giovedì 12 dicembre 2013

Happy birthday, Gracie

In ritardo, come al solito, gli auguri a una delle mie donne preferite. 
Una volta le parlai al telefono. Ero nel nord dello stato di New York, non lontano dal Vermont, dove lei viveva. Non ricordo dove trovai il suo numero. Probabilmente le avevo scritto e lei me lo aveva dato. Era il 2003, sono passati dieci anni. Volevo intervistarla, anche se non avevo la più pallida idea di cosa le avrei chiesto. Lei mi disse che mi avrebbe parlato di persona, se fossi andata da lei a Brboro (lo pronunciò così. Ci misi un bel po' a capire che aveva detto Brattleboro). Ero così emozionata che restare al telefono era una sofferenza, e mi affrettai a salutarla. Non riuscii mai ad andare a Brboro. Ma almeno ho sentito la sua voce.

È responsabilità del mondo permettere al poeta di essere poeta
È responsabilità del poeta essere donna
È responsabilità dei poeti mettersi agli angoli delle strade a distribuire e volantini scritti meravigliosamente e anche volantini che si fa fatica a guardare per la forza della loro retorica
È responsabilità del poeta essere pigro, perdere tempo e fare profezie
È responsabilità del poeta non pagare tasse di guerra
È responsabilità del poeta entrare e uscire da torri d’avorio e bilocali sulla e Avenue C, campi di grano saraceno e accampamenti militari
È responsabilità del poeta maschio essere donna
È responsabilità del poeta femmina essere donna
È responsabilità del poeta dire la verità al potente, come affermano i quaccheri
È responsabilità del poeta imparare la verità da chi non ha potere
È responsabilità del poeta ripetere sempre: non esiste libertà senza giustizia, vale a dire giustizia
economica e giustizia in amore

È responsabilità del poeta cantare inni e poemi sulla musica di ogni melodia originale e tradizionale
È responsabilità dei poeti ascoltare ogni diceria e diffonderla come i narratori diffondono la storia della vita
Non esiste libertà senza paura e senza audacia. Non esiste libertà a meno che terra e aria e acqua e sopravvivano e con loro sopravvivano i bambini
È responsabilità del poeta essere donna, non perdere d'occhio il mondo e gridare come fece Cassandra, ma per farsi ascoltare, questa volta.


Grace Paley (11 dicembre 1922 – 22 agosto 2007). Traduzione di Susanna Basso. 
L'originale QUI

mercoledì 11 dicembre 2013

Altolà Google bus

L'ennesimo articolo a livello nazionale sulla piaga dei "techies" che hanno invaso San Francisco è uscito sul "New York Times", dopo che un giornalista si è chiesto come mai la città più ricca ed elitaria d'America abbia una rete di trasporti pubblici che fa vomitare. "Una città senza infermieri, insegnanti, artisti, camerieri, conducenti di autobus, poliziotti, musicisti e scrittori e nonne è una monocoltura, sterile come una foresta dove si coltiva un'unica specie di alberi."
Una rete di trasporti già penosa di suo viene peggiorata dagli autobus privati che tutti i giorni trasportano i techies a Silicon Valley - i famosi "google bus" di cui parlavo anche QUI - i quali utilzzano abusivamente le fermate degli autobus pubblici, rallentandoli ulteriormente, senza pagare nulla alla città.
Adesso la gente che viene sfrattata per fare posto agli impiegati delle aziende tecnologiche si è davvero stufata, e sta cominciando a protestare. Che bello, spero che ce ne sarà ancora per quando tornerò.



domenica 8 dicembre 2013

Cronache della tiroide/3 (con Glenn)

(Continua da QUI)

