Sempre a proposito di gioiellieri, ieri il supermercatino all'angolo ha fatto una svendita di heirloom tomatoes. Da $5.99 alla libbra (cioè, vediamo, 6 dollari per mezzo chilo fa dodici dollari al chilo, cioè tipo 9 euro al chilo. Ecco, lo sapevo che era meglio se non facevo la conversione) a $1.99 alla libbra (circa 3 euro al chilo). Dovete sapere che questi pomodori heirloom venduti a peso d'oro (quest'anno più del solito a causa della tremenda siccità che sta devastando l'agricoltura della California. Considerato che l'unica stagione in cui piove è l'inverno e che lo scorso inverno non ha quasi piovuto, stiamo parlando praticamente di un anno e mezzo senza pioggia) sono di una bontà sublime, ma io quest'estate li avevo mangiati solo a cena da amici ricchi, mentre per le mie insalate mi toccava accontentarmi dei più economici perini, saporiti come quelli della coop di casa mia che li importa idroponici dall'Olanda. Bene, detto questo vado a pranzo, un po' di olive nere e di feta e mi sembrerà persino di essere in estate.
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venerdì 29 agosto 2014
giovedì 28 agosto 2014
Scherzetto
Allora, era da un po' che passavo davanti a quel cartello dell'orrida macelleria-gioielliere che adesso fa anche il ristorante con tavolini di fianco al banco della carne e pensavo di fargli uno scherzetto. Non vedevo l'ora di avere con me la macchina fotografica. Per il resto basta Paint :-)
domenica 19 gennaio 2014
Bizzarre pizze
A Sydney c'è quella al coccodrillo
Per le gite c'è quella in barattolo
Per i bambini, la pizza lecca-lecca
A New York la trovate nel cono, come il gelato
Poi c'è la pizza più cara del mondo (con aragosta marinata nel cognac, caviale inzuppato nello champagne, salmone affumicato scozzese, medaglioni di selvaggina e scaglie d'oro commestibile a 24-carati): $2400
E molte altre che trovate QUI.
sabato 13 aprile 2013
Progetto Cibo al Mart
Peccato che il Mart è troppo lontano, perché questa mostra dev'essere proprio bella. Andateci, se potete. Sembra una cosa modaiol-fighetta, ma Mr. K ha ricevuto il catalogo perché vuole parlarne in un articolo, e vi assicuro che è una meraviglia (c'è anche tanto Munari).
"In questi ultimi anni il dibattito intorno al cibo ha raggiunto livelli inediti di coinvolgimento del pubblico. E anche il mondo del design, che sempre registra e spesso anticipa le tendenze estetiche e culturali, ma anche socioeconomiche e antropologiche, ha dedicato grande attenzione al mondo dell’alimentazione, mostrando creatività, curiosità e grande capacità innovativa."
"In questi ultimi anni il dibattito intorno al cibo ha raggiunto livelli inediti di coinvolgimento del pubblico. E anche il mondo del design, che sempre registra e spesso anticipa le tendenze estetiche e culturali, ma anche socioeconomiche e antropologiche, ha dedicato grande attenzione al mondo dell’alimentazione, mostrando creatività, curiosità e grande capacità innovativa."
venerdì 1 febbraio 2013
lunedì 30 aprile 2012
Riflessioni sulla Nutella
La notizia della mamma californiana che fa causa alla Nutella per pubblicità ingannevole e fa partire una class action che costringerà la Ferrero USA Inc. a pagare un risarcimento di più di tre milioni di dollari mi aveva lasciato piuttosto indifferente. Un sorrisino di scherno per la solita californiana salutista rompiscatole, niente di più. Non che fossi dalla parte della multinazionale, però trovavo un po' esagerata la posizione ipersalutista.
