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domenica 8 dicembre 2019

La menopausa fa schifo


“Niente può prepararvi a questo”, scrive Mary Ruefle nel suo bel saggio PauseGermaine Greer l'ha chiamata “The Change”, il cambiamento, e i libri sull’argomento cercano di sfruttare questo concetto per presentarvi la menopausa come un momento di cambiamento che può anche essere positivo, a seconda di come lo prendiamo. Non è vero. Chi potrebbe sostenere che ansia, depressione, insonnia possano anche essere positive, a seconda di come le prendiamo?

La prima volta mi colse impreparata. La mia ginecologa mi aveva sospeso la pillola, perché “alla sua età ormai non serve più”. Dopo circa un mese il mio sonno cominciò ad accorciarsi, a diventare sempre più affannoso e faticoso, finché non si fermò del tutto. Mi trovavo negli Stati Uniti, dove l’accesso a medici e medicine è complicato e costoso, e così all’inizio gli amici mi regalavano olio di cbd e sonniferi. L’olio non mi faceva neppure il solletico, i sonniferi mi provocavano un sonno fasullo che non mi riposava e mi lasciava la mente annebbiata. L’agopuntura forse aiutava un pelino, ma solo perché l’agopuntura mi è simpatica. L’anziano medico generico con cui quando stavo bene parlavo di letteratura russa mi prescrisse l’ascolto di un mp3 per insonni, che con voce suadente mi invitava a circondarmi di animali amici (che nella mia immaginazione diventarono subito serpenti e pantere feroci) e poi di tutte le persone che mi avevano voluto bene (una sfilata di morti). Finalmente un altro medico, una donna, mi disse: “ma è ovvio, le hanno sospeso la pillola e le è venuta l’insonnia. Si chiama menopausa. Riprenda la pillola”. E nel giro di due o tre giorni ricominciai a dormire.

Adesso, a cinquant’anni, me l’hanno sospesa di nuovo. Io ci ho provato, a festeggiare i cinquant’anni come se ci fosse qualcosa da festeggiare. Ho passato due settimane da sola su un’isola greca in maggio: un paradiso. Ma poi a fine settembre ho smesso di prendere la pillola. Alle donne che prendono la pillola la menopausa arriva addosso come un tram in corsa: i sintomi che fino a quel momento sono stati mascherati dall’assunzione forzata di ormoni ora cominciano a strisciarti addosso uno dopo l’altro, dapprima come leggeri fastidi che per le più fortunate – invidiatissime – rimangono tali, ma che per altre possono diventare devastanti. “La menopausa non è una malattia”, è un altro slogan speranzoso e spesso fastidiosamente fasullo. Forse non lo è, ma quando la notte non riesci a chiudere occhio non è che ti senti proprio sanissima.

Il cambiamento è in realtà una scadenza. Tutti abbiamo una scadenza finale, ma in quel caso il vantaggio è che non ne conosciamo la data. Nel caso della menopausa invece l’età è quella e da lì non si scappa. Non si scappa dalla fine della fertilità, dalla fine della bellezza, dalla fine dell’illusione che saremo sempre sane. È il momento in cui mi sono resa conto che certe scelte erano ormai irrevocabili, che il margine di cambiamento si era chiuso. E che sono anch’io prigioniera, come non credevo di essere, di un’idea di potenzialità legata al mio aspetto fisico. Un uomo che invecchia non si pone il problema della perdita di bellezza. Per una donna il fatto di diventare all’improvviso invisibile può essere un duro colpo. Un cliché culturale che ho sempre disprezzato, al quale mi sentivo superiore, e nel quale ho invece scoperto di rientrare in pieno. 

I sintomi della menopausa variano da donna a donna. Come dice Mary Ruefle nel suo saggio, spesso la medicina e le riviste femminili ci raccontano che il problema principale sono le vampate. Ma per carità. Chi se ne frega delle vampate. È vero che la notte mi sveglio in un bagno di sudore, ma dura poco, e se quando mi passa fossi in grado di riaddormentarmi sarei la persona più felice del mondo. Invece non dormo. La mancanza di ormoni mi impedisce di lasciare lo stato di veglia, crea una tensione costante che mi attraversa il corpo come una leggera corrente. Il giorno dopo la notte da incubo è un giorno da incubo, con pensieri nerissimi, ansia e incapacità di concentrarmi. Chi ha provato l’insonnia sa di cosa sto parlando. Le ore passate a rigirarsi nel letto con la disperazione crescente che riduce sempre di più le possibilità di addormentarsi, la decisione di alzarsi nel cuore della notte a scrivere un pezzo sulla menopausa perché tanto non si riesce a dormire, l’assurda, fugace illusione che in realtà così si guadagna tempo per fare cose, e la presa di coscienza che il tempo guadagnato non serve a niente perché quando non hai dormito sei inutile come le tue ovaie spente. È il classico gatto che si morde la coda. L’ansia e la depressione causate dal “cambiamento” alimentano l’insonnia, che a sua volta alimenta l’ansia e la depressione.

Io ve lo dico: le cure alternative non funzionano. Nessuna è mai guarita dalla menopausa con le pasticche di erbe. Nessuna è mai guarita dalla menopausa punto. E siccome non sanno guarirti ti dicono che non è una malattia. Però ti danno medicine per l’umore e medicine per il sonno. Oppure ti danno gli ormoni e ti terrorizzano con i possibili effetti collaterali. Io li sto prendendo da tre giorni e sto ancora aspettando che facciano l’effetto primario. Tra un paio d’ore sorgerà il sole.

giovedì 5 aprile 2018

La delusione della sanità (attenzione, post negativo!)

Sarò breve perché in questi giorni ho decisamente poco tempo per scrivere. Sono rientrata in anticipo in Italia (ecco perché il volo low-cost, avevo bisogno di un biglietto dal costo non esorbitante anche se acquistato all'ultimo momento) per un problema di salute della Mamma che per fortuna dovrebbe risolversi senza strascichi.

Ora, voi sapete quanto io sia una fervida sostenitrice della sanità pubblica, viste le orride avventure che ho avuto negli Usa con quella privata. Ecco, questa volta l'esperienza della Mamma in un ospedale pubblico è stato un vero disastro. Qui in provincia di Varese si tagliano i fondi agli ospedali piccoli e li si lascia con le pezze al culo e una grave carenza di personale. Solo che l'ospedale grande non ha posti per tutti. E la clinica privata per la riabilitazione vuole 290 euro al giorno (tariffa base per il soggiorno) + 35 euro all'ora per fisioterapia (almeno 2 ore al giorno) + ogni visita ed esame extra a pagamento = fate voi i conti, ma direi che si arriva facilmente a un minimo di 3000 alla settimana.

