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mercoledì 16 dicembre 2015

Una telefonata nel passato

L'ultimo racconto del mio libro parla dei jeans di Bruce Springsteen, che alcuni di voi ricorderanno da un post di qualche anno fa
Il racconto naturalmente è molto diverso dal post, e per scriverlo ho dovuto fare alcune ricerche. La prima cosa che mi ha colpito è la totale scomparsa del signor Amato, che fu un protagonista importante di quel viaggio eppure è stato dimenticato. Non so altro che il suo cognome e il posto dove lavorava nel 1985. Forse potrei rintracciarlo assumendo un detective per controllare i registri dell'aeroporto LaGuardia, ma non credo che sia il caso. Mi resta però questa strana sensazione di un buco nero temporale che si è inghiottito il mio passato.
Come ricorderà che ha letto il post, un ruolo importante in quella vicenda venne svolto da Ralph il sarto, e siccome qualcuno con il suo nome risulta in effetti rintracciabile sulla guida telefonica del New Jersey, ieri sera ho deciso di telefonargli. Ora, immaginatevi cosa avrà pensato questo signore ricevendo la telefonata di una tizia che gli dice che chiama dall'Italia e ha una foto del suo - forse - negozio scattata trent'anni fa e sarebbe così gentile da dare un'occhiata alla foto e dirle se quello era effettivamente il suo negozio? Dopo un po' ha capito - più o meno - cosa volevo, e in tono brusco e con fortissimo accento broccolino mi ha detto: "sì, sì, manda pure la foto". E io: "com'è il suo indirizzo e-mail?". E lui: "90 East Street..." "No, no, mi serve l'indirizzo e-mail." "Ma non ho capito, vuoi mandarmi la foto sì o no?" "Sì, certo, gliela manderei via e-mail." "Niente e-mail, io non ce l'ho l'e-mail." Occazzo. "Ah, va bene, ma può dirmi da quanto tempo è aperto il suo negozio?" "Siamo aperti il lunedì, il martedì..." "No, no, intendevo da quanti anni." "Come sarebbe, da quanti anni?" "Il suo negozio c'era già nel 1985?" "Questo negozio è aperto da sessant'anni." Ok, è lui.
(P.S.: vi invito a leggere il commento di Matteo Telara qui sotto per scoprire il finale della scena.)

lunedì 29 settembre 2014

Una minorenne in America/4. Greetings from San Francisco, 1986

 
Il racconto delle mie avventure da minorenne in America è rimasto in sospeso per molto tempo. Forse perché la vita quotidiana ha modificato parecchio la mia opinione su questo paese - che era stata ulteriormente edulcorata da alcuni splendidi soggiorni in residenze per artisti avvenuti molto più tardi, a partire dal 2003 - ma la cartella con le fotografie digitali che riproducono le tremende fotografie originali scattate con la mitica Kodak Disc è rimasta a languire sul desktop per più di due anni. Sono le foto scattate a San Francisco nell'estate del 1986 (la storia di come ci sono arrivata l'ho raccontata QUI). 
Raccontare di New York nel 1985 è stato più facile, perché New York l'amo ancora tantissimo. Raccontare di San Francisco lo è un po' meno, perché non so se l'ho mai amata. Però naturalmente quella vacanza è stata indimenticabile, una delle esperienze più belle della mia vita. Se a New York (anzi, a Freehold, New Jersey) avevo trovato i jeans di Bruce Springsteen, a San Francisco ho conosciuto un signore che ci ha portate in volo fino a Disneyland su un aereoplanino a quattro posti. E poi da San Francisco io e Cristina abbiamo preso il Greyhound che ci ha portate, in tre giorni e quattro notti, direttamente a New York. Il viaggio più massacrante della mia vita, del quale però non ho alcuna prova fotografica (ma forse Cristina sì...?).




Libreria socialista (che ovviamente oggi non c'è più)

Oggi, rivedendo queste foto, mi chiedo: ma perché non ho fotografato il signor Gerard, il nostro intrepido pilota? E neppure l'orrido tedesco un po'  maleodorante che ci portò in giro in macchina per qualche giorno (ricordo una breve visita allo Yosemite), per poi riportarci indietro in fretta e furia per incompatibilità di carattere (soprattutto con me)? E di quel viaggio in Greyhound, perché non ho fotografato niente? Di quello mi resta solo la cartina con segnati i luoghi delle fermate e il biglietto dell'autobus spedito dall'Italia, con il messaggio di mio padre che mi augurava buon viaggio.





