giovedì 31 marzo 2011

Found in Translation at the Guggenheim


The Deutsche Bank Series at the Guggenheim: Found in Translation
February 11–May 1, 2011

In our globalized world, with political, economic, and cultural issues intertwined across nations, boundaries between the local and global have all but disintegrated. The necessity, and the difficulty, of communicating across cultural and historical divides is now an unavoidable aspect of our lives. Within this context, translation, in both its linguistic and more figurative senses, has become a fundamental tool for making sense of reality. Unlike ever before, we must consider what can be lost (or gained) in translation, and what effects these endless transformations have on the world around us.

(The boldface is mine) Read more here.


Beautiful Houses/2



















Pacific Heights
(Slanted Bay Italianate, 1870’s-1880’s) 

Circa 48.000 case in stile vittoriano ed edoardiano vennero costruite a San Francisco fra il 1849 e il 1915 (il passaggio dal primo al secondo stile coincise con la morte della regina Vittoria nel 1901), molte dipinte in colori vivaci. Mentre parecchi dei palazzi di Nob  Hill vennero distrutti dal grande terremoto del 1906, molte case più modeste sopravvissero nei quartieri occidentali e meridionali della città. 
Durante la Prima e la Seconda guerra mondiale lo stile vittoriano andò completamente fuori moda, e molte di queste abitazioni vennero dipinte di grigio-corazzata con la vernice avanzata dalla Marina Militare. In questo periodo vennero demolite altre 16.000 case, e in molte altre le decorazioni vittoriane vennero eliminate, oppure coperte con mattoni, stucco o rivestimenti in alluminio. Molte delle Victorians che sopravvissero erano quelle i cui proprietari erano troppo poveri per permettersi i lavori di ristrutturazione.

(1. Continua)

mercoledì 30 marzo 2011

Are you my benefactor?

Is there anybody out there who has a lot of money to spend and has always dreamed of becoming a translator's benefactor? Well, in that case I would like this:


More pictures here.
Thanks for your cooperation.

Meet my husband/2: Jonathon Keats' Textbooks for Bacteria



A new art project by Jonathon Keats: textbooks for bacteria. This short documentary (5 minutes) appeared on Daily Planet, a daily science show on Discovery Channel.

martedì 29 marzo 2011

Un'intervista alla sottoscritta

Pubblicato oggi su minima & moralia:

Silvia Pareschi racconta l’esperienza di tradurre Jonathan Franzen. Estratto di un’intervista pubblicata su Studio, bimestrale di approfondimento culturale, fresco di uscita.
Lo scorso settembre, sulla scia delle prime critiche a Freedom, ho sentito il bisogno di rileggere Le correzioni. Nonostante lo avessi amato moltissimo, non mi era più capitato di leggere Franzen, fatta eccezione per qualche saggio. A parte confermare l’entusiasmo provato anni prima, la rilettura aveva messo in moto altro. Nel giro di un paio di giorni, due persone ignare l’una dell’altra e ignare della mia rilettura in corso, senza che avessi mai parlato di Franzen con loro, mi hanno spontaneamente fatto sapere di aver conosciuto la sua traduttrice italiana. Chiunque di noi nella propria vita avrà sicuramente fatto esperienza di coincidenze ben più straordinarie di questa, che nel suo piccolo è stata sufficiente a farmi provare il desiderio di conoscere Silvia Pareschi, nella speranza di capire meglio alcune cose della scrittura di Franzen che rivestono per me (e ovviamente non solo) una certa importanza.
Al momento dell’intervista, autunno 2010, Silvia era a San Francisco dove vive per metà dell’anno insieme al suo compagno, l’artista e scrittore Jonathon Keats (di cui ha tradotto Il libro dell’ignoto, uscito a dicembre per Giuntina, N.d.R.). Quando l’ho contattata ho scoperto che stava terminando la prima stesura di Freedom: l’oggetto su cui volevo interrogarla era lì, aperto sul suo tavolo.
Oltre a Franzen, Silvia ha lavorato sulle opere di molti autori, tra cui Denis Johnson, Don De Lillo, Junot Diaz, Nathan Englander, Alice Munro, Cormac McCarthy, per nominare solo i più importanti. Ma con Franzen, ha dichiarato, ha un rapporto speciale.

Potete leggere l'intervista qui.

lunedì 28 marzo 2011

"Qual è il tuo nome?", o l'italiano del doppiaggio televisivo

Ripubblico qui un interessante articolo di Daria Motta uscito tempo fa sul sito della Treccani.