Ecco, allora vorrei dedicare un sonoro vaffanculo ai politici che stanno smantellando il nostro sistema sanitario per trasformarlo in una brutta copia di quello americano. E che i soldi delle mazzette vi vadano tutti in medicine. 

sabato 24 marzo 2018

La maledizione del posto centrale e la dimensione delle persiane altrui

Torno a casa con un volo Norwegian + EasyJet. Un po' preoccupata per la nuova esperienza con il low-cost intercontinentale, che consiste in un volo fino a Londra-Gatwick, scalo di 5 ore (detto con voce fantozziana) con sbarco valigia e reimbarco su EasyJet. Invece va tutto bene. Voli in orario, servizio - nei limiti del low-cost - buono. Se non fosse per un dettaglio, perché ovviamente se non ci fosse stata una fantozzata non sarei qui a scrivere questo post.

Con la tariffa più bassa, Norwegian assegna automaticamente il posto a sedere. Ovviamente al check-in scopro che mi hanno assegnato l'orrido posto centrale. Cerco di impietosire la simpatica assistente di terra, la quale mi dice che posso provare a chiedere prima dell'imbarco, magari riesco a trovare un posto corridoio libero. E infatti va proprio così. Che fortuna! 
Salgo sull'aereo, mi accomodo nel mio bel posto corridoio e poco dopo vedo arrivare il mio vicino. Un tizio pallidiccio, con l'aria un po' malata. Si siede senza togliersi il voluminoso giaccone. Mah, penso. Bizzarro. 
Il volo è notturno, quindi il mio piano è guardarmi un filmetto o due e poi cercare di dormire un po'. Il tizio accanto a me, nel frattempo, comincia a bere. Coca cola e bottiglietta di superalcolico. Poi, a un certo punto, rutta. Non un ruttino, eh. Un gran ruttone tonante. Non faccio a tempo a pensare "che schifo" che quello ne fa un altro. Quattro o cinque in totale. Poi si alza, facendomi alzare. Normale amministrazione. Peccato che dopo essersi alzato se ne sta in giro per una ventina di minuti (dove cavolo andrà, sull'aereo, lo sa solo lui), costringendomi a stare all'erta per aspettare il suo ritorno. Poi torna, si mette tranquillo per un po', e poi ordina di nuovo da bere. E ricomincia tutto da capo. Serie di ruttoni e passeggiata sull'aereo. Quando torna a sedere, invece di mettersi tranquillo e guardarsi anche lui un filmetto come fanno tutti, si mette a guardare il MIO film (che io sto vedendo con i sottotitoli, facilitandogli le cose) e a commentarlo ad alta voce. Poi ordina di nuovo da bere e rutta. Al quinto o sesto giro di rutti, quando ormai la puzza di alcol si è fatta insostenibile, vado dalla hostess e le chiedo se non c'è un limite alla quantità di alcol che si può vendere a un passeggero. Lei dice: "consigliamo di bere con moderazione". Eh, sì, infatti. Io le spiego che vicino a me c'è un ruttatore seriale e lei, sinceramente dispiaciuta, mi propone di cambiarmi il posto. Io accetto. E dove vado a finire? Ma in un sedile centrale, naturalmente.

Ecco, ora forse vi chiederete cosa c'entra la dimensione delle persiane altrui che ho messo nel titolo. Niente, è che stamattina ho trovato un commento al post sull'insonnia in cui mi si annuncia solennemente che non si leggerà più il mio blog, e non solo, ma che i miei malanni dipendono dalla mia negatività e dal mio atteggiamento di italiana cinica all'estero che dovrebbe andare a farsi un giro in India e così smetterebbe di notare la dimensione delle persiane altrui. Stai a vedere che se vado a fare un giro in India mi passa la negatività e dunque l'insonnia? (Che comunque è passata, era dovuta a problemi ormonali e non di negatività.) O forse se imparo ad affrontare le cose senza cinismo e negatività, la prossima volta il tizio che rutta se lo becca qualcun altro?

mercoledì 8 novembre 2017

Una lettera a Tom Waits



CARO TOM
(You can’t be lovin’ someone who is savage and cruel)

Malgrado le ripetute insistenze della sua amica Gloria, Marta esitava a scrivere quella lettera a Tom. Certi ricordi, le diceva, era meglio lasciarli sepolti nel passato. Ma quel ricordo era duro a morire, e poi, secondo Gloria, se Tom avesse letto la sua lettera magari ci avrebbe scritto sopra una canzone, d’altronde era una storia d’amore malinconica come quelle che piacevano a lui. E così finalmente Marta si era decisa. In realtà non era sicura che fosse davvero una storia d’amore, ma questo magari lo avrebbe giudicato Tom.
Ecco qui la lettera. 