Gay Pride, 1986
Comunque di San Francisco ricordo poco altro. Il solito trauma del turista che crede di visitare la California del sud e arriva con un abbigliamento ridicolmente inadeguato (nel mio caso culminato con un concerto dei Beach Boys in cui mi misi letteralmente a piangere per il freddo). Un bosco di sequoie con un piccolo bar pieno di adorabili capelloni danzanti. Una serata in campeggio (probabilmente durante la gita con l'orrido tedesco) in cui conoscemmo alcuni ragazzi simpatici e cantammo con loro davanti al fuoco. Il Gay Pride, scene inimmaginabili per una diciassettenne italiana del 1986: uomini seminudi e un'enorme donnona nera che mi afferrò e mi trascinò a ballare con lei. I bar del Castro District, dove omaccioni baffuti minacciati dall'Aids tentavano di distrarsi guardando Dynasty e tifando per la cattivissima Joan Collins.

Ma naturalmente il culmine del viaggio furono la visita a Disneyland, e soprattutto il viaggio coast-to-coast con il Greyhound. E quelli ve la racconto la prossima volta. Oppure, chissà, magari ve li racconto in un libro ;-)
(1/Continua)

Una "stretch limousine" degli anni '80

lunedì 18 giugno 2012

Una minorenne in America/3: Greetings from New York, 1985 - Seconda parte

(Continua da qui).





 


Non lo facemmo apposta. Camminavamo, camminavamo come sempre, nel caldo di agosto, mentre io macinavo chilometri masticando mele verdi, quando d'un tratto notammo un cambiamento nel colore dei passanti. C'erano molti più neri che bianchi. Anzi, i bianchi continuavano a diminuire, e a un certo punto finirono. Intorno a noi erano tutti neri. "Ma dove siamo? Guarda un po' la cartina." "Ah, guarda, siamo a Harlem!"







 

Harlem nel 1985, cioè, quando New York era una città sporca e cattiva e piena di criminali e di senzatetto, prima che arrivasse Giuliani a ripulire tutto con il lanciafiamme. E così, forse perché in quel momento ci punse la nostalgia delle nostre camerette sicure e tranquille, Cristina ebbe una splendida idea. Decise di telefonare a sua madre per farle un saluto. Trovammo un telefono pubblico e Cristina chiamò a casa. A New York erano tipo le 5 del pomeriggio, a Milano le 11 di sera, e sua madre dormiva. "Ciao mamma, indovina da dove ti chiamo? Da una cabina telefonica di Harlem!"




Dopo aver terrorizzato la madre di Cristina decidemmo che per quel giorno avevamo avuto sufficienti avventure, e potevamo tornare al college. Trovammo una fermata dell'autobus e ci mettemmo in attesa. Poco dopo vedemmo arrivare in lontananza un gruppetto di quattro o cinque uomini molto grossi in tuta da operaio. E allora anche noi, con tutta la nostra allegra incoscienza, cominciammo a sentirci un po' inquiete. "Ma secondo te vengono da noi? Ma secondo te cosa vogliono? Oddio, si avvicinano, cosa facciamo?" Restammo lì impietrite mentre gli omaccioni si avvicinavano e, sì, venivano proprio a parlare con noi. "Volete andare downtown, ragazze?" "Ehm, sì..." "Allora l'autobus dovete prenderlo dal lato opposto della strada. Take care".
Quello fu senz'altro il momento più pericoloso di tutto il nostro viaggio.


martedì 29 maggio 2012

Una minorenne in America/3: Greetings from New York, 1985 - Prima parte

Dopo aver scoperto che eravamo libere di andare e venire quando e come ci pareva, io e Cristina, accompagnate occasionalmente da qualche altra temeraria, cominciammo davvero ad andare e venire come e quando ci pareva. Provate a pensare all'emozione che si prova quando si mette piede per la prima volta a New York, quella sensazione di essere entrati direttamente nello schermo del cinema e di poter incontrare un personaggio mitico, non importa se vero o fittizio, dietro ogni angolo. Anzi, di essere diventati noi stessi uno di quei personaggi mitici. E poi pensate di provare quella sensazione a sedici anni, per tre settimane di fila, completamente libere di fare tutto quello che vi pare. Soldi permettendo, visto che in teoria era già stato tutto pagato e non avremmo dovuto spendere di più. E oltretutto il cambio era intorno a 1$ per 2000 lire.

 

E così mangiavo poco, in quel periodo, prevalentemente mele verdi, e camminavo in media dieci chilometri al giorno. Tutta la città a piedi. Tutta. La mattina prendevamo il ferry da Staten Island e tornavamo la sera, a volte a notte fonda. Una volta andammo a un concerto jazz al Village Vanguard. Si fumava, allora. Era un vero jazz club, buio e sotterraneo e fumoso.