"... Oltre agli ormai diffusissimi modi colloquiali fa’ la cosa giusta, non c’è problema, dammi un’altra chance o un’altra occasione, batti il cinque, essere al posto giusto al momento giusto, non ci posso credere, possiamo citare vere e proprie frasi proverbiali, come non è come andare in bicicletta, invece del nostrano non è semplice come bere un bicchier d’acqua; o l’ha imparato sulle ginocchia di sua madre per l’ha succhiato con il latte. Di particolare rilievo per la spinta convergente di doppiaggio della fiction e linguaggio dei quiz importati il caso di una domanda da un milione di dollari per una domanda impossibile. Sembra proprio che i parlanti italiani non accorgano di ricalcare il modello inglese quando dicono qual è il tuo nome? invece di come ti chiami?, qual è o dov’è il problema? per c’è qualcosa che non va?, o datemi ancora cinque minuti invece di mi serve più tempo. O ancora, ho una domanda, invece di devo chiederti una cosa, o pensi di poter fare questo per me? al posto di puoi farmi questo favore?; si rilassi, invece di stia calmo." *
L'articolo intero lo trovate qui

*Ricevo e mi affretto a pubblicare il seguente commento di Laura Prandino: "E vogliamo parlare del dev'essere stato Arson a commento di un incendio doloso in un vecchio CSI?"  
Aggiungo inoltre la seguente segnalazione di Michele Piumini: "Il top dei top è la puntata di Futurama con una strana automobile che, quando c'è la luna piena, subisce strane mutazioni: le crescono il pelo e i dentoni, si mette a ululare... Ebbene, nella versione doppiata lo strano veicolo è chiamato "L'AUTO CHE ERA".

domenica 27 marzo 2011

On Euphemisms/2

(Foto Reinhard Krause/Reuters)

In a previous post I wrote about a book on euphemisms, Euphemania by Ralph Keyes, quoting from a review in The Boston Globe:

"... telling citizens that torture is 'abuse' and mercenaries are 'contractors' — or in Orwell’s words, that burning and bombing villages is 'pacification' — is a different sort of enterprise. These euphemisms — the top-down terminology invented and deployed to serve the interests of the coiners — are the ones that give 'euphemism' a bad name."

And now we have Ben Rhodes, Deputy National Security Adviser for the Obama administration, who calls the war on Libya "kinetic military action". A masterpiece. You can read more here.


sabato 26 marzo 2011

On Reviewing Translations (authoritative advice... still very far from reality)


From Words Without Borders, for the series On Reviewing Translations (the boldface is mine)

SOME THOUGHTS FOR REVIEWERS OF LITERARY TRANSLATIONS, by Susan Bernofsky, Jonathan Cohen, and Edith Grossman.

You ought to review a translation as you would any other book, but please keep in mind that every translation is written twice: first by its author, then by its translator. The work in English represents a confluence of sensibilities, a merging of two creative powers.
For this reason, we think it crucial that you integrate acknowledgement of the translator’s accomplishments into your appraisal of a book with something more than a passing comment like “ably translated.” We know it is difficult to discuss and evaluate translations, and would like to suggest some points we think you should address when you review them.
Always include the translator’s name in your initial mention of the book and in any bibliographic sidebar.
If the translation stands out because of its elegance, panache, or daring word choices, by all means say so. If it drags and stumbles, this too is worthy of note, particularly if your conclusions are backed up by examples.
• If the translator has included a note describing his or her approach to the translation, it is useful to summarize the principles mentioned in the statement and to indicate whether the translator’s aims have been achieved.
• When previous translations of a work exist, compare parallel passages so you can indicate the contributions made by the new one.
• If the work of the original author is celebrated for particular literary qualities, it is valuable for the reader to know whether they appear in the translation.
• Most interesting of all for you to consider is this: does the translated work contribute to the literary life of the English language, to our speech, art, and sensibility? In other words, regardless of whether the work is poetry or prose, does the translation expand the boundaries of literary practice in English, introducing new narrative techniques, poetic forms, or modes of telling a story?
Here are two examples of reviews we think are particularly successful at integrating a discussion of the translation into an evaluation of the book under review: Michael Dirda’s review of The Tin Drum by Günter Grass, translated from the German by Breon Mitchell (here); and James Woods’ review of War and Peace by Leo Tolstoy, translated from the Russian by Richard Pevear and Larissa Volokhonsky (here).
Reviewers play an important role in guiding readers in their appreciation of literary works. The double authorship of translations presents both a challenge for reviewers evaluating them and an added dimension for readers to enjoy. The writing of the translator—like the performance of an actor or a musician—deserves to be recognized for its essential artistry.