Caro Tom,
la prima volta che ho sentito la tua musica ero al ristorante sulla spiaggia. Il ristorante perfetto. Penombra, candele. La padrona indossava una camicia di seta bianca e si ricordava di me anche se mi vedeva una volta all’anno. Quando assaggiavo una pietanza chiudevo gli occhi per lasciar fuori il resto del mondo. In quel ristorante ci andavo con Gio, il mio fidanzato, e il giorno designato digiunavamo fin dalla mattina per essere sicuri di non saltare neanche una portata. Quella sera nel ristorante perfetto c’era la tua musica. In sottofondo, certo, ma non offenderti: era lei la protagonista della serata. Indagai con la signora dalla camicia di seta, e lei mi mostrò il cd di The Heart of Saturday Night, quello con la copertina in cui, con la cravatta e la sigaretta in bocca, fingi di non notare la ragazza dal vestito color borgogna che ti guarda in modo inequivocabile. Fu amore al primo ascolto.
Qualche anno dopo lasciai Gio. Con lui lasciai i miei vent’anni, la città che amavo, i giorni delle rose e delle osterie, e sull’autostrada piatta e diritta che mi portava via da Bologna, nella malinconia di un tramonto nebbioso della bassa padana, scoppiai finalmente a piangere.
«Perché cavolo piangi?» disse il mio nuovo fidanzato, che guidava la macchina del trasloco. Smisi subito. In effetti, pensai, non c’era motivo di essere triste.
Andai a vivere in riva a un lago, un posto di piogge primaverili e temporali estivi. Ero sicura di poter convincere Alex a fidarsi di me. Ma non si può salvare un amore sbagliato, e così io e Alex non facevamo altro che litigare, lasciarci e riprenderci, e ogni volta giuravo che era l’ultima.
Era il 1999, l’anno in cui sei venuto in Italia, ricordi? Tre sere d’estate a Firenze. Appena l’ho saputo ho cominciato a sognare il momento in cui finalmente ti avrei visto sul palco.
In quel periodo non stavo con Alex, ero in uno di quei momenti di tregua in cui pensavo solo a rimettermi con lui. Lo chiamai per chiedergli se voleva venire al concerto, ma lui rifiutò. Allora chiamai Gio. Eravamo rimasti amici, di nascosto da Alex che si strozzava dalla gelosia ogni volta che lo sentiva nominare. Gio rispose: «Ci penso io», e dopo un’ora mi richiamò dicendo che aveva comprato due degli ultimi biglietti rimasti per il tuo concerto di domenica 25 luglio.
Il piano era questo: sarei partita al mattino con il treno per Milano, e da lì avrei preso la coincidenza per Bologna (e comunque, a proposito di Bologna: se un giorno ti capiterà di tornare in Italia, vai a visitarla, sono sicura che ti piacerà. Siediti in una vecchia osteria e ordina un litro di rosso della casa, e magari qualcuno a un tavolo vicino dirà «Mo vè, c’è Tom Waits», e alzerà il bicchiere per brindare alla tua salute), dove avrei incontrato Gio che mi avrebbe portata a Firenze in macchina.
Un paio di giorni prima, però, la tregua finì e mi rimisi con Alex. Ci incontrammo a una festa dove ovviamente speravo di incontrarlo, e poi il magnetismo dei poli opposti fece il suo dovere. Tornammo a casa insieme, e mentre un temporale estivo creava un'ambientazione adeguatamente drammatica – in quel momento riuscii a pensare che sembrava una pessima sceneggiatura, a dimostrazione del fatto che mi restava ancora un barlume di lucidità – Alex mi rivolse la domanda che gli premeva di più: «Ci vai lo stesso al concerto di Tom Waits?»
Non lo avevo previsto. Non vedevo cosa c’entrasse il tuo concerto. Ingenua. «Be’, certo che ci vado» risposi.
D’un tratto il fronte temporalesco si trasferì all’interno del piccolo appartamento, e cupi nuvoloni di collera oscurarono lo sguardo di Alex. Ci eravamo appena rimessi insieme e ora io stavo per andarmene a un concerto, non solo senza di lui, ma addirittura con il mio ex fidanzato. Era chiaro che non lo amavo, che sputavo sui suoi sentimenti, che non ero degna della sua fiducia. Un lampo squarciò di nuovo lo strappo appena ricucito e la traditrice venne scacciata. La nostra storia era già finita un’altra volta.
Con il passare delle ore la mia certezza già precaria si andò sgretolando. Da una parte c’eri tu e il sogno di vederti cantare, dall’altro c’era l’angoscia per aver sprecato l’ultima possibilità di guadagnarmi l’amore di Alex. Era una decisione tormentosa, e se c’è una cosa che odio è prendere decisioni. Le lascio per l’ultimo istante, aspettando che arrivi un segno del destino o che qualcun altro decida per me. Nei casi peggiori, allo scadere del tempo il pendolo dell’indecisione si ferma al vertice della sua traiettoria e non mi lascia altra scelta che obbedirgli, pur sapendo che pochi istanti dopo avrei potuto scegliere la cosa opposta. La mia mente continuò a oscillare per tutta la notte, finché, all’alba di domenica 25 luglio, mi alzai e mi preparai a partire.
Ostacolata dal peso del rimorso, ogni movimento mi costava fatica. Mi sembrava di muovermi dentro una vasca piena di fango. Riuscii ad arrivare fino alla stazione di Milano prima di rimanere bloccata nel mio stesso pantano. Mi trascinai verso un telefono, uno di quelli pubblici che oggi non esistono più. Composi il suo numero.
«Pronto.»
«Ciao, sono io.»
«Cosa vuoi?» La sua voce era un blocco di ghiaccio tagliato con l’accetta.
«Be’, ecco, sono a Milano, e pensavo che in effetti hai ragione tu, non è giusto che io vada al concerto.»
«L’hai capito un po’ tardi, no?»
«Sì, hai ragione, però senti, pensavo… e se non ci andassi?»
«Ci sei già andata, mi sembra.»
«No, no, ho cambiato idea, posso tornare a casa adesso e stare con te. Facciamo come se non fosse successo niente. Ho capito di avere sbagliato e torno da te.» Non ero molto soddisfatta del mio tono servile, ma in quel momento ero mossa da uno zelo missionario che aveva la precedenza su tutto il resto.
«Fai come ti pare.»
«Ecco, sì, però ci sarebbe una cosa… insomma, be’… Gio ha comprato i biglietti… mi sembra brutto telefonargli così e dirgli che non vado… pensavo che magari potrei andare a Bologna e dirglielo di persona e poi tornare a casa. Ho guardato l’orario, ce la faccio benissimo. Posso arrivare in serata, così magari andiamo a mangiarci una pizza insieme?»
«Va bene.»
«Allora arrivo alle nove e venti, vieni a prendermi in stazione?»
«Okay.»
Gio non approvò la mia decisione. A dir poco. Provò a farmi cambiare idea, ma io ero inflessibile, tutta compresa del coraggio del mio sacrificio. Gio non si lasciò commuovere. Disse che lui al concerto da solo non ci andava, e che quindi dovevo restituirgli non solo i soldi del mio biglietto, ma anche quelli del suo. Già che c’ero gli offrii anche il pranzo, per il disturbo, e poi, purificata dalla colpa e alleggerita nel portafoglio, ripresi il treno per tornare indietro.
L’odore familiare del lago alleviò appena il senso di fastidio lasciatomi addosso da una giornata in treno. Uscii emozionata dalla piccola stazione e lo vidi lì fuori, appoggiato alla macchina ad aspettarmi. Non sorrideva, ma quella non era una cosa insolita. Aveva mal di testa, si limitò a dire.
Alle nove e trentacinque, mentre tu uscivi sul palco di Firenze, io e Alex ci mettevamo a tavola. La pizzeria era brutta, un salone anonimo con le luci fluorescenti. La pizza era cattiva, mi sembra, ma non sono sicura, visto che la mia attenzione era rivolta solo ad Alex, che non sorrideva e non parlava. Se ne stava lì a masticare con aria noncurante. Certe volte, davanti a lui, provavo solo incredulità.
Mentre il boato degli applausi si placava e tu cominciavi il concerto con una delle mie canzoni preferite, quella che apre Daunbailò con New Orleans in bianco e nero ed Edna Million con un vestito da sballo, io azzardai: «Allora?»
«Allora cosa?»
«Be’, sono tornata, hai visto?»
Ghigno a mezza faccia. «Sì, ho visto.»
Il palco era ingombro di strumenti, tu avevi la bombetta e il tuo solito completo da poeta sgualcito.
«Sono tornata per te.»
«Non me ne frega un cazzo. Potevi anche restare dov’eri, tanto con te non ci torno.»
Poi si alzò e uscì dalla pizzeria, lasciandomi il conto da pagare.
Intanto tu, a Firenze, lanciavi manciate di coriandoli sul pubblico. Poi prendevi il megafono e cantavi il dolce Gesù di cioccolata. Sono ricordi che ho rubato, Tom, come in quella tua canzone. Eppure anch’io sono innocente, quando sogno.
E chissà, forse un giorno riuscirò a vederti.

                                                                                                          Tua,
                                                                                                         Marta

venerdì 17 febbraio 2017

Fantozzi non perdona

In due post recenti (quello di ieri e questo) ho commesso l'errore di presumere che la maledizione di Fantozzi non fosse ubiqua e generalizzata, ma potesse godere di qualche sporadico momento di tregua. Mi sbagliavo.