Una volta incontrammo un ragazzo bellissimo che sembrava James Dean e che ci portò a fare un giro al parco. Scoppiò un temporale, io mi tolsi le espadrillas per non far sciogliere la suola e corsi a rifugiarmi con lui sotto l'arco che c'è vicino alla Behesda Fountain (ci sono stata di recente e l'ho riconosciuto). A piedi nudi nel parco, cantando sotto la pioggia e saltellando per evitare i cocci di bottiglia e le siringhe.


 

Una volta incontrammo un ragazzo simpatico  che comprò due birre per noi ultraminorenni e bevve con noi dal sacchetto di carta marrone per la strada. Poi, visto che si avvicinava l'alba, ci invitò a casa sua a fare colazione. "Volentieri!" rispondemmo. "Dove abiti?" "Nel Bronx." E via, in metropolitana, a fare colazione nel Bronx alle 5 del mattino con uno sconosciuto (era la parte residenziale del Bronx, quella non pericolosa, ma noi non lo sapevamo).





I nostri genitori, ovviamente, non sospettavano nulla. L'unica volta che ci tradimmo fu il giorno che ce ne andammo a spasso per Harlem. (1. Continua)

giovedì 26 aprile 2012

Una minorenne in America/1: Premessa

Il post di Basilico & Ketchup sul mullet mi ha ricordato quello che io stessa fui costretta a subire tanti anni fa a New York, quando avevo diciotto anni. Ora, io in genere non amo parlare di me, almeno non in senso autobiografico, però ci sono due o tre episodi dei miei viaggi americani tardoadolescenziali che forse in effetti meritano di essere raccontati. Prima di cominciare, tuttavia, occorre una breve premessa.
Come accadde che mi ritrovai in America incustodita a quella tenera età? Quando avevo sedici anni i miei fantastici genitori mi mandarono a New York per una vacanza studio. Alloggiavo al Wagner College di Staten Island con un gruppo di altri studenti italiani. Pessima idea, i gruppi di qualunque tipo mi fanno venire l'orticaria. Individuai subito un'alleata, e inseme a lei fuggii dal college. Cioè, non è che proprio fuggimmo, io e Cristina. Ogni tanto ci tornavamo, a Staten Island, in genere al mattino per fare colazione e dormire un po'. La sorveglianza non era molto rigida, anzi, diciamo che era inesistente, e così io e Cristina ci godemmo New York praticamente da sole, per tre settimane, a sedici anni, nei tardi anni Ottanta. Conobbi anche il sarto di Bruce Springsteen, che mi regalò i suoi jeans. Naturalmente fu un'esperienza che mi cambiò la vita.

Io, a San Francisco, a 17 anni
L'anno dopo io e Cristina decidemmo di replicare. L'idea della vacanza studio ci era piaciuta assai. Meta: San Francisco, nell'estate dei miei diciassette anni. Questa volta la formula era ancora più rilassata, e l'aula di studio non la vedemmo neppure una volta. Passammo molto tempo con un signore conosciuto in mensa, un certo Gerard che non ho mai più ritrovato, che allora ci sembrava vecchissimo ma che doveva avere sì e no sessant'anni. Gerard aveva il brevetto di pilota turistico, e ci portò a Disneyland con un aeroplanino a quattro posti. Il viaggio di ritorno da San Francisco a New York - dove ci attendeva l'aereo, quello grande, per l'Italia - lo facemmo con il Greyhound, tre giorni e quattro notti ininterrotte di viaggio. Ho ancora il biglietto che mi spedì mio padre dall'Italia. Fare: 70USD.

L'anno dopo, il mio ultimo viaggio americano prima che finissero i soldi. Sarei tornata solo nel 2003. Cristina quell'estate non era disponibile, e così dovetti organizzarmi con quello che trovai. Il figlio dell'assicuratore di mio padre partiva per un viaggio in macchina sulla costa est con la fidanzata e un amico, e così decisi di aggregarmi, senza conoscerli. Pessima idea. Tre delle persone più odiose che abbia mai conosciuto, davvero, tre mostri ripugnanti. Incastrata quasi sempre in macchina con loro, durante l'ultima settimana a New York me ne andai sempre in giro da sola. Rividi M., il mio fidanzatino di due anni prima che adesso lavorava nel World Trade Center, vestiva in giacca e cravatta e non mi si filava più. L'ultimo giorno pioveva, ero triste e non sapevo cosa fare. Avevo un walkman con cui ascoltavo People Are Strange dei Doors, lo ricordo bene. E così decisi di andare a tagliarmi i capelli. Come Eric Packer di Cosmopolis, adesso che ci penso. E così, per molti anni, il mio ultimo ricordo di New York sarebbe il giorno in cui un parrucchiere portoricano mi aveva fatto un mullet.