mercoledì 30 novembre 2011

Le foto di San Francisco

Ci ho preso gusto, con questi set di Flickr. Dopo quelli su Las Vegas e sui cieli lacustri, adesso ne ho creato uno con un po' delle foto che ho scattato in giro per San Francisco, molte già pubblicate sul blog e alcune, come questa con le bandiere, inedite.

Ecco il link. Fatemi sapere se vi piacciono!


martedì 29 novembre 2011

Is your washroom breeding Bolsheviks?

Seen and photographed in a house: an ad for Scot Tissue Towels that first appeared in the 1930's.

Employees lose respect for a company that fails to provide decent facilities for their comfort.
Try wiping your hands six days a week on harsh, cheap paper towels or awkward, unsanitary roller towels — and maybe you, too, would grumble. 
Towel service is just one of those small, but important courtesies — such as proper air and lighting — that help build up the goodwill of your employees. 
That’s why you’ll find clothlike Scot-Tissue Towels in the washrooms of large, well-run organizations such as R.C.A. Victor Co., Inc., National Lead Co. and Campbell Soup Co.
ScotTissue Towels are made of “thirsty fiber”… an amazing cellulose product that drinks up moisture 12 times as fast as ordinary paper towels.They feel soft and pliant as a linen towel. Yet they’re so strong and tough in texture they won’t crumble or go to pieces… even when they’re wet. 
And they cost less, too — because one is enough to dry the hands — instead of three or four. 
Write for free trial carton. Scott Paper Company, Chester, Pennsylvania.

lunedì 28 novembre 2011

Un'altra ricetta di Nonna Papera: la Apple Pie




Per la ricetta della più americana delle torte (come recita il detto "as American as apple pie") ho fatto riferimento a uno dei libri di cucina più amati dagli americani: il famoso Joy of Cooking (di cui qui trovate il sito web).


Fortunatamente non devo più ripetere la lunga ricerca compiuta mesi fa per trovare la ricetta migliore per la pasta della torta. Ci vuole la pasta brisée, e la ricetta la trovate QUI. (QUI invece la ricetta per il ripieno della torta di ciliegie).


Ecco invece come si prepara il ripieno della torta di mele
  • 1 kg di mele. Il libro consiglia le Golden Delicious, perché mantengono la consistenza e non inzuppano l'impasto. Come alternativa le Gala o le Fuji. Sconsigliate le Granny Smith, perché cotte diventano molli. (Secondo me vanno benissimo anche le renette).
  • 100 gr. di zucchero
  • 1 cucchiaio di farina
  • 1 cucchiaino di succo di limone (facoltativo)
  • 1 cucchiaino di cannella in polvere
  • mezzo cucchiaino di sale

 1. Sbucciate le mele, tagliatele a spicchi e amalgamatele delicatamente con gli altri ingredienti. Le fette devono essere alte circa mezzo centimetro: se sono più sottili si sfaldano, se sono più spesse, la torta non rimarrà compatta una volta tagliata. Resistete alla tentazione di aggiungere altre spezie: un cucchiaino di cannella è più che sufficiente. Lasciate riposare per 15 minuti, mescolando ogni tanto.
2. Stendete poco più della metà della pasta fino a formare una sfoglia tonda, spessa circa mezzo cm, che adagerete, foderandola completamente, in una tortiera preventivamente imburrata e infarinata.
3. Riempite la tortiera con il ripieno, poi stendete la rimanente pasta formando un altro cerchio con cui coprirete la torta, sigillandone i bordi.
4. Praticate alcuni fori sulla parte superiore, che serviranno per fare uscire il vapore durante la cottura. Spargetevi sopra 2 cucchiaini di zucchero e 1/2 cucchiaino di cannella.
5. Mettete l’Apple Pie in forno preriscaldato a 200° per 20 minuti, dopodiché abbassate la temperatura a 180° per altri 20 minuti, e terminate la cottura per circa altri 20 minuti a 170°. Lasciatela raffreddare completamente per 3/4 ore, in modo che il ripieno si addensi.


Foto da qui, dove trovate anche un'altra ricetta 

domenica 27 novembre 2011

Lake skies

C'era un bel cielo, ieri sera. Uno di quei tramonti molto kitsch che abbiamo noi sul lago, rossi rossi, molto drammatici. L'ho fotografato, naturalmente. Una foto molto kitsch e drammatica. Poi l'ho messa nella cartella "Cieli lacustri" e mi sono accorta di averne parecchie altre, alcune kitsch e drammatiche, altre più delicate, con una luce più discreta, ma quasi tutte prese dalla mia finestra.
Allora le ho messe in un set su Flickr, che ho chiamato Lake skies. Se volete vederle, le trovate qui.