Nel caso del fortunato volo in business class, quando è stato il momento di mettermi a dormire sul fantastico sedile-letto mi sono accorta che mancava il cuscino. Il solerte steward-cameriere ha ipotizzato che qualcuno me lo avesse portato via ("così impari a volare in business a gratis, pezzente"), e non trovando un rimpiazzo me ne ha fabbricato uno mettendo un paio di coperte arrotolate dentro una federa. Ho dormito saporitamente, e al risveglio mi sono ritrovata con un torcicollo che mi è durato per tre settimane.

Nel post di ieri ho addirittura scritto "stavolta niente fantozzate", osando sfidare la maledizione. Mal me ne incolse, perché la maledizione riesce a raggiungere il suo obiettivo anche a giorni di distanza. La cenetta dell'anniversario, quella in cui mi sono concessa di spendere un pochino più del solito? Quella con l'ottima zuppetta di crostacei? Le allergie colpiscono dopo qualche giorno, ti lasciano il tempo di scrivere "niente più fantozzate" e poi ti ricoprono di bolle.

(Mi accorgo solo ora di aver pubblicato questo post in data venerdì 17.)

lunedì 9 gennaio 2017

La scelta della palestra/2

E così ho passato tre mesi felici di palestra italiana accompagnata dagli audiolibri. Ho cominciato con 1984, scaricato dal sito di Open Culture, ma poi si avvicinavano le elezioni Usa e Orwell mi deprimeva troppo (mai come mi avrebbero poi depressa i risultati di suddette elezioni), così sono passata ad Alice nel Paese delle Meraviglie (tradotto e letto da Aldo Busi) e poi a Il buio oltre la siepe, entrambi podcast scaricati dal sito di Ad Alta Voce. Poi sentivo le trasmissioni del mattino di Radio 3, il notiziario di Radio Popolare... insomma, me la cavavo piuttosto bene.

Arrivata in terra californiana, patria della fitness e della wellness e della mindfulness, ho cominciato fiduciosa la ricerca di una palestra. Ricordavo di averne viste diverse qui nei dintorni (uno dei requisiti doveva essere la vicinanza, visto che non ho la macchina e non intendo prendere uno di questi autobus scalcagnati che non passano mai per andare in palestra), e così mi sono messa a cercarle online. Allora, una palestra normale qui non esiste. O sono dei sudatori con le luci al neon e centinaia di cyclette e tapis roulant (si chiameranno così o avranno un termine più fashion?) e basta (che poi io ODIO gli esercizi "cardio", non ho la minima intenzione di accelerare il mio battito cardiaco quando faccio ginnastica, mi manda in paranoia da tiroidite. Senza contare che ODIO correre e non posso neanche farlo per non risderenarmi il ginocchio), mentre io in Italia c'avevo tutti quei begli attrezzini che mi rinforzavano le cosce e i dorsali e altri muscoli a me ignoti, oppure sono delle robe superfighette con nomi del cazzo tipo "Power intensity, transformational fitness, megaformer, trifecta of awesomeness...". Per non parlare poi dei prezzi.

Dopo che ho espresso il mio sconforto su fb, un'amica mi offre finalmente la soluzione: "Perché non provi la YMCA?" Guardo il programma e vedo che la YMCA di Chinatown, la più vicina a casa, propone corsi bellissimi, tipo Ballroom Dance, Chinese Dance, Tai Chi, Basic Pilates e QiGong BaduanjinLiuzijue CCHP (sic). Vado in ricognizione. Una ragazza simpatica al banco informazioni (a un certo punto mi dice: "mi piacciono le tue fossette". Gli americani me lo dicono spesso) mi spiega che c'è una quota di iscrizione di 99$, e poi 67$ al mese. "La quota di iscrizione è annuale?" chiedo. "No, vale per sempre." "Ah, bene, le dico, perché io sono qui per tre mesi e poi non ci sono per altri tre mesi e così via." "Ah, allora in quel caso quando torni dovrai pagare ancora la quota di iscrizione." "Ma non vale per sempre?" "Sì, ma se salti un mese poi devi pagarla da capo."

Alla fine ho trovato un compromesso e ho cominciato ad andare a Pilates. Cioè, il primo giorno ci sono andata ma ho sbagliato giorno. Credevo fosse venerdì e invece era giovedì. Venerdì scorso, alla prima lezione, mi sono ritrovata con una sala piena di vecchiette strambe e un'insegnante con le vampate da menopausa che è convinta che mi chiami Celia. Oggi ho la seconda lezione. Penso di aver trovato il mio posto.

mercoledì 4 gennaio 2017

La scelta della palestra


Tutto è cominciato (la prendo alla larga) l'estate scorsa, un momento che per me è stato un po' traumatico, nel vero senso della parola. Dopo la rovinosa caduta in cui mi sono massacrata le mani, ho preso l'aereo e mi sono sderenata un ginocchio. Stavo cercando di ruotare la bocchetta dell'aria, in una posizione innaturale dovuta allo spazio ridicolmente ristretto fra un sedile e l'altro (cose che ovviamente non succedono in business class, anche se devo dire che da quando sono arrivata ho un torcicollo mostruoso, perché qualcuno di quei ricchi stronzi mi aveva fregato il cuscino e il cameriere della Regina ha dovuto costruirmene uno con una federa e due coperte arrotolate), quando ho sentito un CROC e sono ricaduta sul sedile urlando come se mi avessero sparato. Poi ho dovuto fare tutto il viaggio con quella sgradevole sensazione dolorante che andava dal ginocchio alla coscia. A un certo punto mi sono alzata per sgranchirmi, e mentre tentavo di stirare l'altra gamba, il ginocchio sderenato si è piegato verso l'interno come se fosse di gomma, tipo Olivia, per intenderci.


Dopo qualche settimana, visto che il ginocchio era migliorato un po' ma non tantissimo, ho deciso di vincere il mio terrore di medici e paramedici americani e sono andata da un fisioterapista consigliato da un'amica. Il fisioterapista Don, esaltato dall'amica come una specie di mago - secondo me anche per la sua notevole presenza fisica, visto che è un ex fotomodello che però tenta di nascondere il suo passato di bellone ma non ci riesce del tutto - mi ha diagnosticato una "subluxed patella" (sublussazione del ginocchio) e mi ha dato degli esercizi da fare a casa per rinforzare il ginocchio. Il segreto, a quanto pare, sta nel rinforzare i muscoli.