Poi, questa mattina, ho letto un interessante articolo di Luca Celada su Losangelista e ho cambiato idea sulla signora Athena Hohenberg. Sarà anche una rompiscatole, però ha ragione. Ecco cosa dice l'articolo di Celada:
"(...) La società, che in materia di disinformazione
pubblicitaria è recidiva, dovrà modificare le etichette sulle
confezioni vendute in America per riflettere più chiaramente che
l’alimento in questione contiene zuccheri e grassi saturi in quantità
tipiche dei dolciumi e risarcire ogni consumatore che l’abbia acquistata
negli ultimi quattro anni e che ne faccia richiesta. Al solito la
notizia ha suscitato numerosi commenti sul vittimismo di chi farebbe
meglio ad usare il buonsenso invece di correre a piangere in tribunale
per qualsiasi inezia. A noi però sembra che fondamentalmente la storia
riproponga la questione della protezione dei consumatori al tempo
dell’alimentazione industriale. La Ferrero e la sua crema avranno pure
origini radicate in tradizioni più artigianali di molti cibi di massa,
ma stiamo pur sempre parlando di una multinazionale agroalimentare con
un fatturato di 6 miliardi di euro, 20000 dipendenti e un’impronta
globale di dolciumi mirati ai bambini in un momento di obesità endemica
ed esplosione di patologie legate all’alimentazione squilibrata. Una
posizione che nel mondo competitivo dell’alimentazione di massa si
raggiunge e si mantiene solo con una massiccia operazione di marketing
come la Ferrero fa dai tempi di Carosello; ancora più della qualità
della cioccolata il genio dell’azienda è stato l’imprinting a tappeto
di generazioni di consumatori mediante 'narrative' sui loro dolci, fra
cui quella di come siano 'sani e genuini'. Ora l’opposto della
pubblicità è l’informazione, ad esempio sugli ingredienti e sulle
qualità nutritive dei prodotti venduti, e non a caso le lobby del
settore sostengono costanti campagne contro norme di trasparenza in
materia.
Più singolare è invece l’attitudine della nostra stampa, che
in questioni di Nutella sembra interpretare il proprio ruolo come
difensore dell’onore della multinazionale italiana dagli attacchi del
subdolo straniero. Sia Repubblica che il Corriere
riportando la notizia
hanno lasciato l’ultima parola alla società, trascrivendo ampi stralci
del comunicato della Ferrero; Repubblica gli dedica 2 di 4 paragrafi del proprio articolo e conclude con lo slogan integrale della società: “L’utilizzo
di Nutella a prima colazione con pane, latte e frutta nelle quantità
suggerite – conclude la Ferrero – rimane un utilizzo raccomandato da
numerosi studi scientifici di alta rilevanza internazionale nel quadro
di una dieta equilibrata e gustosa, che come dice la pubblicità, fa più
buona la vita”. Ah beh, se lo dice pure la pubblicità… appunto. Anche dal Corriere ampio risalto al comunicato aziendale in cui si legge tra l’altro che «L’accordo
transattivo raggiunto da Ferrero negli Stati Uniti è relativo al solo
contenzioso nato dalla pubblicità trasmessa negli Stati Uniti e alla
conformità di quest’ultima alle esigenze della legislazione americana.
Non vi è nessun tipo di necessità di correggere da parte dell’azienda i
suoi comportamenti commerciali e pubblicitari negli altri paesi ». Meno
male, così non ci dobbiamo metterci a leggere tutte quelle parole
noiose scritte piccole piccole sull’etichetta come quegli sfigati
californiani. Tiè! (...)

Quadrato insomma attorno alla crema nazionale, e al nostro diritto di
non sapere cosa ci mangiamo. Un autolesionismo efferato, che ricorda
quello degli elettori repubblicani che marciano per il diritto a non
essere curati perché la previdenza sanitaria è un concetto socialista. E così i consumatori italiani e europei per il momento sono
salvi dalle informazioni sugli ingredienti che mangiano. In realtà
sull’etichettatura non è che si brilli né da una parte né dall’altra
dell’Atlantico. Le multinazionali combattono la trasparenza con medesimo
vigore in Europa e USA dove ad esempio le etichette non riportano la
presenza di ingredienti OGM, (...) ma non ci sembra una buona
ragione perché anche i giornali si debbano schierare per il diritto
all’ignoranza a difesa dei produttori. Come dimenticare il putiferio
sollevato un paio di anni fa quando la UE tentò di applicare le norme
sui valori nutrizionali scatenando l’allarme di ansimanti titolatori: “La Ue dichiara guerra al mito Nutella”, “Allarme: Nutella a Rischio”.