Il medico di base mi mette un bollino verde e mi manda dritto filato all'ospedale di Varese. Lì la dottoressa mi dice che devono fare ulteriori accertamenti (sulla causa e sull'entità dell'ipertiroidismo), e mi dà appuntamento per il lunedì successivo. La cronologia dunque è questa: lunedì 4: pneumologo, (ospedale n.1); sabato 9: cardiologo; lunedì 11: nuove analisi e diagnosi, (ospedale n. 2); martedì 12: approdo all'ospedale di Varese (n.3), dove grazie al bollino verde mi danno appuntamento a lunedì 18 per gli ultimi accertamenti. Insomma, tanto tuonò che piovve. A furia di esaltare il sistema sanitario italiano rispetto a quello americano, mi è stata offerta l'occasione di provarlo di persona. La prova è stata superata. "Meno male che eri qui", è stato il coro unanime di amici e parenti. Se mi fosse successo oltreoceano, be'... non voglio neanche pensarci.
Lunedì 18 mi presento a Varese, di nuovo a digiuno e famelica, per le nuove analisi: sangue, ecografia, scintigrafia. La dottoressa mi dice che i risultati saranno pronti per venerdì, mi avviserà lei per telefono. Venerdì la chiamo per dirle che io magari sarei andata a Milano, se non era urgente, e sarei passata in ospedale lunedì. Nessun problema. Venerdì sera mi godo Merlin, lunedì 25 (20 giorni dalla prima visita all'inizio della terapia) mi presento in ospedale dove la dottoressa mi prescrive la terapia a base di Tapazole. Senza smettere i betabloccanti, così posso avere le mani fermissime e imparare a suonare il piano come Glenn Gould. Poi mi fa l'esenzione: malattia cronica + reddito = esenzione totale. E mi fissa il prossimo controllo per il 23 dicembre. All'inizio i controlli saranno piuttosto frequenti, finché non saremo sicuri che la terapia funziona, poi diventeranno trimestrali. Quindi, per ora, niente San Francisco.

P.S.: a proposito di Glenn Gould (e di medicinali). Ho appena visto il bellissimo Thirty Two Short Films About Glenn Gould. Ne trovate dei frammenti QUI. E qui sotto trovate quello intitolato Pills (perché lui non prendeva solo i betabloccanti).


venerdì 6 dicembre 2013

Vi racconto Claire Messud su RaiLetteratura



 
Come promesso ieri, oggi vi racconto di persona il libro di Claire Messud, La donna del piano di sopra. Mi trovate QUI.

giovedì 5 dicembre 2013

La donna del piano di sopra, di Claire Messud


Vi presento l'incipit dell'ultimo libro che ho tradotto. Domani ve lo racconto di persona ;-)