Questa è quella che ho scattato ieri sera.

sabato 26 novembre 2011

Quote of the day: Dorothy Parker

 

"If you want to know what God thinks of money, just look at the people he gave it to."

Dorothy Parker

venerdì 25 novembre 2011

Il cast di "The Corrections": pronti Alfred, Enid e Chip

Alfred
Enid
Dopo aver letto (non senza un pizzico di soddisfazione, visto che lo avevo detto anch'io, qui) su Entertainment Weekly che Franzen avrebbe tanto voluto Gene Hackman nel ruolo di Alfred Lambert e Cate Blanchett in quello di Denise ("If they told me Gene Hackman was going to do Alfred, I would be delighted. If they told me they had cast Cate Blanchett as Denise, I would be jumping up and down, even though officially I really don't care what they do with the movie", sono le sue precise parole), ho scoperto che un terzo attore è entrato ufficialmente nel cast della serie Tv tratta da Le correzioni.

Ecco chi c'è finora:

Chip
Alfred: Chris Cooper. Voto alla scelta: 8. Non sarà Gene Hackman, ma più lo guardo e più mi convince.

Enid: Dianne Wiest. Voto alla scelta: 6. Grande attrice. Forse un po' troppo bella e raffinata per fare Enid? Fosse stata viva, avrei votato per la grandissima Shelley Winters.

Chip (rullo di tamburi): Ewan McGregor. Voto alla scelta: 8. Bello e bravo, ma per nulla plastificato, potrà senz'altro risultare credibile nei panni di Chip "The Failure" Lambert.

giovedì 24 novembre 2011

Murakami candidato al Bad Sex Award 2011

Come ogni anno, la Literary Review ha svelato la lista dei candidati al suo "prestigioso" Bad Sex Award per le peggiori scene di sesso in letteratura. 

Fra i candidati di quest'anno ci sono Murakami Haruki con 1Q84 e Stephen King con 11.22.63.
(QUI trovate la lista completa dei dodici candidati.)

Il brano di 1Q84 che viene citato a giustificazione della nomination è molto breve. Eccolo:

"[Her breasts] seemed to be virtually uninfluenced by the force of gravity, the nipples turned beautifully upward, like a vine's new tendrils seeking sunlight." 

Il "Guardian" cita invece una scena un po' più lunga da King:

"She said, 'Don't make me wait, I've had enough of that,' and so I kissed the sweaty hollow of her temple and moved my hips forward ... She gasped, retreated a little, then raised her hips to meet me. 'Sadie? All right?'
'Ohmygodyes,' she said and I laughed. She opened her eyes and looked up at me with curiosity and hopefulness. 'Is it over, or is there more?'
'A little more,' I said. 'I don't know how much. I haven't been with a woman in a long time.'
It turned out there was quite a bit more … At the end she began to gasp. 'Oh dear, oh my dear, oh my dear dear God, oh sugar!'"

mercoledì 23 novembre 2011

Ancora su Murakami e le sue traduzioni


A sud del confine, a ovest del sole
Continuando le mie letture su Murakami e sulla traduzione dei suoi libri, mi sono imbattuta in questo ottimo articolo (consigliatomi da Licia), "The cult of Murakami", di Nicholas Blincoe, nel quale Kazuo Ishiguro, estimatore dichiarato di Murakami, afferma: "Haruki is one of the three or four most exciting and important writers working right now." E poi aggiunge: "Harder to explain just why." Ishiguro, parlando della fusione tra realtà e mito che è tipica di Murakami, dice che, per esempio, anche in un romanzo meno apertamente "fantastico" come A sud del confine, a ovest del sole, "the story blends images from Casablanca with the old Snow Woman legend, very well known to every Japanese person, but perhaps less obvious to Westerners". Poi aggiunge che questo mix accomuna l'autore a "the new Japanese animation, comics or 'Nintendo culture'", e cita lo scrittore Kobo Abe, che a sua volta "combined old Japanese folk tales and bizarre sci-fi".