venerdì 25 marzo 2011

L'ultima sul cibo e poi basta

Insomma, sarà che il soggiorno forzato comincia a innervosirmi, sarà che sono una nazionalista culinaria, però mi sono proprio stufata degli americani che credono di conoscere il cibo italiano meglio degli italiani. Ieri ho letto un articolo del NYT sul libro "Italian, My Way" (il titolo è già tutto un programma) di Jonathan Waxman, proprietario e cuoco del ristorante Barbuto, a New York. L'articolo è costellato di perle tipo queste:
-  "Then he heard the siren call of spaghetti." ["Poi udì il canto di sirena degli spaghetti"]
-  "His friend Tom Colicchio notes in the foreword to the book that in the way Mr. Waxman handled ingredients, 'Jonathan has always been, without talking about it and maybe without realizing it himself, an Italian chef.'" ["Il suo amico Tom Colicchio osserva nell'introduzione al libro che, nel suo modo di usare gli ingredienti, 'Jonathan è sempre stato, senza parlarne e forse senza neppure rendersene conto, uno chef italiano'"]
-  "'It was in my blood,' Mr. Waxman said. 'This was the food I was comfortable with, especially the Italian food of Venice and Liguria.'" ["'Ce l'avevo nel sangue', disse Mr Waxman (il cui cognome tradisce evidenti origini italiane, aggiungo io). Quello era il cibo con cui mi sentivo a mio agio, soprattutto la cucina italiana di Venezia e della Liguria'"]
-  His refreshingly offhand, often irreverent voice is certainly there. Here’s how he introduces his recipe for gnocchi with spring vegetables and basil: 'I’ve never liked the renditions of gnocchi that I’ve eaten in Italy and America. They were always gummy, covered with béchamel or another yucky sauce.'" ["La sua è una voce gradevolmente alla buona, spesso irriverente. Ecco come presenta la sua ricetta degli gnocchi al basilico e verdure di primavera: 'Gli gnocchi che ho assaggiato in Italia e in America non mi sono mai piaciuti. Erano sempre gommosi, coperti di besciamella o di qualche altra salsa disgustosa.'"  Besciamella? Salsa disgustosa? Ma si può sapere dove ha mangiato gli gnocchi in Italia, il signor Waxman?]
-  E infine ecco la sua magistrale ricetta per gli gnocchi, tanto più buoni di quelli italiani disgustosamente coperti di besciamella:
"As for those gnocchi, the recipe was a happy accident. Justin Smiley, one of his chefs, froze a batch of gnocchi. But Mr. Waxman needed some right away, so he threw the frozen gnocchi into a pan with butter and oil, browned them and tossed them with vegetables. Bingo!" ["Quanto agli gnocchi, la ricetta è nata per un caso fortunato. Justin Smiley, uno dei suoi chef, aveva surgelato un vassoio di gnocchi. Ma a Mr Waxman servivano subito, così buttò gli gnocchi surgelati in padella con burro e olio, rosolandoli e mescolandoli con le verdure. Bingo!"]
Bingo?!?

giovedì 24 marzo 2011

Un piccolo aneddoto sulla traduzione di Freedom

A pagina 122 di Freedom, Ray, il padre di Patty, fa una delle sue solite battute volgari e imbarazzanti, che in inglese suona così: «Nor-fock-a-Virginia!» E la pronuncia “con un grottesco accento italiano”.
Nello scambio di corrispondenza con la traduttrice tedesca (la corrispondenza con ciascun traduttore viene inoltrata man mano a tutti i traduttori nelle altre lingue, che così possono confrontare i dubbi ed evitare di ripetere due volte la stessa domanda), Franzen spiega così la frase: “battuta su un italiano che non scopa con le vergini [fock è una parodia della pronuncia italoamericana della parola fuck, “scopare”, N.d.T.]. La battuta fa riferimento alla città di Norfolk, in Virgina. Qualunque frase che funzioni in tedesco, che sia volgare e si riferisca all’Italia o agli italiani va bene.”
Ora, probabilmente in tedesco non è stato troppo difficile trovare una frase che corrispondesse a tutti i requisiti (volgare, breve, immediatamente identificabile e plausibile come una presa in giro degli italiani pronunciata da un americano, e perdipiù in una specie di parodia dell’italiano), ma in italiano era un’impresa davvero ardua. Ci ho pensato per molto tempo, ho chiesto svariati pareri, ho provato tutte le variazioni sul tema di “cannoli”, “salami”, “macaroni”, “kiss me I’m Italian/baciami sono italiano/baciamo le mani/baciamo il cannolo/holy cannoli”, “stallone italiano”, “bella di mamma”, “tu si’ nu babbà”, “that’s ammore”, e via di questo passo, ma la soluzione tardava ad arrivare.
Finché, pensando e ripensando, ho deciso di orientarmi su qualcosa che avesse a che fare con il cibo, perché il lessico alimentare italiano è la cosa che gli americani conoscono meglio (e storpiano di più). Così ho cominciato a chiedere ad amici americani di dirmi tutte le parole italiane legate al cibo che venivano loro in mente. E a un certo punto ho sentito la parola “focaccia”, che in bocca a un americano suona più o meno come “fuckaccia”.  
Eccola lì, la mia battuta: Fuck-accia!
Una battuta sciocca e volgare che aveva il vantaggio di suonare italiana e di contenere nello stesso tempo una parola inglese, fuck, sufficientemente riconoscibile da un lettore italiano (oltre a essere la stessa della battuta originale). L’ho poi sottoposta al giudizio di Franzen, il quale l’ha trovata perfetta per il personaggio di Ray. E così adesso il lettore italiano potrà leggere, in Libertà, la seguente battuta:
- Fuck-accia! - esclamò Ray, con un grottesco accento italiano.