"Quanto sono arrabbiata? È meglio che non lo sappiate. È meglio che non lo sappia nessuno.
Sono una brava ragazza, una ragazza gentile, diligente e puritana, brava figlia e brava lavoratrice, non ho mai rubato un fidanzato e non ho mai tradito un’amica, mi sono sciroppata i miei genitori e mio fratello, e comunque non sono una ragazza, ho più di quaranta merdosissimi anni, e sono brava nel mio lavoro e sono fantastica con i bambini e ho tenuto per mano mia madre quando è morta, dopo quattro anni passati a tenerla per mano mentre moriva, e parlo al telefono con mio padre tutti i giorni, tutti i giorni, attenzione, e che tempo fa sulla tua sponda del fiume, perché qui è abbastanza grigio e anche un po’ afoso? Sulla mia lapide doveva esserci scritto Grande Artista, e invece se morissi ora ci scriverebbero brava insegnante/figlia/amica; mentre quello che in realtà vorrei gridare, e che vorrei anche vedere scritto a lettere cubitali su quella tomba, è andate tutti a fare in culo.
Non è quello che provano tutte le donne? L’unica differenza è quanto siamo consapevoli di provarlo, quanto siamo in contatto con la nostra furia. Siamo tutte furie, tranne quelle che sono completamente stupide, e adesso ho paura che gli stiamo facendo il lavaggio del cervello fin dalla culla, così alla fine anche quelle intelligenti diventeranno del tutto stupide. A chi mi riferisco? Alle alunne di seconda della Appleton Elementary, a volte anche a quelle di prima, che quando arrivano nella mia classe, in terza, ormai sono bell’e che andate, piene di Lady Gaga e Katy Perry e manicure francesi e bei vestitini, e si preoccupano della pettinatura! In terza elementare. Sono più interessate alla pettinatura e alle scarpe che alle galassie, ai bruchi e ai geroglifici. Com’è possibile che tutte quelle chiacchiere rivoluzionarie degli anni Settanta ci abbiano portate in un posto dove essere femmine significa fingersi tonte e farsi belle? Era bella, come iscrizione sulla lapide, è ancora peggio di figlia obbediente: una volta lo sapevano tutti. Ma oggi siamo persi in un mondo di apparenze.
Ecco perché sono così arrabbiata, in realtà: non per tutti i lavori ingrati, le smancerie e i doveri che l’essere donna – o piuttosto, l’essere me – comporta, perché questi, forse, sono gli inevitabili fardelli dell’essere umano. In realtà sono arrabbiata perché ho cercato in tutti i modi di uscire dalla Casa degli specchi, dall’inganno e dalla finzione del mondo, o del mio mondo, sulla costa orientale degli Stati Uniti d’America nel primo decennio del Ventunesimo secolo. Ma dietro ogni specchio c’è un altro cazzo di specchio, in fondo a ogni corridoio c’è un altro cazzo di corridoio, e il parco dei divertimenti non è poi così divertente, ma a quanto pare non esiste una porta con la scritta uscita.
D’estate, quando ero bambina, andavamo al Luna Park e visitavamo la Casa degli specchi, con quella sua faccia di gesso dal ghigno raccapricciante alta due piani. Si entrava dalla bocca, tra due file di denti enormi, camminando sulla lingua rosa acceso. Avrei dovuto capirlo subito, guardando quella faccia. Doveva essere uno spasso, e invece mi terrorizzava. Il pavimento cedeva sotto i piedi oppure ondeggiava da una parte all’altra, le pareti erano storte e le stanze dipinte in modo da alterare la prospettiva. Negli stretti corridoi vibranti, tra luci intermittenti e strombettii, gli specchi ti ingrassavano, allungavano, rovesciavano e capovolgevano. A volte il soffitto si abbassava o il pavimento si alzava, oppure succedevano entrambe le cose contemporaneamente, e io temevo di rimanere schiacciata come un insetto. La Casa degli specchi mi terrorizzava molto più della Casa stregata, soprattutto perché in teoria avrei dovuto divertirmi. Invece volevo solo scappar via. Ma le porte con la scritta uscita si aprivano su altre stanze folli, su interminabili corridoi vibranti. C’era un unico percorso attraverso la Casa degli Specchi, ed era obbligato, fino in fondo.
Oggi ho finalmente capito che la Casa degli specchi è la vita stessa. Noi vogliamo solo trovare la porta con la scritta uscita, la via di fuga verso un posto dove esiste la Vita Vera; ma non la troveremo mai. No: mi correggo. Negli ultimi anni c’è stata una porta, ci sono state diverse porte, e io le ho aperte e varcate con slancio, e per un po’ ho creduto di avercela fatta a uscire fuori, nella Realtà – mio Dio, la beatitudine e il terrore che ho provato, l’intensità di quei momenti: sembrava tutto così diverso – finché d’un tratto mi sono accorta di essere sempre rimasta dentro la Casa degli specchi. Ero stata ingannata. La porta con la scritta uscita non era affatto un’uscita."

Claire Messud, La donna del piano di sopra, traduzione mia
 © 2013 Bollati Boringhieri Editore, Torino 