(...) Accanto alla tutela del made in Italy (...) l’argomento che spunta regolarmente in questi casi è quello
del buonsenso per cui 'veramente abbiamo bisogno di uno stato-balia che
ci spieghi che lo zucchero fa ingrassare?' La mamma californiana che ha
denunciato la Ferrero perché i suoi spot l’avevano convinta a cibare
ogni mattina la propria bimba di zucchero e olio di palma anziché
cereali e frutta sarà anche ingenua, ma il fatto che abbia prodotto
delle etichette più oneste francamente non dispiace. Va bene imprinting e patriottismo, ma davvero vogliamo batterci per il diritto delle
corporation a raccontarci le frottole?"
lunedì 19 marzo 2012
Giù le mani dal latte!
"Saverio, puoi dare tu il latte al bambino?"
Al momento di correggere questa frase del tutto innocua (esercizi di grammatica sui verbi modali. "Può" viene spesso pronunciato "puah"), i miei studenti mi guardano con gli occhi sgranati. Cosa c'è di strano, penso, qui gli uomini sono ben più abituati che in Italia ad aiutare in casa, no?
E poi mi viene in mente. Lo stramaledetto latte. Faccio un profondo respiro e spiego: "Ok, latte in italiano non vuol dire quello che pensate voi". Occhi ancora più sgranati. "If you ask for a latte in Italy, you don't get coffee with milk. What you get is a glass of milk".
Io bevo di rado il caffè fuori casa, e ancora più di rado metto piede da Starbucks (il principale responsabile del fenomeno linguistico che definirei "furto del latte"), e così non avevo ben chiaro quanto il "nuovo" significato del latte fosse diffuso da queste parti. Sì, perché è vero che sul menu di Starbucks c'è scritto Caffè Latte, ma per comodità si è cominciato a chiamarlo "Latte", e ora tutti pensano che anche in Italia quella broda marroncina si chiami latte.
Tempo fa avevo letto un interessante articolo sul "New Yorker" che parlava della cultura del caffè in America (l'articolo ripercorre le "tre fasi" del caffè negli Usa: da Maxwell House a Starbucks all'attuale ondata di caffè gourmet da fighetti, dove la gente si mette in coda per bere una tazza di caffè proveniente da una specifica piantagione in una specifica annata con una specifica tostatura, preparato con un metodo specifico che richiede qualcosa come dieci minuti per tazza. Questi locali, come il Blue Bottle di Oakland e San Francisco, hanno lunghi menu, cupping rooms per la degustazione e prezzi che partono da $6 a tazza).
Leggendo l'articolo - che il "New Yorker" ha messo online solo per gli abbonati, ma che qualcuno ha postato ugualmente qui - mi ero stupita di come i famosi fact-checkers della rivista avessero lasciato passare frasi come: "in 1983, during a business trip to Italy, he [Howard Schultz, CEO di Starbucks] tried latte for the first time"; e: "He retells the story of his magical trip to Italy, and talks about the
country's seductive espresso-bar culture. But one drink is conspicuous
by its absence from the story: latte".
Il caffè gourmet |
Giù le mani dal latte! |
Ora, io adoro la creatività dell'inglese, e mi fanno simpatia persino parole dal suono non proprio musicale come "frappuccino", perché credo che ognuno sia libero di inventarsi le parole che vuole. Ma rendermi conto che un intero paese è convinto che in Italia chiamiamo latte quella broda marroncina mi ha suscitato, diciamo, una certa perplessità.
domenica 22 gennaio 2012
lunedì 28 novembre 2011
Un'altra ricetta di Nonna Papera: la Apple Pie
Per la ricetta della più americana delle torte (come recita il detto "as American as apple pie") ho fatto riferimento a uno dei libri di cucina più amati dagli americani: il famoso Joy of Cooking (di cui qui trovate il sito web).