mercoledì 23 marzo 2011

Usanze a confronto: a tavola

Quando abbiamo ospiti a cena preparo spesso gli spaghetti alla carbonara, una ricetta che riscuote sempre un grande successo. Tutti sanno che gli spaghetti alla carbonara vanno mangiati appena serviti, per evitare che l'uovo si raffreddi e si rapprenda, trasformando la magnifica cremosità ottenuta con il sapiente equilibrio di tuorli e albumi in un unico blocco gelido e indigeribile. Si potrà dunque immaginare la mia frustrazione quando, dopo aver servito in tavola la mia bella ciotolona di carbonara con la raccomandazione "eat eat!" (che alcuni prontamente mettono in burla rispondendo "mangia mangia!" con irritante accento italoamericano), rimango a guardare impotente gli ospiti che continuano la loro conversazione come se niente fosse, mentre il mio capolavoro culinario si trasforma inesorabilmente in una specie di pastone per conigli. Che viene poi degustato, con tanto di "yum yum" e complimenti alla cuoca, circa mezz'ora dopo il suo arrivo in tavola. 
Dopo aver ascoltato più di una volta le mie rimostranze post-cena, mio marito mi ha spiegato che si tratta semplicemente di una questione di cortesia: qui si considera maleducato interrompere la conversazione conviviale per tuffarsi a peso morto sul cibo, come invece succede in Italia, dove la buona educazione dei commensali si misura dall'apprezzamento del lavoro del cuoco o della cuoca; apprezzamento che si dimostra interrompendo qualunque cosa si stia facendo e buttandosi sul piatto come lupi famelici. Io naturalmente, confermando tutti i luoghi comuni dell'italiana all'estero, ho obiettato che una simile usanza può esistere solo in un paese dove si mangia male, perché tanto la conversazione si può benissimo riprendere anche a stomaco pieno, mentre un piatto di spaghetti alla carbonara rovinato è una tragedia irreparabile.
A questo punto, probabilmente per farmi vergognare della mia rozzezza, mio marito mi ha raccontato che durante le sue prime cene in Italia si ritrovava sempre con il bicchiere vuoto, e restava a guardare interdetto mentre tutti si versavano allegramente il vino nel bicchiere senza mai degnarsi di versarlo anche a lui. Alla mia prevedibile battuta "e perché non allungavi la manina?", lui ha risposto che per gli americani (be', sì, anche per gli italiani, solo che la regola non è così rigida... oppure sono io che sono davvero rozza?) è sempre buona educazione aspettare che siano il padrone o la padrona di casa a versare il vino agli ospiti, i quali non si sognerebbero mai di versarselo da soli. Questa rivelazione, per quanto da un lato abbia ottenuto l'effetto di farmi sentire in colpa per le mie maniere rustiche, dall'altro però ha contribuito a rafforzare il mio inestirpabile pregiudizio da emigrante italiana. È più forte di me: faccio fatica a capire un paese dove si aspetta che finisca la conversazione prima di mangiare e che qualcuno ti versi il vino prima di bere.

martedì 22 marzo 2011

Annie Proulx: Ho sempre amato questo posto

 Un altro libro che ho tradotto con grande piacere è Ho sempre amato questo posto (Fine Just the Way It Is), della grande Annie Proulx, autrice nota in Italia soprattutto per il racconto Brokeback Mountain (contenuto nella raccolta Close Range: Wyoming Stories, pubblicata in Italia nel 1999 con la traduzione di Fenisia Giannini e Mariapaola Dettore) da cui è stato tratto il famoso film di Ang Lee. 
Si narra che dopo aver raccontato le avventure dei due cowboy gay, Annie non sia più stata tanto ben vista nel bar dove andava a raccogliere storie, un locale frequentato appunto da cowboy vicino al suo ranch nel Wyoming.
Annie ha vinto anche il National Book Award (nel 1993) e il Pulitzer (nel 1994) con il bellissimo The Shipping News (pubblicato in Italia nel 1996 con il titolo Avviso ai naviganti e la traduzione di Edmonda Bruscella).

Ecco cosa scrive Antonio Monda su Repubblica, parlando di Ho sempre amato questo posto: "(...) Proulx ci consegna delle storie segnate da passioni grandi e infelici, e da un destino ineluttabile che sembra il contraltare della severità di una natura eterna, silenziosa e implacabile (...) Ron Carlson sul New York Times ha scritto che la Proulx, ormai settantatreenne, 'scrive come un diavolo', e l'itinerario drammatico dei personaggi, così come l'evoluzione delle storie, sembra che sottintendano un invito a condividere un senso tragico della vita, nel quale anche 'l' amore non porta nulla di buono' e persino 'morire' può essere 'noioso'. Questo pessimismo cosmico (...) viene accentuato dalla presenza imprescindibile di una violenza efferata, nei quali anche gli oggetti inanimati 'bramano il sangue'. I racconti (...) celebrano a modo loro i grandi spazi e le vite solitarie della gente del Wyoming." 