martedì 3 dicembre 2013

Il mistero della torbiera


Partiamo tutti e tre, io, Mr K e La Mamma, per andare a vedere la torbiera. È vicina, la torbiera, a pochi minuti da casa, eppure ci sarò andata due o tre volte in vita mia, alle elementari per sentire parlare della torba e delle palafitte, e poi forse un'altra volta che ho dimenticato. Però sono stufa di stare in casa, non posso camminare a lungo e così mi viene in mente la torbiera, una palude dove forse riuscirò a vedere qualche uccello e a scattare qualche foto d'atmosfera. 
Partiamo con il pandino della Mamma, io e lei che parliamo fitto e Mr K che non capisce quasi niente come al solito. Nessuno di noi sa bene come arrivare alla torbiera, ma La Mamma ha chiesto informazioni a svariate sue amiche e ha un'idea di massima della strada da fare. Parcheggiamo e ci incamminiamo per un sentiero in mezzo ai boschi, che subito si presenta come il teatro di una catastrofe ambientale: tronchi abbattuti ci tagliano la strada ogni tre passi, e quando riusciamo eroicamente a scavalcarli, dall'altra parte ci aspettano pozze di fango che secondo La Mamma potrebbero inghiottirci. Il fatto è che un paio di mesi fa questa zona è stata colpita da un tifone e il sentiero per la torbiera è andato a farsi benedire. Spaventati dalla selva oscura facciamo dietrofront e troviamo un signore che ci spiega con dovizia di particolari che la torbiera si può raggiungere scendendo per di là e passando davanti al tizio che ha i cavalli e svoltando dove c'è quella casa con i cani cattivi. La Mamma sembra capire tutto, ma poco dopo la vediamo da lontano che chiede informazioni a un altro signore che si sbraccia, indica, gesticola per cinque minuti buoni, finché La Mamma torna da noi e ci dice che la torbiera è irraggiungibile, tutti i sentieri sono chiusi. Ma come, io non ci credo, il primo signore ci ha detto che si poteva arrivarci, proviamo. E così risaliamo sul pandino e imbocchiamo la stradina, ma prima di passare davanti al signore con i cavalli ci viene il dubbio che quella non sia la strada giusta, perché un'altra amica della Mamma, che abita vicino al signore dei cavalli, le ha detto che quella strada per la torbiera era chiusa. Allora La Mamma ferma il pandino, prende il telefono e chiama un altro suo amico che va spesso a passeggiare alla torbiera. L'amico è al supermercato, ma sospende volentieri la spesa per lanciarsi in una lunghissima spiegazione di come si arriva alla torbiera, concludendo che lui di solito fa il sentiero della selva oscura, però ci va d'estate quando è più agibile (prima del tifone, cioè). Decidiamo comunque di imboccare la stradina, e a un certo punto arriviamo in vista di un canneto. La torbiera! Ma la strada invece di avvicinarsi alla torbiera si allontana, e a un certo punto La Mamma scorge la sagoma di un signore con la motosega in un prato e lo chiama, perché naturalmente lo conosce. La Mamma conosce tutti. Il signore con la motosega si lancia in una lunga spiegazione di come la regione abbia finanziato una ristrutturazione della torbiera con la creazione di cinque laghetti per non so più quanti miliardi di euro, ma poi non ha più mandato nessuno a tenerla pulita e le cannette si sono rimangiate i laghetti. Noi ascoltiamo perplessi, chiedendoci perché bisognava scavare cinque laghetti nella torbiera, e nel frattempo il signore con la motosega ci dice che non c'è niente da vedere e nessun sentiero, ma che se proprio vogliamo possiamo passare dalla sua proprietà e arrivare in riva alla torbiera. Ma a quel punto siamo esausti e rinunciamo. Nei giorni successivi sono proseguite le indagini della Mamma presso i suoi amici, e ora ci è sorto il dubbio che la gente che abita intorno alla torbiera non voglia che estranei passino davanti a casa sua e così occulti l'esistenza di sentieri alternativi per arrivare alla torbiera. Inoltre pare che questi stessi abitanti della torbiera lascino passare sui loro terreni solo i cacciatori, che ne hanno il permesso per legge. Io e Mr K abbiamo pensato di comprare un fucile per poter accedere alla torbiera. Nel frattempo, per consolarci, abbiamo fatto un giretto in riva al lago. Casa mia, sono cresciuta qui.







domenica 1 dicembre 2013

Cronache della tiroide/2

(Continua da QUI)