Fortunatamente non devo più ripetere la lunga ricerca compiuta mesi fa per trovare la ricetta migliore per la pasta della torta. Ci vuole la pasta brisée, e la ricetta la trovate QUI. (QUI invece la ricetta per il ripieno della torta di ciliegie).
Ecco invece come si prepara il ripieno della torta di mele:
- 1 kg di mele. Il libro consiglia le Golden Delicious, perché mantengono la consistenza e non inzuppano l'impasto. Come alternativa le Gala o le Fuji. Sconsigliate le Granny Smith, perché cotte diventano molli. (Secondo me vanno benissimo anche le renette).
- 100 gr. di zucchero
- 1 cucchiaio di farina
- 1 cucchiaino di succo di limone (facoltativo)
- 1 cucchiaino di cannella in polvere
- mezzo cucchiaino di sale


2. Stendete poco più della metà della pasta fino a formare una sfoglia tonda, spessa circa mezzo cm, che adagerete, foderandola completamente, in una tortiera preventivamente imburrata e infarinata.
3. Riempite la tortiera con il ripieno, poi stendete la rimanente pasta formando un altro cerchio con cui coprirete la torta, sigillandone i bordi.
4. Praticate alcuni fori sulla parte superiore, che serviranno per fare uscire il vapore durante la cottura. Spargetevi sopra 2 cucchiaini di zucchero e 1/2 cucchiaino di cannella.

Foto da qui, dove trovate anche un'altra ricetta |
lunedì 24 ottobre 2011
Il dolce più facile del mondo (Stati Uniti esclusi): il salame di cioccolato
I dolci non sono il mio forte. Anzi, diciamo che proprio non li so fare. Però ce n'è uno che mi viene benissimo, perché è il dolce più facile del mondo: il salame di cioccolato.
C'è un problema, però. Questo dolce semplice, veloce e squisito comprende fra gli ingredienti i biscotti secchi. Cioè, proprio quelli secchi secchi, i più economici, quelli nel pacco da un chilo che trovate nello scaffale più in basso del supermercato.
Ecco, questi biscotti negli Usa non si trovano. Negli Usa non esiste la meravigliosa usanza di intingere i biscotti nel tè o nel latte. I cookies non si mangiano per colazione. La gente ride, quando mi vede mangiare i biscotti per colazione. Biscotti, si badi bene, che ho trovato al termine di una lunga ricerca, dopo aver frugato sconsolata tra scaffali pieni di cose burrosissime, dolcissime e cioccolatose, che tutto sembrano meno che biscotti.
Fatteli da sola i biscotti, direte voi. Ma io, come dicevo, i dolci non li so fare. Tranne questo, che oltretutto è anche sgraziato a vedersi e poco fotogenico. Dopo una serata esilarante passata con le amiche a fingerci food photographer, la foto migliore che abbiamo ricavato è questa:
Tanto, insomma, lo sapete tutti che aspetto ha il salame di cioccolato. Vi sfido a farlo sembrare più bello di così.
Intanto, ecco la ricetta:
100 gr. di cacao amaro in polvere
300 gr. di biscotti secchi
150 gr. di burro
150 gr. di zucchero
1 tuorlo
1 bicchierino di marsala secco
Sbriciolate i biscotti. (Io in genere li metto dentro un asciugapiatti e poi li prendo a martellate.) Sciogliete il burro a bagnomaria, poi versatelo in una zuppiera e aggiungete gli altri ingredienti: prima il cacao, lo zucchero e il tuorlo, mescolando, poi i biscotti e infine il marsala. Mescolate bene l'impasto e poi versatelo sopra un foglio di carta stagnola, dove gli darete una bella forma cilindrica da salame. (A questo punto il livello di fotogenicità è al minimo). Infine schiaffatelo in freezer per qualche ora. E poi ditemi se non è buono.
martedì 30 agosto 2011
"Forget it, Jake. It's Chinatown." (Ancora sui ristoranti cinesi)
Prendo spunto dall'ultima battuta di Chinatown per spiegare il mio attuale atteggiamento nei confronti dei ristoranti del quartiere cinese.