Pubblico qui l'inizio del racconto Un padre di famiglia, il primo della raccolta Ho sempre amato questo posto, da me tradotta per Mondadori nel 2009.

"La Mellowhorn Home era un edificio di tronchi a un piano e a pianta irregolare, arredato in stile western: mobili rivestiti di stoffa a motivi geometrici 'indiani', paralumi con frange di pelle scamosciata. Alle pareti erano appese le teste di cervo mulo del signor Mellowhorn e una sega trasversale a doppio manico.
Era il periodo dell’anno in cui Berenice Pann avvertiva l’ingresso della terra nell’oscurità, non un buon periodo, pensava, per cominciare un lavoro, soprattutto se deprimente come accudire anziane vedove di allevatori. Ma aveva preso quello che aveva trovato. Non c’erano molti uomini nella casa di riposo Mellowhorn, e quei pochi erano così assediati dalle donne che Berenice li compativa. Aveva sempre creduto che la pulsione sessuale si affievolisse in tarda età, ma quelle megere si contendevano i favori di vecchi paralitici dalle grosse braccia tremolanti. Gli uomini potevano scegliere tra un vasto assortimento di vestaglie informi e scheletri a fiori.
I tre cani dei Mellowhorn, defunti e impagliati, montavano la guardia in punti strategici: accanto alla porta d’ingresso, alla base delle scale e di fianco al rustico mobile bar ricavato da vecchi pali di staccionata. Tre targhette pirografate conservavano i loro nomi: Joker, Bugs e Henry. Se non altro, pensò Berenice accarezzando la testa di Henry, da lì si godeva di una bella vista sulle montagne circostanti. Aveva piovuto tutto il giorno, e adesso i ciuffi d’erba spuntavano dalle tenebre sempre più fitte come ciocche di capelli ossigenati. Lungo un vecchio canale d’irrigazione i salici formavano una linea frastagliata color rosso cupo, e il laghetto artificiale ai piedi della collina era piatto come una lastra di zinco. Berenice si avvicinò a un’altra finestra per vedere la perturbazione in arrivo. A nord-ovest un gelido spicchio di cielo lattiginoso spingeva avanti la pioggia. Un vecchio sedeva davanti alla finestra della sala comune a contemplare l’autunno grigio. Berenice conosceva il suo nome, conosceva il nome di tutti: Ray Forkenbrock.
«Le porto qualcosa, signor Forkenbrock?» Ci teneva a chiamare i residenti con l’appellativo adeguato, a differenza degli altri membri del personale, prodighi di nomi propri come se lì dentro fossero tutti amici di vecchia data. Deb Slaver si prendeva fin troppa confidenza, e inframmezzava i vari 'Sammy', 'Rita' e 'Delia' con una sfilza di 'tesoro', 'cara' e 'bellezza'.
«Sì» disse il signor Forkenbrock. Parlava con lunghe pause tra una frase e l’altra, un lento succedersi di parole che facevano venir voglia di suggerirgli il resto della frase.
«Portami via di qui» disse.
«Portami un cavallo» disse.
«Portami indietro di settant’anni» disse.
«Questo non posso farlo, però posso portarle una bella tazza di tè. E fra dieci minuti comincia l’Ora Sociale» disse Berenice.
Non riuscì a guardarlo negli occhi. Aveva una presenza notevole, malgrado la faccia ordinaria, con la bocca sdentata e il collo scarno. Erano gli occhi. Li aveva molto grandi, spalancati e di un azzurro chiarissimo, come un blocco di ghiaccio rotto con il punteruolo: un celeste pallido con raggi cristallini. In fotografia sembravano bianchi come gli occhi delle statue romane, e solo i puntini neri delle pupille li salvavano dallo sguardo cieco delle statue. Quando la guardava con quegli strani occhi bianchi, Berenice non capiva più niente di quello che le diceva. Il signor Forkenbrock non le piaceva, malgrado fingesse di trovarlo simpatico. Le donne dovevano fingere di apprezzare gli uomini, di avere i loro stessi interessi. Sua sorella aveva sposato un uomo appassionato di pietre, e adesso le toccava accompagnarlo in giro per deserti e montagne."

domenica 20 marzo 2011

Beautiful Artists/6: Julia von Leliwa, fashion designer

Photo: Karina-Sirkku Kurz
When I heard Julia speaking about her work, I was fascinated by the great creativity, curiosity and also humor involved in her creations.
To quote Blandine Chambost: "Julia von Leliwa considers fashion design as a constantly evolving language which involves ever-renewed forms of creative thinking. It is an intellectual and technical journey consisting in, as she puts it, 'taming material', which one is to use 'in a good/new way'".