Dopo un fine settimana non proprio rilassante, il lunedì mattina mi presento, a digiuno e con una scorta di biscotti nella borsa, all'ospedale dove il cardiologo mi ha prenotato gli accertamenti: analisi del sangue e lastra ai polmoni. La dottoressa burbera mi dà un'occhiata ai polpacci edematosi e dice "Se questo non è ipertiroidismo, non gioco più". I battiti, dopo due giorni di betabloccanti, sono tornati quasi normali. Mi prelevano il sangue venoso dalla solita piega del gomito, e quello arterioso dal polso. Mi fanno la lastra ai polmoni. Poi esco nella sala del pronto soccorso e aspetto i risultati. Dopo un'ora o due - difficile mantenere la cognizione del tempo - l'infermiera mi richiama e mi manda in una sala con la dottoressa burbera, che mi conferma l'ipertiroidismo (fiu!), con sospetto morbo di Basedow (oddio, quello degli occhi a palla. Sì, mi dice la dottoressa, se non si cura in tempo. Ah, allora può darsi che la scampo). Le chiedo della lastra ai polmoni: tutto a posto, mi risponde con aria annoiata, tanto era sicura della sua diagnosi basata su un'occhiata ai miei polpacci. Mi dice che ha già avvisato il cardiologo, che è stato contentissimo della notizia. E poi mi dice di rivolgermi a breve a un terzo ospedale, quello del capoluogo (Varese), che ha un reparto di endocrinologia. "Bene, adesso posso mangiare?" le chiedo. Sì, perché fra tutti i sintomi dell'ipertiroidismo, il mio corpo, benedetto lui, ha scartato tutti quelli emotivi (non frigno, non m'incazzo più del solito), l'insonnia (mai dormito così bene. Dopo aver ricevuto la diagnosi, ovviamente), il gozzo (il mio collo è rimasto di dimensioni normali), gli occhi a palla e le caldane, e si è tenuto il fiato corto e la tachicardia, le gambe un po' gonfie e soprattutto una fame mostruosa abbinata a perdita di peso. La dottoressa dell'ospedale di Varese, quando glielo dirò, alzerà gli occhi al cielo e risponderà: "Sì, lo so,  me lo dicono tutti. Pensi che ci sono persino dei farabutti che prescrivono ormoni tiroidei per far dimagrire la gente. Però non si tratta di perdita di grasso, bensì di tessuto muscolare." Ah, vabbè, pensavo meglio. Però intanto mangio come un bufalo e mi metto quei jeans che non si chiudevano più. Finché dura...
Richiamo il cardiologo, che mi ribadisce che si tratta della cosa migliore che mi potesse capitare, e poi finalmente me ne vado a pranzo.

(2. Continua)