Nel segno della pecora
Murakami è visto in Giappone come il più occidentale degli autori giapponesi, continua l'articolo, ma non tanto perché le sue opere contengono riferimenti al cinema e alla musica pop dell'Occidente. Come afferma ancora Ishiguro: "The lifestyles of Haruki's characters are probably much more seamlessly modern-Japanese than might appear to Westerners, who are much more conscious of the distinctions between the 'Western' features and the Japanese ones, because the latter spring out to us as unfamiliar and exotic." E aggiunge: "You have to remember that for a Japanese growing up in the post-war era, jazz, rock and Hollywood movies would seem as indigenous as the more traditional stuff. In fact… kabuki, tea ceremonies and the works of Kawabata would come over as the more exotic and alien."

After Dark
E allora da dove arriva quel senso di "occidentalità" che si percepisce nelle opere di Murakami? Dallo stile, prosegue Blincoe, che parla della passione dell'autore per il jazz ("I was listening to jazz for 10 hours a day for several years, so maybe I was deeply influenced by this kind of music – the rhythm, the improvisation, the sound, the style", afferma Murakami) e per la letteratura occidentale: "Moreover (...) since childhood – Murakami read nothing but Western fiction, especially American novels". 

Questa "occidentalità", prosegue l'articolo, non può essere apprezzata da chi legge i romanzi di Murakami in traduzione. Eppure, sostiene Blincoe, "I am convinced that it remains both the filter and the horizon of his oeuvre: we know it is there, even if we can neither see it, nor judge its extent. This seems clear on the websites, where translation is always the hottest topic of debate." E poi passa a confrontare due dei traduttori in inglese di Murakami, Birnbaum e Rubin (quello che consigliava, come ho raccontato qui, di non leggere libri tradotti): "The movement from Birnbaum, an enthusiast, to Rubin, an academic, could not be more marked. Birnbaum's style is immediate, often catchy and occasionally prickly, with a clear American inflection. (...) Some readers have found a loss of verve in the transition from Birnbaum to Rubin. Certainly, Rubin's style is drier. It seems the truth is (and I am indebted to Rubin's excellent book Haruki Murakami and the Music of Words for airing this topic in detail) that Murakami is new and fresh because his style is unadorned and uninflected."

Underground
L'articolo parla anche del Murakami traduttore, e di come il suo stile sia influenzato dagli autori che sceglie di tradurre: "[Murakami's] style might be the invisible or secret ingredient of his appeal in the West, and one can pick up its vibration in the authors that he chooses to translate. It would be natural to assume that Murakami turned to translation because of money problems. In fact, he was an established author when he produced his first (F. Scott Fitzgerald's My Lost City). This makes the list of writers he chooses to translate all the more significant: Murakami operates from a position of considerable power: he can translate who he wishes, and only if he wishes. His personal pantheon is dominated by Raymond Carver, but also includes John Irving, Truman Capote and Paul Theroux".

Kafka sulla spiaggia
E parlando della traduzione di The Catcher in the Rye fatta da Murakami, il giornalista scrive: "Murakami's version of this classic came out in Japan at the same time as Kafka on the Shore. According to Jay Rubin, the two novels dominated Japan's bookshops for months. The novels have other similarities. Like Holden Caulfield, the eponymous hero of Kafka is a 15-year-old boy. Holden is a child, but he can also be read as a shell-shocked veteran caught in arrested development – as Salinger himself appears to have been by the end of his European tour of duty. And so one can see another echo between Holden and Kafka Tamura: a child, yet also an arrested adult, a baby-boomer doomed to live under the shadow of the war generation."


Per finire, ho cercato online, nei forum dedicati a Murakami dai lettori italiani, un confronto tra le traduzioni di Antonietta Pastore e quelle di Giorgio Amitrano, e mi sembra che entrambi i traduttori siano amati dai lettori, chi per un motivo e chi per un altro. Voi avete qualche preferenza?

martedì 22 novembre 2011

Il meme del poliziotto

La foto del poliziotto che spruzza lo spray urticante in faccia ai dimostranti si è diffusa in un batter d'occhio per tutta la rete, trasformandosi, come scrive Wired, in un "fast-spreading internet meme".

Ed ecco che sul web sono cominciate a circolare una serie di immagini esilaranti, che vengono raccolte sulla pagina Tumblr Pepper Spraying Cop.

Eccone alcune (cliccateci sopra per ingrandire).







lunedì 21 novembre 2011

OWS: le due facce della polizia


Venerdì 18 novembre, Davis, (CA): poliziotti della UC Davis Campus Police spruzzano spray urticante in faccia agli studenti che rifiutano di spostarsi. QUI il video. (Un piccolo confronto culturale: il nome dell'agente è stato reso noto, con tanto di numero di telefono ed email e invito a mettersi in contatto con lui: cosa del tutto legittima, trattandosi di pubblico ufficiale. Le ultime notizie dicono che lui e un altro agente sono stati sospesi. Sarebbe possibile una cosa del genere, in Italia?)