Il post di ieri ha suscitato un po' di curiosità, e se riguardo alla Dragon Dance vorrei documentarmi meglio prima di rispondere, sui ristoranti cinesi posso sempre raccontarvi la mia esperienza.
Arrivata a San Francisco con l'esperienza dei ristoranti cinesi che in genere si fa in Italia, dove, a parte alcuni casi fortunati, "cucina cinese" equivale a pietanze tutte uguali precotte in scatola, ho sempre storto il naso all'idea di provare un ristorante cinese locale. Certo, ogni tanto mi è capitato, e anche se qui è più facile che i piatti siano effettivamente cucinati, anziché tirati fuori dalla scatoletta e riscaldati, non ho mai avuto esperienze esaltanti.
Qualche mese fa, però, mentre eravamo in visita a New York, la nostra amica Cheryl Tan, una giornalista e scrittrice originaria di Singapore che scrive di cibo e se ne intende assai, ci ha portati in un ristorante che ha cambiato la mia idea della cucina cinese. Si chiama The Grand Sichuan, fa cucina, appunto, del Sichuan, ed è un ristorante strepitoso, completamente diverso dalla cucina cinese standard che si trova più spesso nei ristoranti. Di recente, poi, ho anche avuto la fortuna di mangiare cucina cinese fatta in casa da un'amica cinese, e naturalmente l'ho trovata buonissima.
Incoraggiata da queste esperienze ho deciso di ignorare il luogo comune secondo cui a San Francisco, malgrado la città ospiti la più grande e la più antica Chinatown al di fuori dell'Asia, non esistono buoni ristoranti cinesi (e lasciate perdere The House of Nanking: lo consigliano tutte le guide, c'è sempre la fila fuori ed è pessimo). E così, quando ho notato un ristorante con cucina del Sichuan, ho deciso di provarlo. Il risultato è stato il solito piatto di verdure bollite e gamberetti per me (non c'era nient'altro che non fosse superpiccante o a base di carne - che in genere non mangio - o rane), e per Jonathon una ciotola stracolma di olio e peperoncino dove era stata cotta della carne di manzo (?). Il tutto corredato da un piccolo ramaiolo con il quale estrarre i pezzi di carne dall'olio in cui erano stati bolliti (o fritti? Come si chiamerà un tipo di cottura che prevede la stufatura della carne immersa nell'olio?). Ho trovato online una foto che ci somiglia, ma nella ciotola di Jonathon (che ha mangiato tutto con gusto) c'era più olio.
lunedì 8 agosto 2011
L'impasto della cherry pie: la ricetta definitiva
A questo punto sono partita alla ricerca di una ricetta migliore per la pasta della pie (per il ripieno fate pure riferimento a quella riportata qui, che va benone. Prossimamente pubblicherò anche la ricetta del ripieno per la torta di mele).
Ho cominciato a chiedere in giro, e raccogliendo informazioni da amiche e studentesse ho scoperto che per fare la pasta della pie, si usa spesso un ingrediente che in Italia non esiste: il Crisco, quello che qui chiamano shortening, o "grasso alimentare". In pratica, nelle ricette che ho sentito non è mai previsto l'uso di solo burro, bensì una parte di burro e una parte di Crisco. E con cosa si può sostituire, il Crisco? Con strutto o margarina. Le mie consulenti hanno arricciato il naso davanti a entrambe le soluzioni, perché lo strutto finirebbe per dare un sapore troppo marcato all'impasto, mentre la margarina viene considerata troppo "chimica" (non che questo Crisco mi sembri proprio ultragenuino).
Alla fine probabilmente la cosa migliore rimane la margarina, anche perché sembra che possa sostituire in uguale quantità lo shortening, mentre per lo strutto bisognerebbe cambiare le dosi.
Ciascuna consulente mi ha citato la sua "personale bibbia" culinaria, mitici libri di cucina come il Betty Crocker's Cookbook, The Joy of Cooking e il Fannie Farmer Baking Book di Marion Cunningham. Marion Cunningham non era quella di Happy Days, bensì questa persona reale. Betty Crocker invece non è mai esistita, ma è stata creata a tavolino per incarnare la cuoca perfetta (con quel nome, Betty, scelto perché suonava "caldo e amichevole"), come è spiegato qui.