giovedì 28 novembre 2013

Il ginocchio della lavandaia

"Eravamo in quattro: George, e William Samuel Harris, e io, e Montmorency. Ce ne stavamo seduti in camera mia, fumando e parlando di quanto eravamo mal ridotti... dal punto di vista medico voglio dire naturalmente.
Ci sentivamo tutti malaticci, e cominciavamo a essere molto innervositi per questo. Harris disse che veniva preso, a volte, da attacchi di capogiro talmente forti che non sapeva quasi più quel che stava facendo; subito dopo, George disse che anche lui aveva attacchi di capogiro e non sapeva quasi quel che faceva. Quanto a me, era il fegato a essere fuori di posto. Ero certo che fosse il fegato a essere fuori di posto perché avevo appena letto il volantino pubblicitario di una specialità medicinale che elencava nei particolari vari sintomi mediante i quali un uomo poteva capire se il suo fegato fosse fuori di posto. Io li avevo tutti.
È una circostanza davvero straordinaria, eppure non ho mai letto la pubblicità di una specialità medicinale senza pervenire, irresistibilmente, alla conclusione di soffrire della particolare malattia che essa cura, e nella forma più virulenta.
La diagnosi sembra ogni volta corrispondere esattamente a tutte le sensazioni che ho sempre provato.
Rammento di essermi recato, un giorno, al Museo Britannico per leggere come si curasse una lieve indisposizione dalla quale ero stato colpito in forma leggera: la febbre del fieno, mi sembra che fosse. Ritirai il libro e lessi tutto quel che v'era da leggere; poi, in un momento di balordaggine, sfogliai pigramente le pagine e cominciai, con indolenza, a studiare le malattie in generale. Non rammento quale fu il primo morbo nel quale mi immersi – qualche flagello pauroso e devastatore, questo lo so – e prima ancora di essere arrivato a metà dell'elenco dei "sintomi premonitori", sorse in me la persuasione di esserne affetto in pieno.
Per qualche momento rimasi paralizzato dal terrore; poi, nell'apatia della disperazione, ricominciai a sfogliare le pagine. Capitai alla febbre tifoidea: lessi i sintomi e scoprii di avere la febbre tifoidea: mi resi conto che dovevo averla avuta da mesi senza rendermene conto e mi domandai da quali altre malattie fossi affetto; passai al ballo di San Vito: constatai – come mi ero aspettato – di avere anche quello; e cominciando a interessarmi al mio caso, decisi di essere meticoloso e di sondare fino in fondo. Pertanto ricominciai in ordine alfabetico, lessi la voce asma e venni a sapere che covavo la malattia e che lo stadio acuto sarebbe cominciato di lì a una quindicina di giorni. Quanto al morbo di Bright – fu un sollievo constatarlo – lo avevo soltanto in forma attenuata e, sotto questo punto di vista, potevo vivere ancora per anni. Dal colera ero già stato colpito, con gravi complicazioni; passando poi alla difterite, dovevo essere nato con essa, a quanto pareva.
Continuai coscientemente per tutte le ventisei lettere dell'alfabeto, e la sola malattia che riuscii a concludere di non avere fu il ginocchio della lavandaia.
A tutta prima mi risentii alquanto per questo; sembrava trattarsi, in qualche modo, di una sorta di ingiustizia. Perché non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché questa invidiosa eccezione? Dopo qualche tempo, tuttavia, prevalsero sentimenti meno avidi. Mi dissi che ero affetto da ogni altro morbo noto alla farmacologia, divenni meno egoista e decisi di fare a meno del ginocchio della lavandaia. La gotta, nel suo stadio più maligno, a quanto pareva mi aveva colpito senza che io ne fossi consapevole; e di zimosi, evidentemente, soffrivo sin dalla fanciullezza. Dopo la zimosi non esistevano altre malattie e così pervenni alla conclusione che non v'era altro di anormale in me.
Rimasi seduto, cogitando. Quale caso interessante dal punto di vista medico ero diventato, pensai. Quanto sarei stato prezioso per un corso di medicina! Disponendo di me, gli studenti non avrebbero
avuto alcuna necessità di "fare il giro negli ospedali". Ero io stesso un ospedale. Sarebbe bastato che facessero un giro intorno a me e, subito dopo, avrebbero ottenuto la laurea.
Poi mi domandai quanto tempo avessi ancora da vivere. Cercai di visitare me stesso. Mi tastai il polso. A tutta prima non riuscii affatto a sentirlo. Poi, all'improvviso, parve mettersi in moto. Tolsi dal taschino l'orologio e controllai. Erano centoquarantasette pulsazioni al minuto. Cercai di sentirmi il cuore. Non funzionava più. Aveva smesso di battere. In seguito sono stato indotto a concludere che doveva essere rimasto sempre al suo posto, e che stava battendo; ma non so spiegare come fu. Mi palpai dappertutto sul davanti, da quella che si suol chiamare la "vita" fino alla testa, e mi spinsi anche un po' più in là a ciascun lato, e un pochino all'insù sulla schiena. Ma non riuscii a sentire o a udire un bel niente. Cercai di esaminarmi la lingua. La tirai fuori il più possibile, poi chiusi un occhio e mi sforzai di guardarla con l'altro. Riuscii a scorgere soltanto la punta, e potei dedurne una sola cosa: divenni ancor più sicuro di prima di avere la scarlattina.
Ero entrato in quella sala di lettura sano e felice; quando ne uscii, sembravo un decrepito relitto umano."