Sabato 19 novembre, New York: Ray Davis, capitano della polizia di Philadelphia in pensione, arrestato dai suoi colleghi perché si era unito alla protesta di Occupy Wall Street, portando un cartello con la scritta "Polizia di New York, non siate i mercenari di Wall Street". (Durante un'intervista, parlando dello sgombero di Zuccotti Park, aveva dichiarato: "Si dovrebbe, per legge, usare la forza solo per proteggere la vita di qualcuno. Se non si deve proteggere la vita di quel qualcuno non c'è bisogno di usare la forza. La polizia, quindi, non dovrebbe usarla contro i manifestanti, ma dovrebbe negoziare, parlare con loro. Non avete niente da perdere, perché non lo fate?")

domenica 20 novembre 2011

Amitav Ghosh sul Teatro Valle Occupato

Amitav Ghosh è autore di splendidi libri come Il cromosoma Calcutta, Le linee d'ombra e i più recenti Mare di papaveri e Il fiume dell'oppio.

Come racconta Alessandra Muglia sul Corriere: "Amitav Ghosh risponde al telefono mentre si trova tra gli occupanti del Teatro Valle di Roma. Tra loro ha scelto di passare i primi momenti liberi della sua trasferta romana dopo incontri e presentazioni per il nuovo romanzo, Il fiume dell’oppio, in uscita da Neri Pozza. Lo scrittore indiano sembra incuriosito e sorpreso: 'Dopo i giovani manifestanti di Occupy Wall Street, ho visitato i movimenti di occupazione di otto città comprese Ottawa, San Francisco e Seattle, ma questo di Roma è molto diverso: più incentrato sulla democratizzazione della cultura che sui temi economici e sul capitalismo come gli altri', osserva. 'È difficile per questi movimenti riuscire ad avere un impatto diretto sul mondo nell’immediato, ma credo che possano incidere sul lungo periodo', valuta lui che nel suo nuovo romanzo, mix avvincente di storia e avventura, va alle origini del capitalismo occidentale: al commercio dell’oppio che ha visto indiani e inglesi concorrenti sui mercati cinesi d’inizio '800."

Amitav Ghosh ha pubblicato sul suo blog un bel reportage sul Teatro Valle Occupato, dal titolo A Roman Occupation.

Il reportage si conclude così: "In Rome one is reminded at every step of the many ways in which the past nourishes, nurtures and rejuvenates the present. This is why the value of the past cannot be measured in cash: because it is value itself, in the sense that it generates the values through which people evaluate the meaning of their own lives.
To turn to those who have preceded us on this earth is perhaps our first instinct in times of confusion and crisis. And it sometimes happens that our ancestors do speak back – and if we listen carefully we can even hear their whispers, amidst the silent bones of the things they have left for us.
That is the significance of ‘Occupy Teatro Valle’: it is trying to restore an appreciation of value to a world that seems to have forgotten what it is."

Vale la pena di leggerle l'intero articolo, perché è bello vedere questi avvenimenti raccontati da un occhio limpido e attento come quello di Ghosh.

Ghosh è anche uno di quei preziosi scrittori che riconoscono l'importanza del lavoro dei propri traduttori. Ecco cosa scrive di Anna Nadotti, la sua splendida traduttrice:
"She is a marvelous translator, one of those of whom it might be said, as Garcia Marquez said of Gregory Rabassa, that far from losing in translation the original gains something as it passes through their hands".

sabato 19 novembre 2011

Quote of the day: Groucho Marx




I find television very educating. Every time somebody turns on the set, I go into the other room and read a book.
Groucho Marx



venerdì 18 novembre 2011

La fuck-accia sul dizionario



La bella rubrica La parola al traduttore, che da qualche settimana arricchisce il sito dei Dizionari Zanichelli, ripubblica questa settimana il "breve aneddoto sulla traduzione di Freedom" che avevo pubblicato qui sul blog tempo fa.
Non perdetevi anche i due articoli precedenti, Carmen Giorgetti Cima sulla traduzione dallo svedese e Daniele Petruccioli su quella dal portoghese.

mercoledì 16 novembre 2011

Amy Hempel on writing fiction

"But journalism taught me how to write a sentence that would make someone want to read the next one. You are trained to get rid of anything nonessential. You go in, you start writing your article, assuming a person’s going to stop reading the minute you give them a reason. So the trick is: don’t give them one. Frontload and cut out everything extraneous. That’s why I like short stories. You’re always trying to keep the person interested. In fiction, you don’t need to have the facts up front, but you have to have something that will grab the reader right away. It can be your voice. Some writers feel that when they write, there are people out there who just can’t wait to hear everything they have to say. But I go in with the opposite attitude, the expectation that they’re just dying to get away from me."