Tornata in Italia sono andata da un'altra fisioterapista, che oltre a farmi la Tecar per sciogliere la "gomma" che mi era rimasta sulla gamba in seguito alla rovinosa caduta n.1, ha sputato sulla diagnosi del bel Don e ha detto che secondo lei avevo una stiramento della fascia laterale qualcosa. E poi, pur guardando con enorme disprezzo il foglio con gli esercizi consigliati da Don, mi ha a sua volta esortata a rinforzare i muscoli (che, come Olivia, non avevo). 
E così ho preso la grande decisione: mi sono iscritta in palestra.
La notizia della mia iscrizione in palestra ha suscitato la medesima incredulità a suo tempo suscitata dall'annuncio del mio matrimonio. "Tu sposata?!?" "Tu in palestra?!?"
"Sì, be', ma mentre faccio gli esercizi ascolto gli audiolibri", rispondevo tutta soddisfatta, suscitando l'orrore di diverse persone (tra cui il mio maestro di yoga, che aveva a sua volta fornito una diagnosi alternativa per il mio ginocchio, qualcosa a che fare con i legamenti) che mi hanno detto: "Ma no, devi sentire i muscoli perché l'attività abbia effetto!" Ma per favore, mi rompo già abbastanza le balle a fare attività fisica, se poi mi togliete gli audiolibri come faccio?

1/Continua


lunedì 3 ottobre 2016

Colazione da Felicity

(Continua da QUI
La foto non è mia, ma volevo mostrarvi i waspafarian
Il Golden Harvest Cafe è il regno di Felicity, la decana delle hippy di Arcata. Alta, con i lunghi capelli grigi raccolti in una coda di cavallo e il corpo massiccio sempre coperto da informi camicioni indiani, Felicity è famosa per aver vissuto sei mesi su una sequoia per salvare un tratto di foresta dal disboscamento. Quando è scesa dalla sua sequoia, Felicity ha aperto questo caffè, che vende esclusivamente prodotti biologici e dà lavoro a mezza dozzina di studentesse del college locale. Felicity è materna e generosa, sempre pronta a dare una mano a chi è in difficoltà, e in paese tutti le vogliono bene e l’assecondano volentieri nella sua strana mania: il gioco del bridge. Ogni sabato sera vecchi hippy canuti, coltivatori legali e illegali, persino giovani lavoratori stagionali che migrano a Humboldt nella stagione del raccolto si ritrovano intorno al tavolo di Felicity, nella sua casetta tra le sequoie, per qualche mano di bridge. Non si può arrivare ubriachi né troppo fumati, perché Felicity vuole solo giocatori lucidi. Anche così, però, nessuno si è mai accorto che Felicity bara con grande voluttà.
Il Golden Harvest è frequentato soprattutto da giovani in vari stadi di alterazione da THC. Alle dieci del mattino le studentesse-cameriere hanno lo sguardo abbastanza sveglio, eppure impiegano mezz’ora per farti un panino. Tre minorenni dal sorriso beota si inginocchiano davanti al frigo delle bibite e rimangono lì a indicarsi a vicenda una bottiglia con aria estatica. Poi ci sono i waspafarians, cioè i rastafarian wasp, i ragazzetti bianchi con i dreadlock che accorrono qui da tutto il mondo per lavorare nelle piantagioni durante il raccolto. C’è anche un’italiana, drizzo le orecchie e la sento descrivere al telefono il motel dove sta dormendo con tre amici, nell’attesa di trovare un’altra piantagione in cerca di manovalanza. «Comunque non sai cosa ci è capitato venendo qui con il Greyhound» racconta. «L’autista si è incazzato con un passeggero, lo ha buttato giù dall’autobus, lo ha spinto dentro una cabina del telefono e ha legato una corda intorno alla cabina per non farlo scappare. Poi ha chiamato la polizia ed è ripartito. Erano le tre di notte.»
Oh oh. Domani devo prendere il Greyhound per tornare indietro. Sicuramente non mancherà l’intrattenimento a bordo.


lunedì 26 settembre 2016

Una serata allo Speakeasy

Un assaggio del Triangolo di Smeraldo
Abbinamenti Marijuana-Vino
(Continua da QUI
I coltivatori di marijuana che la corsa all’oro verde ha attirato qui nella contea di Humboldt, nell’estremo nord della California, vivono nei boschi, dietro un sipario di sequoie, protetti da steccati, divieti minacciosi e dalla fama di gente che spara a chiunque metta piede nella loro proprietà. Il sabato sera affidano le piantagioni a custodi armati e scendono in paese per ascoltare un po’ di musica allo Speakeasy, un piccolo locale di Eureka, il capoluogo della contea. Lì si mescolano con i vecchi hippy arrivati qui negli anni Sessanta e Settanta, che coltivano il loro orticello di marijuana biologica per raffinati intenditori.
Rusty arriva presto e comincia subito a bere pesante. La cameriera dietro il banco gli versa un bicchiere di vodka e un boccale di birra, e lo guarda preoccupata mentre lui li trangugia entrambi con metodo, la vodka in un sorso e la birra in due. Si è messo il cappello della festa, quello con la penna di fagiano, e con la canottiera a costine bianche e i bicipiti tatuati è il perfetto ritratto di quello che gli americani chiamano redneck, cioè uno zotico. Lavora per Shelby e Duke, due grossi coltivatori della zona. Eccoli che arrivano anche loro. Shelby porta una felpa mimetica, ha lunghi capelli biondissimi e stopposi, zigomi larghi e uno sguardo intenso, famelico. Duke è molto più giovane di lei, alto, scuro e tenebroso. Entrano nel locale con andatura da padroni. Duke non si stacca mai da Shelby, non riesce a stare nemmeno un istante senza toccarla. Lei appoggia la mano sporca di terra sulla spalla di Rusty e gli dice: «Adesso basta, andiamo.»
Sullo sfondo, nel piccolo spazio davanti alla band che suona il blues, un po’ di gente sta ballando, fra cui una coppia da concorso e un vecchio hippy ciondolante che deve essersi fumato l’intero orticello prima di uscire. Una donna asiatica con un tailleur grigio da bancaria si siede al bar, ordina un whisky e comincia a mandare messaggi con due telefoni contemporaneamente.
«Là fuori è pieno di ragazzini che potrebbero prendere il tuo posto» sta dicendo Shelby a Rusty. «Perciò se ti dico che devi smettere di bere e venire via con noi, tu alzi il culo e vieni via. Zia Felicity sta cercando il quarto per il bridge.»
Il bridge?
Rusty prende il portafogli dalla tasca dei jeans, paga e segue Shelby e Duke fuori dal locale.
La barista sorride, sollevata. «Grazie al cielo c’è Felicity», dice alla donna dai due telefoni, che le sorride rapidamente e poi abbassa lo sguardo per scrivere un messaggio.

2/Continua

lunedì 19 settembre 2016

Greyhound bus


Dentro la stazione degli autobus incontro la fauna variegata che mi terrà compagnia
durante il viaggio. Un uomo con un berretto da baseball sudicio ed enormi occhiali dalla montatura a stelle e strisce è seduto su una panchina con la testa ciondoloni, cerca di tirarla su ma gli ricade di nuovo, su e giù, di continuo, come una marionetta. Davanti a me c’è una ragazza che sembra la reincarnazione di Janis Joplin, acne e ciuffi sotto le ascelle compresi. Un’altra, molto carina, con un mantello nero damascato dai bordi di pelliccia e un anellone filigranato al naso, si gira e mi mostra l’orrendo ragno che ha tatuato sul collo. Un uomo ha la sommità della testa calva e tanti dreadlock ossigenati che gli spuntano dalla nuca. Otto su dieci hanno i dreadlock. Dieci su dieci sono tatuati.