Photo: Cosima Hanebeck 
Before she graduated at Hochschule für Künste in Bremen, in 2008, Julia took various internships in fashion and costume design, and also one in a shoe company in Istanbul, where in 2007, inspired by historical photographs of the Turkish military, she produced a shoe collection called Souvenirs d´Istanbul. Here's what she writes: "The acrobatic formations of the soldiers often symbolized star and half-moon shapes and were shown at military parades. For the collection I made 9 shoe designs, which I produced in different leather types and colour combinations."
Here's Blandine Chambost again: "Julia’s personal work draws inspiration from the making processes which she likes to observe in factories. From Istanbul to Paris, her inquisitive mind has led her to explore different environments in which she happily immersed herself, familiarising with new materials and techniques in the process. Through direct observation, conversations with craftsmen, on-site photography and visual research on the web, Julia keeps accumulating impressions and visual references which feed into her work."

After graduating, Julia trained under the supervision of various artisans and in the fashion industry (Viktor & Rolf in Amsterdam, Balenciaga in Paris), and she's currently working as a costume design collaborator for the show “Life And Death Of Marina Abramovic”, created by Robert Wilson and Marina Abramovic.

Die Jagd. Photo: Karina-Sirkku Kurz, Julia von Leliwa
Browsing through her website, you'll find a collection of shoes inspired by car design, a collection of clothes inspired by the body building scene (On Season: "How precisely and accurately bodybuilders deal with their body is shown by one athlete’s food diary. For ten years he documented every single gram he’d eaten right down to an exact date and time.I took an extract of that diary to use as a print for one ensemble. A jacket’s cut equates to the body measurements of the diary’s author as an attempt to interpret the shape and substance of his body measurements."); another, Die Jagd, by "Diana, the goddess of the moon and fertility, protectress of women and girls". You will also find many other fascinating things, like an elaborate scarf that she made out of a blanket found in her parents' attic.

 

You can see more beautiful pictures and read more about the work on Julia's website: http://www.juliavonleliwa.de/



sabato 19 marzo 2011

Beautiful Houses/1



In this new series I'll publish pictures of gorgeous San Francisco houses. I thought it would be nice to start with the Home of San Francisco Architectural Heritage.

The Haas-Lilienthal House 
Queen Anne style (1880's-1890's) with some Stick style details (1880's)

The Haas family are descendants of Levi Strauss and heirs of his clothing fortune


 

A great show: The Schick Machine

The stage before the show
The stage after the show
Tonight we've been to the Z Space to see Schick Machine, a show created by The Paul Dresher Ensemble (Paul Dresher, composer, instrument inventor and builder, artistic director; Steven Schick, virtuoso percussionist/solo performer; Rinde Eckert, director/writer, Matt Heckert, mechanical sound artist; Daniel Schmidt, instrument inventor and builder) where the amazing percussionist Steven Schick plays large, invented instruments, noise-making sculptures and everyday objects turned into musical instruments. I loved how the weird and fascinating objects scattered onstage became alive in the hands of Schick (I found the beginning particularly striking, with a big steel ring that spins and spins, looking completely alive: you can see it well in the video below), and turn out to be able to make real, beautiful music. I also loved how at the end of the show the audience was invited onstage to play the instruments themselves. 


venerdì 18 marzo 2011

La traduttrice felice/3

 Dall'articolo di Irene Bignardi, "Godetevi il nuovo Franzen, un bel romanzo popolare", uscito su Repubblica il 17 marzo 2011 a pag. 62:

"Libertà, anzi, come tutti ormai conoscono il librone di Jonathan Franzen, Freedom, uscito in Italia dopo sette mesi di dibattito e di successo americano (Einaudi, pagg. 622, euro 22, bella traduzione di Silvia Pareschi), è un grande romanzo". 

La traduttrice felice coglie a questo punto l'occasione per ringraziare Grazia Giua, Federica Aceto e Walter Bergero, la squadra dell'Einaudi che ha lavorato con lei alla realizzazione di Libertà.

giovedì 17 marzo 2011

Japan's libraries after the earthquake



More photos of libraries here
"In many of these photos, we can easily envision someone coming along to set things right. These are images of hope, as much as of disaster, and they speak to the idea that the things most fundamental to a culture—in this case, its codified knowledge—have not been lost."