(The whole interview is great. ALL the Paris Review interviews are great.)

Quarta e ultima chiacchierata alla Scuola Holden: Amy Hempel & Jonathon Keats

Domani alle 14.30 la Scuola Holden ospiterà la mia ultima chiacchierata sulla traduzione. Questa volta toccherà a Amy Hempel, di cui nel 2009 ho tradotto le Collected Stories (uscite con in Italia con il titolo Ragioni per vivere). Di Amy Hempel ho parlato QUI.


E per finire non poteva mancare una chiacchierata dal vivo con Jonathon Keats, autore de Il libro dell'ignoto nonché mio consorte


Sul libro di Jonathon, visto che le lodi da parte mia potrebbero sembrare, ehm, interessate, vi rimando a questo articolo di Benedetta Tobagi, a questa intervista di Giusi Meister, a questa recensione di Maria Sepa e ad altre recensioni che potete trovare qui

martedì 15 novembre 2011

La traduzione e la percezione di un mondo: vivere in un villaggio

In questi giorni sto traducendo un racconto ambientato in Cisgiordania, nel quale ricorre spesso l'espressione Arab village, e continuano a tornarmi in mente le parole dell'arabista Elisabetta Bartuli, la quale, in questo documentario, afferma:

“Io personalmente, quando traduco, penso che sto dando voce. E il più delle volte sto dando voce a chi normalmente non ce l’ha. [...] Se non si fa attenzione si fanno danni. E non parlo di danni letterari. Abbiamo rovinato un capolavoro: va be’, abbiamo rovinato un capolavoro. Ma non abbiamo rovinato solo un capolavoro: abbiamo rovinato la percezione di un mondo intero”.

Ed ecco cosa dice Elisabetta Bartuli sulla questione del "villaggio", qui:

"Con un vistoso calco dalla traduzione francese e inglese, è d'uso rendere il termine qarya (paese, agglomerato urbano, cittadina di piccole dimensioni...) con 'villaggio'. Ora, cosa intende il lettore italiano per villaggio, se non un insieme raffazzonato di tende o baracche senza alcuna organizzazione stabile? Riesce a comprendere che i 'villaggi' dell'Alto Atlante marocchino, ad esempio, sono nuclei urbani in senso compiuto e non provvisori stanziamenti di nomadi? Ancora: come può, il lettore italiano, visualizzarsi il disastro dell'esodo palestinese da 'villaggi' in cui, già negli anni Quaranta, centinaia e a volte migliaia di persone vivevano in strutture murarie che comprendevano, oltre alle case, luoghi di culto, uffici municipali, istituzioni scolastiche, posti atti alla socializzazione?"

Qui sotto potete vedere un esempio di quello che in inglese viene definito Arab village. In italiano lo definireste "villaggio"?

General view of the Arab village of Bethany (al-Azariyeh). Foto da qui, didascalia originale
 

lunedì 14 novembre 2011

Il traduttore che scambiò una corda per un cammello

È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio” (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25). 
Si tratta di semplicemente di un'iperbole, come siamo abituati a pensare, oppure di un errore di traduzione dovuto a un caso di polisemia

Secondo i sostenitori della teoria della "priorità aramaica", il Nuovo Testamento e/o le sue fonti furono originariamente scritti in aramaico, invece che nel greco koiné con il quale ci è pervenuto. Nell'ambito di questa teoria si è ipotizzato che alcune parole polisemiche aramaiche abbiano generato errori di traduzione.
La parola aramaica גמלא gamal può significare, infatti, sia “cammello” sia “corda”. Il presunto traduttore greco avrebbe quindi semplicemente scelto il senso sbagliato del termine, trasformando  l'iperbole moderata di una corda che si tenta invano di infilare nella cruna di un ago nell'iperbole estrema del cammello contorsionista che sicuramente ha impressionato molti bambini in età da catechismo.

