arthur Bradford. Si trattava di una raccolta di racconti assurdi e divertenti, tra i quali ce n'era uno intitolato Chainsaw Apple, che nella traduzione è diventato Il giocoliere della motosega.

Il racconto comincia così:

IL GIOCOLIERE DELLA MOTOSEGA

Arthur Bradford

Mi sembrava un giochino piuttosto semplice. Il mio amico Robert doveva tenere la mela in bocca mentre io, con mano ferma, intagliavo le sue iniziali nel frutto con una motosega. – Sembra pericoloso, ma non lo è, – dissi a Robert. – Non c'è proprio niente di cui preoccuparsi.
Prima feci un po’ di pratica, naturalmente. Infilzai una mela in cima a un bastone e poi misi in moto la sega. Ma il bastone non era un sostegno adeguato, e la mela schizzò via nel cortile non appena la sfiorai. Davvero un arnese eccellente, la motosega – potenza, velocità e grazia riunite in un unico oggetto. Una volta ho visto gente pratica di motoseghe ricavare un cigno maestoso da un blocco di ghiaccio. Ci ho provato anch’io, ma alla fine ho perso la pazienza. I cigni hanno il collo così delicato.
Il morsetto si rivelò un ottimo sostituto della bocca umana. Robert mi guardava da lontano mentre cominciavo a perfezionare la tecnica. Un leggero colpetto con la punta della lama era sufficiente per lasciare il segno. La sega fendeva la polpa della mela con estrema facilità. Ma la piccola curva della lettera R rappresentava un problema. Inoltre, per peggiorare la situazione, il cognome di Robert era Ulfburg, e la vera sfida consisteva nell’intagliare quella U senza farla sembrare una V.
– Vorrei che ti chiamassi Xavier Lewis, – gli dissi.

Il resto potete leggerlo QUI


martedì 22 marzo 2011

Annie Proulx: Ho sempre amato questo posto

 Un altro libro che ho tradotto con grande piacere è Ho sempre amato questo posto (Fine Just the Way It Is), della grande Annie Proulx, autrice nota in Italia soprattutto per il racconto Brokeback Mountain (contenuto nella raccolta Close Range: Wyoming Stories, pubblicata in Italia nel 1999 con la traduzione di Fenisia Giannini e Mariapaola Dettore) da cui è stato tratto il famoso film di Ang Lee. 
Si narra che dopo aver raccontato le avventure dei due cowboy gay, Annie non sia più stata tanto ben vista nel bar dove andava a raccogliere storie, un locale frequentato appunto da cowboy vicino al suo ranch nel Wyoming.
Annie ha vinto anche il National Book Award (nel 1993) e il Pulitzer (nel 1994) con il bellissimo The Shipping News (pubblicato in Italia nel 1996 con il titolo Avviso ai naviganti e la traduzione di Edmonda Bruscella).

Ecco cosa scrive Antonio Monda su Repubblica, parlando di Ho sempre amato questo posto: "(...) Proulx ci consegna delle storie segnate da passioni grandi e infelici, e da un destino ineluttabile che sembra il contraltare della severità di una natura eterna, silenziosa e implacabile (...) Ron Carlson sul New York Times ha scritto che la Proulx, ormai settantatreenne, 'scrive come un diavolo', e l'itinerario drammatico dei personaggi, così come l'evoluzione delle storie, sembra che sottintendano un invito a condividere un senso tragico della vita, nel quale anche 'l' amore non porta nulla di buono' e persino 'morire' può essere 'noioso'. Questo pessimismo cosmico (...) viene accentuato dalla presenza imprescindibile di una violenza efferata, nei quali anche gli oggetti inanimati 'bramano il sangue'. I racconti (...) celebrano a modo loro i grandi spazi e le vite solitarie della gente del Wyoming." 

Pubblico qui l'inizio del racconto Un padre di famiglia, il primo della raccolta Ho sempre amato questo posto, da me tradotta per Mondadori nel 2009.