Prima della partenza l’autista, una donna bassa e squadrata con gli occhiali scuri, spiega che a bordo non si può fumare niente e non si può bere alcol, ed esorta gli uomini ad alzare la tavoletta se devono usare il cesso. È la prima volta che fa quel tragitto, aggiunge, leggendo più volte il nome del capolinea su un foglio, ma cercherà di cavarsela.
Dopo la prima fermata, trascorsa senza intoppi, l’autista comincia a sbuffare e sibilare imprecazioni. Alzo gli occhi dal libro e vedo che siamo entrati in una zona pedonale. L’autobus passa in mezzo a paracarri e vasi di fiori, arriva davanti all’oceano, poi fa inversione sul marciapiede sotto lo sguardo sbalordito dei passanti e torna indietro. Imbocca l’autostrada. Nella direzione sbagliata. Imprecando e sbuffando, l’autista consulta i fogli su cui ha stampato le istruzioni. Sugli autobus Greyhound non esiste il GPS.
Alla terza fermata l’autista tira dritto: non ha visto l’uscita dell’autostrada. Mentre torna indietro, sempre più agitata, due passeggeri si siedono dietro di lei per spiegarle dove andare. 

Quando cala la notte le cose peggiorano. Per qualche misterioso motivo l’autista non si toglie gli occhiali scuri e, non riuscendo a leggere i cartelli, si affida esclusivamente alle urla dei passeggeri terrorizzati che le indicano la strada. 

Arriviamo al capolinea a notte fonda, con due ore di ritardo. San Francisco-Arcata, 450 chilometri in dieci ore. L’ultima cosa che vedo prima di salire sul taxi è una ragazza in lacrime: qualcuno le ha rubato la valigia. O forse l’autista ha perso anche quella. Chissà.

1/Continua

martedì 22 settembre 2015

Il sapore del cibo automatico: un mio pezzo su Rivista Studio

Un paio di settimane fa sono andata a provare Eatsa, il nuovo "ristorante automatizzato" di San Francisco. Ci sono andata perché volevo scrivere un articolo, e infatti l'ho scritto. Lo trovate su Rivista Studio, QUI



domenica 5 luglio 2015

Le scarpe di Fantozzi

Mentre un raggio di sole buca l'ineluttabile coltre di nebbia di un mattino di luglio a San Francisco, ripenso a quel mattino di pochi giorni fa, quando mi sono alzata nella brezzolina pre-caldazza del mio paesello e mi sono preparata per i due importanti appuntamenti milanesi che mi aspettavano. Alle tre dovevo vedere l'Agente Letterario, e alle sei e mezza avevo un cocktail in onore di un importante Scrittore Americano che ho tradotto di recente.
La sera prima la mia amica Viviana mi aveva imposto un rastrellamento del guardaroba, in cerca di una mise adeguata ai suddetti appuntamenti. Tralasciando le mie urla di raccapriccio nel constatare che quasi tutti i miei vestitini estivi erano stati misteriosamente scambiati con altri vestiti identici ma di due taglie inferiori, passiamo direttamente alla questione dei sandali. Secondo l'amica Viviana non potevo assolutamente indossare i sandali francescani marroni che indosso sempre d'estate in alternativa a quelli orrendi da passeggio col velcro, ma dovevo assolutamente mettermi dei sandali neri. Io di sandali neri ne avevo due paia, relegati nella scarpiera da tempo immemorabile, entrambi pre-usati da amiche che poi me li avevano passati perché impietosite dai miei piedi calzati di velcro.
Al mattino, dunque, dopo aver indossato una mise nera semplice ma elegante - a parte i pantaloni che tiravano un po' sui fianchi, ma per fortuna il lino si rilascia - mi sono infilata un paio di sandaletti neri. Al momento di chiudere il cinturino, però, mi sono accorta che il cuoio - che in realtà non era cuoio, ma un materiale più simile al catrame - era un po' appiccicaticcio. Allora, con un colpo di genio addirittura germanico nella sua praticità, ho infilato il secondo paio di sandaletti neri in un sacchetto di plastica che ho infilato a sua volta nella borsa, pensando: "Ha! Così se i primi sandali si rompono ne ho un paio di scorta!"
Nel breve tragitto da casa mia alla stazione, i sandali di catrame, forse un po' sciolti dalla prima caldazza, hanno cominciato a rilasciarmi una specie di gromma nera sui piedi. Ma io, astuta, avevo con me il paio di scorta. Arrivata in stazione ho diligentemente pulito i piedi ingrommati con un fazzolettino inumidito, ho buttato nella spazzatura i sandali di catrame e ho infilato il secondo paio di sandali. Poi sono salita sul treno.
Pochi istanti dopo, mentre telefonavo alla mia amica Eleonora che mi avrebbe ospitato quella sera, ho abbassato lo sguardo a terra e ho pensato: "Che strano, come ho fatto a non accorgermi che il pavimento era così sporco." Sembrava che qualcuno avesse lavato in lavatrice un paio di jeans con le tasche piene di fazzoletti di carta e poi avesse riversato il contenuto di quelle tasche sul pavimento del treno. Ma poi mi sono accorta che non era carta. Era il contenuto del tacco del mio sandalo che si era appena staccato dalla suola. Nel giro di pochi istanti, mentre ne facevo la cronaca in diretta a Eleonora, si è staccato anche l'altro tacco, liberando un materiale che in seconda analisi somigliava di più al polistirolo che alla carta. E poi, misteriosamente, la suola ha cominciato a disintegrarsi, come se ci fossero degli animaletti che ne rosicchiavano i bordi.
Mentre tutto lo scompartimento seguiva in tempo reale lo svolgersi della vicenda, ho chiamato il mio amico Edoardo implorandolo di precipitarsi in un negozio di scarpe vicino alla stazione per comprarmi un paio di sandalacci da battaglia e di portarmeli al binario. E così, con un paio di sandali col velcro nuovi fiammanti marca Decathlon, sono riuscita ad arrivare dall'Agente Letterario. Uscita da lì ho trovato un grande negozio di nome Silvia in cui naturalmente sono subito entrata, e lì ho comprato un paio di sandali neri scomodissimi ma molto carini con i quali ho fatto un figurone al cocktail.