Tutte queste ricette, però, prevedevano l'uso dello shortening, tranne una: la pasta brisée della (anche lei) mitica Martha Stewart. Eccola.
Tutte queste ricette, però, prevedevano l'uso dello shortening, tranne una: la pasta brisée della (anche lei) mitica Martha Stewart. Eccola.
Pasta brisée (ricetta di Martha Stewart, che potete trovare QUI).
(nei paesi anglosassoni gli ingredienti si misurano in tazze, cucchiai e cucchiaini. Ma niente paura: su questo sito trovate le tabelle di conversione)
- 2 tazze e 1/2 di farina bianca
- 1 cucchiaino di sale
- 1 cucchiaino di zucchero
- 1 tazza di burro freddo tagliato a cubetti
- da 1/4 a 1/2 tazza di acqua fredda
- Mescolare la farina, lo zucchero e il sale in una ciotola. Aggiungere il burro e amalgamarli con la farina finché l'impasto non raggiunge la consistenza delle briciole di pane fresco. Aggiungere l'acqua, un po' alla volta, mescolando leggermente con una forchetta dopo ogni aggiunta. Continuare ad aggiungere acqua finché l'impasto non è ben amalgamato.
- Formare una palla e appiattirla in un disco. Avvolgere nella pellicola e mettere in frigo per 45 minuti/1 ora.
- Per il resto si procede come nella ricetta precedente.
La fetta che mi sono mangiata questa mattina per colazione |
- 200 gr. di farina
- 100 gr. di burro
- un pizzico di sale
- 1 uovo oppure circa 3 cucchiai di acqua
martedì 19 luglio 2011
La torta di Nonna Papera: la ricetta
In genere non sono una mangiatrice di dolci, e di conseguenza non li so nemmeno cucinare. Per questo motivo, pubblicando il post di ieri sulla paradisiaca torta alle ciliegie di Machado's, non mi è neppure venuto in mente che qualcuno potesse pensare di replicare tanta sublimità a casa propria.
Sono stata subito contraddetta da Ileana, la quale mi ha informato che sarebbe in realtà assai crudele da parte mia, dopo avervi mostrato le immagini di cotanta prelibatezza, non offrirvi almeno la possibilità di cimentarvi nella creazione della famosa Torta di Ciliegie di Nonna Papera. E così sono andata in cerca di una ricetta plausibile, nella speranza che il mio generoso gesto verrà un giorno ricompensato dalla generosa offerta di una bella torta di ciliegie fatta in casa (visto che io continuo a non avere intenzione di cucinarmela in proprio).
Allora, dopo aver sgomberato il campo dai dubbi linguistici e aver chiarito che:
- Pie in inglese è la torta ripiena, che può essere dolce o salata;
- Tart è la crostata
- Cake è il nome generico che indica più o meno tutte le altre torte
- Questi nomi non sono intercambiabili, cioè non funzionano come il nostro "torta" multiuso
Passiamo alla ricetta della Grandma Duck's Cherry Pie, ovvero della Torta di Ciliegie di Nonna Papera.
Ingredienti
Per il ripieno:
Per il ripieno:
- 1 kg di ciliegie denocciolate (tipo visciole) fresche o surgelate
- 3 cucchiai di zucchero di canna (o più, a seconda di quanto sono aspre le ciliegie)
- Il succo di mezzo limone
- 30 gr di maizena
- Un pizzico di cannella
Per la crosta (per un'altra versione, si veda QUI):
- 350 gr di farina 00
- 250 gr di burro
- 20 gr di zucchero
- 1 pizzico di sale
- 2 cucchiai di acqua
Setacciare la farina, aggiungere il burro freddo tagliato a cubetti e mescolare aggiungendo lo zucchero e il sale. Aggiungere l’acqua fredda, un cucchiaio per volta fino a che l’impasto non forma un palla. Avvolgere nella pellicola e mettere in frigo per almeno mezz’ora.