Di contro, nella letteratura rabbinica antica sono presenti paragoni iperbolici simili (cito, con dovuta cautela, da Wikipedia):

"'Chi può far passare un elefante per la cruna di un ago?' (Talmud Babilonese, Baba Mezi'a 38b).
'Non mostrano una palma d'oro, nemmeno un elefante passante per la cruna di un ago' (Talmud Babilonese, Berakoth, 55b).
A loro volta i sostenitori della priorità aramaica notano che il Talmud fu redatto per iscritto solo in epoca tarda, verso l'inizio del III secolo d.C.: non è da escludere a priori che in tali 'loci' abbia recepito l'errata iperbole del Nuovo Testamento."

Si tratta di un'ipotesi molto controversa, per ovvi motivi che hanno a che fare con la religione più che con la teoria della traduzione, ma immaginiamo per un momento che sia vera. Forse questo proverbio non sarebbe così universalmente diffuso nella nostra cultura, se ci fosse stata la corda al posto del cammello. L'immagine sarebbe stata calzante e coerente, ma avrebbe davvero avuto altrettanto successo, se la sua stranezza non avesse tanto colpito l'immaginazione dei bambini in età da catechismo?

domenica 13 novembre 2011

In the mood for poetry: Alda Merini

Bambino, se trovi l’aquilone della tua fantasia
legalo con l’intelligenza del cuore.
Vedrai sorgere giardini incantati
e tua madre diventerà una pianta
che ti coprirà con le sue foglie.
Fa delle tue mani due bianche colombe
che portino la pace ovunque
e l’ordine delle cose.
Ma prima di imparare a scrivere
guardati nell’acqua del sentimento.

sabato 12 novembre 2011

Anna Giordano e il ponte sullo Stretto

Ho conosciuto Anna Giordano durante il mio viaggio con Jonathan Franzen, di cui ho parlato QUI.
Poche persone mi hanno colpito quanto Anna (e anche Franzen ne è rimasto affascinato: leggete come la descrive QUI). Instancabile, coraggiosa e tenace, è da anni l'anima della lotta contro il bracconaggio sullo stretto di Messina, che ha raggiunto risultati notevoli in primo luogo grazie a lei. Sarebbe bello se un giorno scrivesse un libro per raccontare la sua storia.

Anna è in prima linea nella lotta contro la costruzione del ponte sullo stretto di Messina, il cui progetto, mi assicura, non è stato affatto abbandonato. Probabilmente il ponte non vedrà mai la luce, ma nel frattempo, come si spiega qui:
"'Clausole di salvaguardia del contratto'. Con questo eufemismo Alberto Rubegni, amministratore delegato di Impregilo, ha fatto riferimento alla possibilità che lo Stato paghi la “grande opera” anche se il Ponte sullo Stretto non verrà realizzato. Ma cosa prevede l’accordo sottoscritto? A quanto ammonterebbe la penale? Guido Signorino, economista dell’Università di Messina, ci spiega: “Sarebbe il 10% valore del lavoro non eseguito, che si può calcolare in circa 400 milioni”. Impregilo potrebbe farsi riconoscere i costi sostenuti fino adesso, come quelli di progettazione. E gli utili non conseguiti. Il Ponte che non si fa, tra spese sostenute e penali, rischierebbe così di sfiorare il miliardo di euro. Tra quattrocento e cinquecento già spesi dal 1981 e altrettanti di penale. Ogni giorno l’iter va avanti: crescono i diritti delle aziende e diminuiscono quelli dello Stato."

Nel frattempo, senza badare alle disastrose alluvioni che in questi giorni hanno colpito anche Messina, si parla di cominciare comunque qualche scavo, trasferendo milioni di metri cubi di terra in aree di impluvio. Ciò significa, come spiega QUESTO articolo: 
"Pensare di 'tappare' aree di impluvio con centinaia di migliaia di metri cubi di materiali di scavo, in alcuni casi con milioni di mc, è semplicemente irresponsabile. I terreni nei quali si vorrebbe stoccare il materiale di scavo del progetto del Ponte – insistono gli ambientalisti – sono facili all'erosione, e le bombe d'acqua ormai arrivano con cadenza annuale, possono avvenire ovunque, sempre più frequenti, come le drammatiche cronache di questi ultimi tempi confermano. Piazzare tali quantitativi di terre in aree dove le acque dovrebbero poter scorrere senza trovare ostacoli di alcun genere, significa mettere a repentaglio la vita di migliaia di persone che si ritroverebbero con l'incubo di possibili colate fangose. E solo per capire di quali cifre si parli, per l'alluvione dell'1 ottobre 2009 si stima che vennero giù circa 80 mila metri cubi, e non erano mc 'poggiati' su un suolo diverso, ma substrato originario e quindi coeso e non già disgregato da movimentazione meccanica e allocato altrove come quello che si vorrebbe collocare nel progetto definitivo del Ponte".

mercoledì 9 novembre 2011

La mia terza chiacchierata alla Scuola Holden: Denis Johnson e Junot Díaz

Oggi con gli allievi della Scuola Holden di Torino parleremo di slang, del gergo dei soldati nel Vietnam di Albero di fumo e dello Spanglish del "ghetto-nerd" Oscar Wao.