Poiché non possiedo un telefono dotato di macchina fotografica, purtroppo non ho potuto fotografare i sandali di Fantozzi prima di buttarli nella spazzatura, perciò li lascio alla vostra immaginazione.
In alternativa vi offro un'immagine del Golden Gate Bridge momentaneamente visibile attraverso la nebbia, fotografato or ora dalla finestra salendo in piedi sulla poltrona girevole della scrivania con grande sprezzo del pericolo.



venerdì 3 luglio 2015

La caldazza mi salverà

Quando avrò tempo vi racconterò dell'agente letterario, del cocktail di gala e soprattutto dei sandali di Fantozzi. Oggi mi sono svegliata troppo presto e ho troppe cose da fare perché domani, ahimè, parto. In questi giorni di caldo sopportabile e brezzoline paradisiache ho sperato nell'avvento della caldazza, che mi permettesse di non ripetere le mie solite scene disperate all'aeroporto della Malpensa al momento di lasciare questo panorama estivo dalla scrivania



per quest'altro panorama estivo dalla scrivania



Oggi la caldazza è arrivata, e forse partirò più a cuor leggero. L'anno prossimo però, giuro, a luglio vado al mare.


martedì 9 dicembre 2014

Alla salute del puma

Scrivere è faticoso, soprattutto se non si ha tempo per farlo. Mi mancate, ma devo cercare di rimanere concentrata, almeno finché non capisco dove sto andando a parare (sempre che stia andando a parare da qualche parte, perché non ne sono mica sicura). Intanto, naturalmente, traduco. Però il racconto sul puma mi piace. E per fortuna c'è Mr K che mi aiuta.


martedì 18 marzo 2014

La maledizione della viaggiatrice e l'oasi incantata/3

(Continua da QUI)

Questo posto è un paradiso. L'altra volta mi aveva colpito per la sua bellezza, ma non c'era nessuno, non avevamo potuto comprare il vino, e così abbiamo deciso di tornare. 
E abbiamo fatto bene, perché il Forteto della Luja è un posto davvero speciale. Il proprietario ci accoglie e ci mostra l’azienda agricola/oasi del WWF, raccontandoci la sua storia. La sua famiglia ci vive da molte generazioni, e ha sempre prodotto i suoi vini in modo tradizionale; i vigneti, che si trovano su un terreno molto ripido e stretto, sono sempre stati lavorati a mano, senza l'uso di diserbanti che alla lunga avrebbero portato a un dilavamento del terreno, e con l'aiuto di cavalli per trasportare l'uva nel periodo della vendemmia. Non si tratta perciò di un’azienda che dopo anni di coltivazione convenzionale è passata al biologico: questo terreno non è mai stato inquinato, è sempre stato coltivato con metodo biologico da molto prima che qualcuno decidesse di chiamarlo biologico. Anche la lotta contro gli insetti nocivi viene fatta disponendo nidi artificiali per favorire la riproduzione e lo stanziamento di piccoli uccelli. Oggi il metodo tradizionale si affianca a una conoscenza scientifica delle tecniche di vinificazione, e all'uso di energie pulite come i pannelli solari.

Giovanni Scaglione, il proprietario, ci racconta che il loro vino viene da sempre prodotto con l'antico sistema della "madre del vino", e ci mostra la piccola cantina in pietra che risale al 1700, dove ascoltiamo la madre del vino che sfrizzola allegramente dentro una botte. Ci mostra anche i suoi "trattori", due bei cavalloni di montagna, il maschio narcisista che scaccia la femmina quando si accorge che sto per fotografarli. 

Questo terreno non contaminato da diserbanti è l'habitat ideale di una specie vegetale la cui presenza è un indicatore di assenza di inquinamento: l'orchidea. Un giorno un gruppo di volontari del WWF che stavano osservando le orchidee della zona si sono accorti che sul terreno dell'azienda agricola ne crescevano ben 21 specie, e così nel 2007 hanno proposto a Giovanni di trasformare il Forteto della Luja in un'oasi affiliata al WWF. Se la visitate in maggio potrete vedere la fioritura delle orchidee, e anche una grande quantità di farfalle (in maggio c'è la Festa delle orchidee spontanee, e in luglio la Festa delle farfalle, con musica dal vivo). E se la visitate in qualsiasi momento potrete degustare il vino, che è squisito: la specialità è il Loazzolo, un passito di moscato vendemmia tardiva molto raro, ma noi abbiamo comprato anche un'ottima barbera. 

Cavallo Narciso in posa
Cavallo Narciso al lavoro

E se volete c'è anche un servizio Tv:




giovedì 13 marzo 2014

La maledizione della viaggiatrice e l'oasi incantata/2

(Continua da QUI)

Le colline intorno a Cessole
L'ora persa guidando nella direzione sbagliata ci impedisce di trovarci nelle Langhe per l'ora di pranzo, e così, anche per un certo spirito di autoflagellazione, decido di non meritarmi altro che un panino dell'autogrill. Ora, quelli che cucinano negli autogrill devono essere gli stessi che cucinano sugli aerei, cioè operai alla catena di montaggio che miscelano materie plastiche nel vano tentativo di spacciarle per cibo. Non c'è nulla dall'aria anche solo vagamente commestibile, neppure l'insalata, vizza e guarnita di finto mais gommoso e pomodorini che ti esplodono in bocca con uno spruzzo di acqua acidula. La pentola del risotto è misteriosamente ricolma di cemento, mentre tra i panini spicca un cotoletta d'epoca che sembra il parente salato della Luisona. Per i vegetariani ci sono due opzioni: il classico caprese al gusto di cartone bagnato e un verdure con melanzane vulcanizzate. E io che sognavo la bagna cauda.

Finalmente arriviamo a Frittole, pardon, Cessole, al bio-agriturismo dove siamo già stati l'altra volta e che ci piace tanto. Dopo una bella passeggiata sulle colline dove incontriamo quasi solo antiche case in rovina e quasi nessun villino del geometra, la sera ci gustiamo finalmente una bella cenetta, durante la quale Mr K riesce a dimenticare il panino con prosciutto in vetroresina consumato a pranzo scofanandosi allegramente un antipasto, tre primi (fra cui due gigantesche porzioni di tagliatelle al ragù) e due secondi.

Il giorno dopo, a colazione (la torta di nocciole!), dobbiamo decidere dove andare. Io voglio tornare all'oasi del WWF dove siamo già stati, perché l'altra volta non c'era nessuno a farci da guida. Telefoniamo e stavolta ci sono. Perfetto. Poi si potrebbero visitare le cantine storiche di Canelli, oppure andare a Barolo all'Enoteca Regionale e al Museo del Vino. Il proprietario dell'agriturismo ci avvisa che è meglio telefonare prima alle cantine di Canelli, mentre per Barolo non è necessario, lì ci sanno fare con i turisti ed è sempre tutto aperto. Telefoniamo a Canelli, ci dicono che sono aperti, ma io penso, dai, portiamo Mr K a Barolo, che non c'è mai stato.