Mescolare le ciliege denocciolate con lo zucchero, il limone, la maizena e la cannella. Lasciar riposare per 15 minuti. In alternativa, soprattutto se le ciliegie sono surgelate, si può passarle qualche minuto in padella per lasciar uscire il sugo, poi aggiungere gli altri ingredienti e infine ripassare sul fuoco per qualche altro minuto finché la mistura non raggiunge la consistenza desiderata.
Cuocere, in forno preriscaldato, 10 minuti a 200° e altri 30 minuti a 175° forno ventilato.
Fatemi sapere com'è venuta!
sabato 21 maggio 2011
L'invenzione del broccolino (e della pizza)

Insomma, è stato con grande soddisfazione che mi sono accinta a tradurre i nomi dei piatti (semplici e gustosi, devo dire, da vera trattoria italiana... oddio, che nostalgia!) elencati sul menu "Festa italiana". E poi, a un certo punto, eccoli. Broccolini. Saranno broccoli novelli, penso, nella mia totale unfoodiness. Però naturalmente vado a controllare. (Qualcuno me ne aveva già parlato, adesso ricordo.) E scopro, non senza un certo raccapriccio (traduco da Wikipedia)...
Broccolini: "verdura simile ai broccoli, ma con efflorescenze più piccole e gambo più lungo e sottile (...) anche se spesso vengono confusi con i broccoli novelli, sono in realtà un incrocio fra il broccolo e il kai-lan, il broccolo cinese. (...) un ibrido (...) creato dalla Sakata Seed Company di Yokohama(...) con il nome gai lan. I broccolini hanno un sapore dolce, che ricorda il gusto dei broccoli e quello degli asparagi.
Broccolini è un marchio registrato della Mann Packing Company, Inc. Il suo nome generico è baby broccoli, prodotto numero 3277. È noto anche con altri nomi: asparation, bimi, broccoletti, broccolette e tender stem. Sanbon Incorporated creò un programma commerciale per l'asparation in Messico nel 1994 e lo introdusse sul mercato USA nel 1996. (...) I broccolini si trovano in Stati Uniti, Canada, Australia e UK."
Pare che siano sotto brevetto della Sakata Seed e coltivati in esclusiva dalla California Packing Company.
La triste storia del broccolino mi ha ricordato due episodi. Il primo, una discussione di qualche anno fa con un'americana convinta che i broccoli fossero un'invenzione del signor Albert R. Broccoli (il produttore dei film di James Bond). Il secondo, una scommessa vinta (un'ottima bottiglia di vino) con un altro americano convinto che la pizza fosse stata inventata negli Stati Uniti (e di questo sono convinti in tanti).
venerdì 25 marzo 2011
L'ultima sul cibo e poi basta
- "Then he heard the siren call of spaghetti." ["Poi udì il canto di sirena degli spaghetti"]
- "His friend Tom Colicchio notes in the foreword to the book that in the way Mr. Waxman handled ingredients, 'Jonathan has always been, without talking about it and maybe without realizing it himself, an Italian chef.'" ["Il suo amico Tom Colicchio osserva nell'introduzione al libro che, nel suo modo di usare gli ingredienti, 'Jonathan è sempre stato, senza parlarne e forse senza neppure rendersene conto, uno chef italiano'"]
- "'It was in my blood,' Mr. Waxman said. 'This was the food I was comfortable with, especially the Italian food of Venice and Liguria.'" ["'Ce l'avevo nel sangue', disse Mr Waxman (il cui cognome tradisce evidenti origini italiane, aggiungo io). Quello era il cibo con cui mi sentivo a mio agio, soprattutto la cucina italiana di Venezia e della Liguria'"]
- His refreshingly offhand, often irreverent voice is certainly there. Here’s how he introduces his recipe for gnocchi with spring vegetables and basil: 'I’ve never liked the renditions of gnocchi that I’ve eaten in Italy and America. They were always gummy, covered with béchamel or another yucky sauce.'" ["La sua è una voce gradevolmente alla buona, spesso irriverente. Ecco come presenta la sua ricetta degli gnocchi al basilico e verdure di primavera: 'Gli gnocchi che ho assaggiato in Italia e in America non mi sono mai piaciuti. Erano sempre gommosi, coperti di besciamella o di qualche altra salsa disgustosa.'" Besciamella? Salsa disgustosa? Ma si può sapere dove ha mangiato gli gnocchi in Italia, il signor Waxman?]