Di Albero di fumo e Denis Johnson ho parlato QUI, QUI e QUI.

Di Junot Díaz e di La breve e favolosa vita di Oscar Wao ho parlato QUI. Per chi volesse leggere qualcos'altro su questo libro straordinario, QUI trovate la rassegna stampa di Oblique.

Buona lettura!

martedì 8 novembre 2011

Qualche spunto sulla traduzione dal giapponese

Dopo alcuni commenti a questo post e a questo (per i quali ringrazio, fra gli altri, Alice, Lola e Matteo), e anche naturalmente per via del gran parlare che si sta facendo del nuovo libro di Murakami da poco  uscito sul mercato americano, mi sono interessata sempre di più alla questione delle traduzioni dal giapponese, e di un autore come Murakami in particolare.
Ne sono uscite riflessioni scollegate, come appunti sparsi che vorrei raccogliere qui, sperando che suscitino qualche altra riflessione.

Forse la prima cosa a incuriosirmi è stata un'intervista rilasciata al New Yorker da uno dei traduttori di Murakami, Jay Rubin, che si concludeva con il consiglio, davvero paradossale da parte di un traduttore professionista, di evitare di leggere libri tradotti. In un'intervista successiva, Rubin, a mio parere per cercare di rimediare alla gaffe, afferma: “I’m not saying that people should stop reading translated works; that’d be bad for world culture. What they should do is learn more languages—especially Americans. We should learn what it’s like to live in another language.”

Da una chiacchierata con Mariko Nagai, scrittrice e traduttrice giapponese, sono emersi altri spunti. Mariko, che insegna scrittura creativa e letteratura giapponese alla Temple University di Tokyo, mi dimostra con un esempio quanto la lontananza della cultura giapponese da quella "occidentale" possa porre notevoli problemi al traduttore. Il romanzo Sasameyuki (細雪) di Junichiro Tanizaki (in italiano Neve sottile, traduzione di O. Ceretti Borsini) pone diversi problemi al traduttore (già a partire dal titolo. Ne parla anche Lawrence Venuti in Gli scandali della traduzione), ma uno forse meno noto è quello che riguarda i "movimenti intestinali" dei protagonisti. In un romanzo dove, secondo gli studenti americani di Mariko, in apparenza "non succede nulla", la descrizione di quanto accade, letteralmente, nelle viscere dei protagonisti assume un'importanza simbolica fondamentale per chi conosce a fondo la cultura e la letteratura giapponese, e sotto l'apparente "nulla" c'è in realtà un intero mondo di sentimenti e passioni.
Secondo Mariko, è proprio questa stratificazione, questa complessità che manca nelle opere di Murakami, che scrive, secondo molti giapponesi, "come un occidentale".
 
È forse questa la chiave per comprendere quello che emerge dal commento di Giappone Mon Amour al mio post di ieri: "Ogni volta che parlo con qualcuno (ovviamente giapponese) confermo la mia prima impressione. Murakami e' MOLTO meglio in traduzione che in lingua originale. Prosa piatta, personaggi stereotipati che parlano in un giapponese all'americana."
O forse c'entra anche quello che ho aggiunto nel mio commento successivo, ossia il processo di "nobilitazione" di cui parla Antoine Berman in La traduzione e la lettera o l'albergo nella lontananza? (E a proposito del post di ieri, non perdetevi il brano dell'articolo inviatomi da Paolo Merlini, giornalista della Nuova Sardegna).