(2. Continua)

domenica 9 marzo 2014

La maledizione della viaggiatrice e l'oasi incantata/1

Che titolo, eh? Si capisce che ho appena visto tutti i film di Harry Potter.
Dopo aver cancellato la gita all'Alpe Devero per il rischio valanghe (dopodiché è subito tornato il sole, ovviamente - ecco cosa ci voleva per far smettere di piovere - ma per Mr. K era troppo tardi, non aveva più tempo di passare due notti fuori), ed essere tornati indietro poco dopo la partenza a causa della rottura dell'alternatore (come spiegavo in un commento, la mia macchinetta ventenne nel giro di un mese si è vista sostituire: batteria; pezzo di motorino d'avviamento; ammortizzatori posteriori + altro pezzo sconosciuto; pezzo di alternatore. Secondo il meccanico, inoltre, anche la cinghia ha i giorni contati), il giorno dopo, sfidando la sorte avversa, abbiamo deciso di partire comunque per Frittole
Ora, la maledizione della viaggiatrice dipende in realtà da una serie di fattori (oltre alla macchina d'epoca, naturalmente): 1) io ODIO guidare; 2) non conosco la geografia; 3) non ho memoria; 4) non ho senso dell'orientamento; 5) Mr. K è identico a me, e in più non sa usare il cambio manuale. 
Malgrado tutti questi fattori razionali, bisogna dire che quando arriviamo all'entrata dell'autostrada e la troviamo chiusa per lavori, persino Mr. K comincia a prendere sul serio l'ipotesi della maledizione. Per fortuna che questa volta siamo partiti in orario, penso, così malgrado questo piccolo inconveniente riusciremo comunque a fermarci a mangiare in un bel posticino nelle Langhe. Entriamo in autostrada un po' più in là; la giornata è azzurra e limpida. Dopo un po' troviamo un bivio: Genova o Gravellona Toce? Svelto, dico a Mr. K, da che parte andiamo. Lui non ne ha la più pallida idea. Io sono quasi sicura di dover andare verso Gravellona Toce, e così svolto in quella direzione. La giornata è proprio splendida, si vedono le montagne, si vede il lago. Il lago ci accompagna sulla destra, passiamo dall'uscita di Stresa, si vedono le isole Borromee. Non ricordo di aver visto questo panorama l'altra volta che siamo andati a Frittole, ma io tanto non mi ricordo mai niente. A un certo punto però arriviamo all'uscita di Verbania. Verbania si trova sul lago, esattamente di fronte a Laveno, dove abito io. Infatti c'è un traghetto che ogni venti minuti fa la spola tra Verbania e Laveno. Stiamo guidando da un'ora e siamo arrivati davanti a casa? D'un tratto, con notevole prontezza di riflessi, capisco che c'è qualcosa che non va. Esco a Verbania e sono molto tentata di andare a prendere il traghetto e tornare a casa. Ci fermiamo in un parcheggio, e mentre io grido "Gugol meps è una merdaaaaa! Doveva dirmelo che bisognava andare in direzione Genovaaaaa! Voglio tornare a casaaaaa!", Mr. K riesce a convicermi a girare la macchina e imboccare di nuovo l'autrostrada, questa volta in direzione Genova.
[Dalla cartina qui sopra non è chiarissimo perché non tutte le uscite sono segnate (gugol meps = cacca), ma diciamo che siamo entrati in autostrada ad Arona e dovevamo uscire ad Alessandria, che sulla cartina non c'è ma è dalle parti di Acqui Terme.]
(1. Continua)

lunedì 13 gennaio 2014

Cronache della tiroide/4. Le prime analisi

Da quando ho cominciato la terapia sto sempre meglio, i sintomi sono praticamente scomparsi (compresa, ahimé, la fame lupesca accompagnata da dimagrimento). 
Il 23 dicembre ho fatto il primo controllo, di cui in teoria avrei dovuto sapere i risultati entro una settimana. Ma non avevo fatto i conti con il Natale. E poi con il Capodanno. E poi con le ferie del medico che mi segue. E poi con l'infermiera del reparto che alle mie telefonate rispondeva ogni giorno "sì, certo, riferirò il suo messaggio". E poi nessuno mi richiamava. Nel frattempo ho scoperto di poter consultare i risultati delle mie analisi online, ma è stato un sollievo di breve durata, perché quando finalmente ho potuto accedere alla pagina - previa visita all'asl per l'attivazione delle "credenziali" - ho trovato solo una parte delle mie analisi, quelle non specifiche per la tiroide. Mentre ormai mi stavo guardando intorno per cambiare ospedale, finalmente il 10 gennaio ho ricevuto la telefonata del medico. Ed erano buone notizie. Dei due parametri da tenere sotto controllo, il primo si è regolarizzato, e il secondo è ancora un po' sballato ma va meglio. Il prossimo controllo sarà il 23 gennaio, e se va bene potrò cominciare a ridurre i farmaci. 
Nel frattempo sto praticando ogni giorno la seduta di yogaterapia studiata ad hoc dal maestro che seguo da tanti anni, e sono sicura che anche questa mi sta aiutando.
Presto tornerà Mr K, e finalmente potrò andare in montagna a ciaspolare!

domenica 8 dicembre 2013

Cronache della tiroide/3 (con Glenn)

(Continua da QUI)

Il medico di base mi mette un bollino verde e mi manda dritto filato all'ospedale di Varese. Lì la dottoressa mi dice che devono fare ulteriori accertamenti (sulla causa e sull'entità dell'ipertiroidismo), e mi dà appuntamento per il lunedì successivo. La cronologia dunque è questa: lunedì 4: pneumologo, (ospedale n.1); sabato 9: cardiologo; lunedì 11: nuove analisi e diagnosi, (ospedale n. 2); martedì 12: approdo all'ospedale di Varese (n.3), dove grazie al bollino verde mi danno appuntamento a lunedì 18 per gli ultimi accertamenti. Insomma, tanto tuonò che piovve. A furia di esaltare il sistema sanitario italiano rispetto a quello americano, mi è stata offerta l'occasione di provarlo di persona. La prova è stata superata. "Meno male che eri qui", è stato il coro unanime di amici e parenti. Se mi fosse successo oltreoceano, be'... non voglio neanche pensarci.
Lunedì 18 mi presento a Varese, di nuovo a digiuno e famelica, per le nuove analisi: sangue, ecografia, scintigrafia. La dottoressa mi dice che i risultati saranno pronti per venerdì, mi avviserà lei per telefono. Venerdì la chiamo per dirle che io magari sarei andata a Milano, se non era urgente, e sarei passata in ospedale lunedì. Nessun problema. Venerdì sera mi godo Merlin, lunedì 25 (20 giorni dalla prima visita all'inizio della terapia) mi presento in ospedale dove la dottoressa mi prescrive la terapia a base di Tapazole. Senza smettere i betabloccanti, così posso avere le mani fermissime e imparare a suonare il piano come Glenn Gould. Poi mi fa l'esenzione: malattia cronica + reddito = esenzione totale. E mi fissa il prossimo controllo per il 23 dicembre. All'inizio i controlli saranno piuttosto frequenti, finché non saremo sicuri che la terapia funziona, poi diventeranno trimestrali. Quindi, per ora, niente San Francisco.

P.S.: a proposito di Glenn Gould (e di medicinali). Ho appena visto il bellissimo Thirty Two Short Films About Glenn Gould. Ne trovate dei frammenti QUI. E qui sotto trovate quello intitolato Pills (perché lui non prendeva solo i betabloccanti).