- E infine ecco la sua magistrale ricetta per gli gnocchi, tanto più buoni di quelli italiani disgustosamente coperti di besciamella:
"As for those gnocchi, the recipe was a happy accident. Justin Smiley, one of his chefs, froze a batch of gnocchi. But Mr. Waxman needed some right away, so he threw the frozen gnocchi into a pan with butter and oil, browned them and tossed them with vegetables. Bingo!" ["Quanto agli gnocchi, la ricetta è nata per un caso fortunato. Justin Smiley, uno dei suoi chef, aveva surgelato un vassoio di gnocchi. Ma a Mr Waxman servivano subito, così buttò gli gnocchi surgelati in padella con burro e olio, rosolandoli e mescolandoli con le verdure. Bingo!"]
Bingo?!?
mercoledì 23 marzo 2011
Usanze a confronto: a tavola
Quando abbiamo ospiti a cena preparo spesso gli spaghetti alla carbonara, una ricetta che riscuote sempre un grande successo. Tutti sanno che gli spaghetti alla carbonara vanno mangiati appena serviti, per evitare che l'uovo si raffreddi e si rapprenda, trasformando la magnifica cremosità ottenuta con il sapiente equilibrio di tuorli e albumi in un unico blocco gelido e indigeribile. Si potrà dunque immaginare la mia frustrazione quando, dopo aver servito in tavola la mia bella ciotolona di carbonara con la raccomandazione "eat eat!" (che alcuni prontamente mettono in burla rispondendo "mangia mangia!" con irritante accento italoamericano), rimango a guardare impotente gli ospiti che continuano la loro conversazione come se niente fosse, mentre il mio capolavoro culinario si trasforma inesorabilmente in una specie di pastone per conigli. Che viene poi degustato, con tanto di "yum yum" e complimenti alla cuoca, circa mezz'ora dopo il suo arrivo in tavola.
Dopo aver ascoltato più di una volta le mie rimostranze post-cena, mio marito mi ha spiegato che si tratta semplicemente di una questione di cortesia: qui si considera maleducato interrompere la conversazione conviviale per tuffarsi a peso morto sul cibo, come invece succede in Italia, dove la buona educazione dei commensali si misura dall'apprezzamento del lavoro del cuoco o della cuoca; apprezzamento che si dimostra interrompendo qualunque cosa si stia facendo e buttandosi sul piatto come lupi famelici. Io naturalmente, confermando tutti i luoghi comuni dell'italiana all'estero, ho obiettato che una simile usanza può esistere solo in un paese dove si mangia male, perché tanto la conversazione si può benissimo riprendere anche a stomaco pieno, mentre un piatto di spaghetti alla carbonara rovinato è una tragedia irreparabile.
A questo punto, probabilmente per farmi vergognare della mia rozzezza, mio marito mi ha raccontato che durante le sue prime cene in Italia si ritrovava sempre con il bicchiere vuoto, e restava a guardare interdetto mentre tutti si versavano allegramente il vino nel bicchiere senza mai degnarsi di versarlo anche a lui. Alla mia prevedibile battuta "e perché non allungavi la manina?", lui ha risposto che per gli americani (be', sì, anche per gli italiani, solo che la regola non è così rigida... oppure sono io che sono davvero rozza?) è sempre buona educazione aspettare che siano il padrone o la padrona di casa a versare il vino agli ospiti, i quali non si sognerebbero mai di versarselo da soli. Questa rivelazione, per quanto da un lato abbia ottenuto l'effetto di farmi sentire in colpa per le mie maniere rustiche, dall'altro però ha contribuito a rafforzare il mio inestirpabile pregiudizio da emigrante italiana. È più forte di me: faccio fatica a capire un paese dove si aspetta che finisca la conversazione prima di mangiare e che qualcuno ti versi il vino prima di bere.
sabato 12 marzo 2011
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