International Color Idioms and Red Togas

Alan Kennedy's Color/Language Project - Color Idioms in Different Languages has an interesting essay, Linguistic Facts About Color, where we learn, for example, that "Latin originally lacked a generic color word for 'gray' and 'brown' and had to borrow its words from Germanic language sources; Classical Greek is said to not have had different names for blue and black; Biblical Hebrew had no word for blue; Hindi has no standard word for the color 'gray', however, lists for child or foreigner Hindi language learning include 'saffron' [केसर] as a basic color"; and so on.
The paragraphs about color and culture are also very interesting: "(...) colors are used in very different ways in different color idioms across languages. Let's just take green as an example. In English alone, 'he is green' can mean, depending on the context: 1. He is inexperienced 2. He is envious 3. He is environmentally aware. However, green has other associations in other languages such as fear (French), anger (Thai, Greek, Italian), boredom (Russian) off-color sexual content (Spanish), nausea (Mandarin Chinese), harassment (Turkish) and youth (Swahili)."
There is also a spreadsheet, where you can find a set of Color Idioms in Different Languages. There are mistakes, true, but Kennedy is asking readers to help him fix them, and the project is very interesting anyway. The Italian part is more or less okay, except for the weird expression "rendere l'occasione bianco" (translated as "to spoil it") and for the strangely Berlusconian "una toga rossa" ("a red toga") for "magistrate" (for those who don't know it, "toghe rosse" is how Berlusconi calls the Italian magistrates, implying that they are all communists and therefore biased against him).

martedì 15 marzo 2011

The opening sentence of The Pale King


Exclusive from The Millions: the first lines of David Foster Wallace’s The Pale King.

"Past the flannel plains and blacktop graphs and skylines of canted rust, and past the tobacco-​brown river overhung with weeping trees and coins of sunlight through them on the water downriver, to the place beyond the windbreak, where untilled fields simmer shrilly in the a.m. heat: shattercane, lamb’s‑quarter, cutgrass, sawbrier, nutgrass, jimsonweed, wild mint, dandelion, foxtail, muscadine, spinecabbage, goldenrod, creeping charlie, butter-​print, nightshade, ragweed, wild oat, vetch, butcher grass, invaginate volunteer beans, all heads gently nodding in a morning breeze like a mother’s soft hand on your cheek."


L'Istituto Italiano di Cultura: un'altra vittima dei tagli?

Leggo con orrore sul blog "Estremo Occidente" di Federico Rampini: 
"(...) Domenica 6 marzo la Repubblica aveva rivelato la vicenda dell’addio alla Silicon Valley: la scelta del governo italiano di 'sparire' dalla culla dell’hi-tech californiana, eliminando l’unico addetto scientifico di tutta l’area (a fronte dei quattro attaché francesi, due inglesi, 13 svizzeri, quattro olandesi). Ora emerge un altro capitolo di questo smantellamento della presenza istituzionale all’estero. Lo stesso consolato italiano di San Francisco, già privato dell’unico addetto scientifico, è condannato a un’altra 'amputazione'. L’istituto culturale italiano di San Francisco – la città di Francis Ford Coppola e di Lawrence Ferlinghetti, che ha nella sua sfera due centri universitari d’eccellenza mondiale come Berkeley e Stanford – è stato messo da Roma su una lista di candidati alla chiusura. In subordine, se non chiuso verrà declassato a 'sezione' di un’altra sede, probabilmente quella di Los Angeles." 
Il resto dell'articolo qui.

I pappagalli di Telegraph Hill

Quanti pappagalli ci sono sul melo?*
La mia passione per i volatili, nata e cresciuta traducendo Franzen, è stata ulteriormente simolata da un gruppetto di rumorosi pappagalli che vengono  spesso a posarsi sopra un melo davanti alla mia finestra, mimetizzandosi perfettamente tra il verde delle foglie e il rosso dei frutti.
Sono i pappagalli selvatici di Telegraph Hill, diventati un'icona della città dopo la pubblicazione del libro di Mark Bittner, The Wild Parrots of Telegraph Hill, e l'uscita del documentario dallo stesso titolo nel 2005. Bittner all'epoca era un musicista disoccupato che viveva in una casetta presa in prestito a Telegraph Hill. Il libro e il documentario narrano la storia della sua amicizia con uno stormo di pappagalli selvatici (conuri testa rossa e conuri testa blu, per la precisione). Si tratta di un gruppo di volatili liberati o fuggiti dalle gabbie negli anni '90, che hanno trovato qui in città una nicchia ecologica perfetta per la loro sopravvivenza. Telegraph Hill, che si trova nella parte nord-orientale della città, è una zona piena di splendidi giardini che fra strade e stradine scendono lungo la collina verso l'oceano, fornendo ai pappagalli cibo e rifugi a volontà. 
Dopo l'uscita del documentario la fama dei pappagalli aumentò a dismisura, e alcuni conservazionisti cominciarono a chiedere che lo stormo venisse allontanato, in quanto si trattava di una specie esotica potenzialmente dannosa per le specie autoctone. Molti abitanti di San Francisco però si opposero, sostenendo che ormai i pappagalli erano parte integrante della cultura e della storia cittadina. Alla fine prevalsero questi ultimi. Dal 2007 è in vigore il divieto di dar da mangiare ai pappagalli; si teme infatti che possano venire catturati, e anche che perdano la loro indipendenza (gli animali selvatici che vengono nutriti troppo dall'uomo possono diventare aggressivi). Molti si sono opposti al divieto, ma a me non dispiace affatto, perché significa che continuerò a vederli planare, numerosi e schiamazzanti, sul melo davanti alla mia finestra.