La ricerca continua...

lunedì 7 novembre 2011

Il traduttore come rockstar

Sulla scia del successo americano (e non solo, ovviamente) del nuovo libro di Murakami, e delle controversie suscitate dalle dichiarazioni del suo traduttore Jay Rubin (che in questa intervista al New Yorker sconsiglia di leggere letteratura in traduzione. Ma di questo parlerò ancora), Salon.com ha pubblicato un articolo sulla traduzione - e sui traduttori. 
L'articolo, firmato da Kevin Canfield, comincia citando Gavin Bowd, il traduttore inglese di Michel Houellebecq, e il suo problema nel tradurre - in un capitolo in cui si parla di un personaggio che ha deciso di suicidarsi in una clinica per l'eutanasia - l'espressione ‘se faire des couilles en or’. “Literally," scrive Bowd, "they were going to turn their balls into gold.”
"(...) Herein lies the translator’s dilemma. Bowd’s mission is stay as loyal as possible to the original text. But in this case, a strict translation would be ridiculous. 'I translated: they were going to make a killing' in fees, Bowd added (...) 'In the context, I prefer that.'"

Secondo David Bellos, autore di Is That a Fish in Your Ear? Translation and the Meaning of Everything (di cui ho parlato QUI): "It’s true in America, but it’s even truer in Britain, that there is a kind of cloud of disapproval over translators and translations,(...) Reviews (...) of translated books — if they mention the translating at all, it’s to disparage it. Bit by bit over the years, I’ve come to realize that these are very effective devices for holding the foreign at bay. It’s a way of comforting yourself: ‘Oh well, I only read English, and I don’t really have to take these books from elsewhere terribly seriously because they are only translations.’”
L'articolo continua dicendo che: "(...) Bellos has a good case when he says that translators deserve better. 'A long novel — maybe you get $10,000, in dribs and drabs. A bit on signature, a bit when you deliver the manuscript, a bit when it’s published. How many of those have you got to do in a year to make that a living? More than is really conceivable to do well (...) You would have to translate at 90 miles an hour and not revise. Most literary translators don’t want to do that, even if they could. You can’t really live as a literary or book translator in the English-speaking world as a full-time job and also sleep.”

Interviene anche Lydia Davis (di cui ho parlato in una serie di post, QUI, QUI, QUI e QUI), parlando della sua traduzione di Madame Bovary, e del fatto che non legge mai tutto il libro prima di cominciare a tradurlo (e in questo io e lei ci assomigliamo), perché "she prefers an element of surprise." E: "There’s no drawback to this, because of course you’re going to do another draft and then another draft, so there’s plenty of time to go back over your work and change things in light of what you now know."
Mentre Philip Gabriel, che ha tradotto in inglese 1Q84 insieme a Jay Rubin, lavora in modo diverso: “I usually read the book straight through, then go back and translate a rough draft of about four pages per day until it’s all done, (...) I try to spend some time previewing the next day’s pages so I don’t get too caught up on particular passages.”

Non manca naturalmente il paragone fra il lavoro del traduttore e quello del musicista (metafora azzeccata anche se un po' trita) evocato da Tiina Nunnally, traduttrice dal danese e dallo svedese, che scrive:  “It requires a talent for transforming words from one language into another, and doing it so that it doesn’t become apparent that the reader is reading a translation. That’s the real trick, because Americans especially have a certain wariness about reading a translated work. I can’t tell you how many people have said: ‘Well, I’d pick it up, but I could see it was a translation so I didn’t really want to read it. I knew it would sound awkward.’ That’s our goal, to make sure that it doesn’t sound awkward.”

Imre Goldstein, traduttore dall'ungherese, paragona il libro tradotto a una produzione teatrale: "Potentially the most gratifying and elevating teamwork, a theatrical production, as everyone knows, requires the input of many collaborators. Often, reviewers write only about some, say, the director, the actors and the costume designer, leaving out others, such as the composer, the musicians, the lighting designer, fight choreographer and all the invisible but indispensable tech crew, without whom there would be no production. When, as a translator, I am not mentioned in a review, I console myself by assuming that the reviewer read the text as if it were the original."

E infine, tornando a Bellos, leggiamo che: “Japanese literary translators have much the same status as authors do in Britain and America. Many author-translators are household names, and there’s even a celebrity-gossip book about them: ‘Honyakuka Retsuden 101,’ or ‘The Lives of the Translators 101'. (...) They’re rock stars (...) Maybe it’ll fade away over the next century, maybe it’s just something of a fossil. Or maybe the Japanese have got it right, and we should treat all translators as rock stars. I wouldn’t mind.”

Quest'ultima parte alimenta la mia curiosità sulle traduzioni dal giapponese, di cui sto discutendo e sentendo parlare parecchio in questi giorni. Tornerò presto sull'argomento.

Nel frattempo, trovate l'intero articolo QUI.