"La Mellowhorn Home era un edificio di tronchi a un piano e a pianta irregolare, arredato in stile western: mobili rivestiti di stoffa a motivi geometrici 'indiani', paralumi con frange di pelle scamosciata. Alle pareti erano appese le teste di cervo mulo del signor Mellowhorn e una sega trasversale a doppio manico.
Era il periodo dell’anno in cui Berenice Pann avvertiva l’ingresso della terra nell’oscurità, non un buon periodo, pensava, per cominciare un lavoro, soprattutto se deprimente come accudire anziane vedove di allevatori. Ma aveva preso quello che aveva trovato. Non c’erano molti uomini nella casa di riposo Mellowhorn, e quei pochi erano così assediati dalle donne che Berenice li compativa. Aveva sempre creduto che la pulsione sessuale si affievolisse in tarda età, ma quelle megere si contendevano i favori di vecchi paralitici dalle grosse braccia tremolanti. Gli uomini potevano scegliere tra un vasto assortimento di vestaglie informi e scheletri a fiori.
I tre cani dei Mellowhorn, defunti e impagliati, montavano la guardia in punti strategici: accanto alla porta d’ingresso, alla base delle scale e di fianco al rustico mobile bar ricavato da vecchi pali di staccionata. Tre targhette pirografate conservavano i loro nomi: Joker, Bugs e Henry. Se non altro, pensò Berenice accarezzando la testa di Henry, da lì si godeva di una bella vista sulle montagne circostanti. Aveva piovuto tutto il giorno, e adesso i ciuffi d’erba spuntavano dalle tenebre sempre più fitte come ciocche di capelli ossigenati. Lungo un vecchio canale d’irrigazione i salici formavano una linea frastagliata color rosso cupo, e il laghetto artificiale ai piedi della collina era piatto come una lastra di zinco. Berenice si avvicinò a un’altra finestra per vedere la perturbazione in arrivo. A nord-ovest un gelido spicchio di cielo lattiginoso spingeva avanti la pioggia. Un vecchio sedeva davanti alla finestra della sala comune a contemplare l’autunno grigio. Berenice conosceva il suo nome, conosceva il nome di tutti: Ray Forkenbrock.
«Le porto qualcosa, signor Forkenbrock?» Ci teneva a chiamare i residenti con l’appellativo adeguato, a differenza degli altri membri del personale, prodighi di nomi propri come se lì dentro fossero tutti amici di vecchia data. Deb Slaver si prendeva fin troppa confidenza, e inframmezzava i vari 'Sammy', 'Rita' e 'Delia' con una sfilza di 'tesoro', 'cara' e 'bellezza'.
«Sì» disse il signor Forkenbrock. Parlava con lunghe pause tra una frase e l’altra, un lento succedersi di parole che facevano venir voglia di suggerirgli il resto della frase.
«Portami via di qui» disse.
«Portami un cavallo» disse.
«Portami indietro di settant’anni» disse.
«Questo non posso farlo, però posso portarle una bella tazza di tè. E fra dieci minuti comincia l’Ora Sociale» disse Berenice.
Non riuscì a guardarlo negli occhi. Aveva una presenza notevole, malgrado la faccia ordinaria, con la bocca sdentata e il collo scarno. Erano gli occhi. Li aveva molto grandi, spalancati e di un azzurro chiarissimo, come un blocco di ghiaccio rotto con il punteruolo: un celeste pallido con raggi cristallini. In fotografia sembravano bianchi come gli occhi delle statue romane, e solo i puntini neri delle pupille li salvavano dallo sguardo cieco delle statue. Quando la guardava con quegli strani occhi bianchi, Berenice non capiva più niente di quello che le diceva. Il signor Forkenbrock non le piaceva, malgrado fingesse di trovarlo simpatico. Le donne dovevano fingere di apprezzare gli uomini, di avere i loro stessi interessi. Sua sorella aveva sposato un uomo appassionato di pietre, e adesso le toccava accompagnarlo in giro per deserti e montagne."