* I pappagalli sul melo sono una ventina, vi sfido a trovarli tutti!

In praise of translators

Nina Sankovitch is a blogger and author, known for her project  365 Books - Reading and reviewing one book a day for one year ("From October 28, 2008 to October 28, 2009, I read one book a day and wrote about each book I read here on my site. I wrote about what I felt while reading the book, what I responded to, and what I gained. I also offered some assessment of the book but my reviews are not typical reviews."), has written a beautiful post, Found in Translation: Honoring Translations - and Translators, where she thanks translators "for clearing the way for me to explore new places populated by foreigners speaking in unknown tongues;  by making their language clear and their places known, you’ve allowed me the pleasures of escape and discovery, but even more, you’ve given me a greater understanding of our common and shared humanity. With borders broken down and empathy ignited, the potential for global unity grows. Translators work to make anything possible. I thank you for all the possibilities."
You can read the entire post here.

domenica 13 marzo 2011

La traduttrice felice/2


Nell'articolo di Gian Arturo Ferrari "Una prigione intima che parla di noi. Come in Tolstoj", pubblicato sul Venerdì di Repubblica dell'11 marzo, a pag. 35 si legge:
"Ma quel che c'è in lui di inarrivabile e unico è l'ampiezza della tastiera, la capacità di aderire in ogni piega a una realtà che anche il remoto lettore italiano (coadiuvato da una traduzione, di Silvia Pareschi, commovente nella sua bellezza), riconosce immediatamente come propria."

Cheryl Tan, A Tiger In The Kitchen

Cheryl Lu-Lien Tan is a smart woman with a big heart (and a big appetite). Last Friday I went to hear her reading from her new book, A Tiger In The Kitchen, a food memoir about discovering her Singaporean family by learning to cook with them.


Cheryl signing my copy of the book
Born and raised in Singapore ("the most food-obsessed city in the world"), Cheryl left home and family at eighteen to go to study journalism in the U.S. She became a successful fashion writer in New York, but at a certain point in her life she felt the Singaporean dishes that defined her childhood beginning to call her back. And back she went, in a quest to recreate the dishes of her native Singapore by cooking with her family. She finally learnt the secrets of her grandmothers' and aunties' kitchens, who, surprised and amused that she wanted to learn something so normal for them, ended up teaching her not only their cherished recipes, but also long-buried and fascinating stories of past generations.

Cheryl has also a great food blog, A Tiger In The Kitchen, with posts like this that will make you instantly hungry while also teaching you that some place in New York serves bull’s penis soup.

sabato 12 marzo 2011

L'eleganza delle copertine: Libertà

All'Einaudi sono proprio bravi a fare le copertine (in generale le copertine italiane mi piacciono di più di quelle inglesi/americane, e presto pubblicherò un post per dimostrarlo).

Ecco i tre passaggi della copertina di Libertà (rispettivamente: americana, provvisoria italiana e definitiva italiana)*




E queste, tanto per fare un paragone, sono rispettivamente la copertina tedesca (tremenda) e quella inglese (un po' meglio, ma insomma).


Quella italiana vince a mani basse, direi!

* Aggiornamento al 13/3: la copertina italiana n.2, quella su sfondo bianco, compare solo sul comunicato stampa dell'Ansa. In tutti gli altri siti, compreso quello Einaudi, compare la n.1. Per ora non so niente di più (farei un salto in libreria a controllare, se non fosse per le nove ore di separazione...).

Real food?





  
 As opposed to...?

venerdì 11 marzo 2011

The Top Ten "Slang" Narratives

 From Flavorwire: "The authors below use dialect either as a majority of the novel or as an abrupt break from the narration; many of them are from the opposite side of the Atlantic, but some of them are from the South, or fake it, like Cormac McCarthy." The rest of the article here.

  • Finnegans Wake, by James Joyce
  • Pigeon English, by Stephen Kelman*
  • Wuthering Heights, by Emily Brontë
  • Clockwork Orange, by Anthony Burgess
  • As I Lay Dying, by William Faulkner
  • Suttree, by Cormac McCarthy
  • Their Eyes Were Watching God, by Zora Neale Hurston
  • Huckleberry Finn, by Mark Twain
  • How Late It Was, How Late, by James Kelman
  • Trainspotting, by Irvine Welsh
Ve ne vengono in mente altri?**

* Laura Prandino, who's translating Pigeon English into Italian together with Anna Rusconi, has told me she's having a lot of fun working on Kelman’s novel about an eleven-year-old Ghanaian transplanted in London. She's using precious resources as the Ghana Dictionary, and finding great expressions like "Broni waawu = Second Hand clothing (literal translation: The whiteman is dead)".

** Vedi sotto, nei Commenti. E anche questo interessante post dal bel blog Terminologia etc. di Licia Corbolante.