Da Tre uomini in barca, di Jerome K. Jerome. Traduzione di Bruno Oddera.




martedì 26 novembre 2013

Cronache della tiroide/1

Tutto è cominciato a metà ottobre, durante la visita all'oasi naturalistica della Nature Conservancy a Santa Fe. Una passeggiatina corta, eppure all'arrivo avevo il fiatone. Sarà l'altitudine, ho pensato, visto che Santa Fe è a più di 2000 metri slm. Poi più niente per un po', finchè, tornata a casa, non mi sono accorta che mi veniva il fiatone anche a salire le scale. Vero che sono sportiva come un bradipo in letargo, però mi è sembrato un po' strano. Avevo anche le caviglie gonfie, cosa che in genere mi succede solo quando fa caldo, e comunque si trattava di un gonfiore un po' diverso. Una nuotata in piscina mi ha dato la conferma che qualcosa non andava: vero che lo stile libero non è mai stato il mio forte, ma qui ansimavo come una locomotiva e sentivo il cuore uscirmi dalle orecchie.
Il medico di base mi prescrive una spirometria e una visita dal cardiologo, in fretta. L'appuntamento all'ospedale me lo danno per tre giorni dopo, lunedì. Lo pneumologo mi mette una molletta sul naso e mi fa respirare dentro un tubo di cartone tipo quelli della carta igienica. Ripete la prova tre volte, scrollando la testa. Il risultato è che ho circa il 50% di capacità vitale, come la chiamano loro. Cioè, a quanto pare i miei polmoni funzionano a metà regime. Già non è bello sentirselo dire, se poi ti dicono anche che hai la "capacità vitale" ridotta della metà, l'effetto non è proprio rassicurante. Lo pneumologo mi prescrive altre analisi e mi dice di andare in fretta da un cardiologo. E così il sabato mi presento dal cardiologo, un signore gentilissimo che vede il mio elettrocardiogramma e si spaventa. "Ma lei non lo sente, il suo cuore?" Certo che lo sento, soprattutto davanti al secondo medico che mi guarda spaventato. Mi fa un'ecocardiografia e mi fa vedere quel poveraccio del mio cuore, che batte così forte che sembra voler saltar fuori per andare a correre una maratona. 140 battiti al minuto. La cosa positiva è che mi fa un'altra spirometria, in cui la mia capacità vitale risulta del 75%. Qualunque cosa sia, mi dice, possiamo quasi escludere i polmoni. Quanto alla tachicardia, secondo lui è causata all'80% da un ipertiroidismo, "che con questi sintomi è decisamente la cosa migliore che le possa capitare". Poi mi dice: "Mi sembra un po' agitata. Lei è una persona emotiva, vero?"
Mi prescrive dei betabloccanti per rallentare il cuore (quelli che prendeva Glenn Gould per avere le mani fermissime quando suonava il pianoforte) e mi prenota una serie di analisi urgenti all'ospedale, il lunedì successivo. "Cominci subito a prenderli", mi dice. "Ce la fa ad arrivare fino a lunedì?" La visita si conclude con il medico che esce e dice a mia madre che mi sta aspettando fuori: "Dovrebbe finire bene".

[1/Continua. Avvertenza: se avete delle storie liete da raccontarmi sui miracoli della medicina moderna, fate pure. Se invece avete una storia non lieta, vi prego di astenervi dal commentare. Mi sono già spaventata abbastanza.]

domenica 24 novembre 2013

Miles in the Sky: ascolti di Miles Davis

Venerdì sera, nell'ambito della ricchissima Bookcity, siamo andati alla presentazione del libro Miles Davis. La storia illustrata (AAVV, trad. di Michele Piumini).
Quello che mi attirava era soprattutto la promessa di "ascolti musicali tratti dall’opera del grande musicista americano", proposti da Enrico Merlin, chitarrista e autore di Bitches Brew. Genesi del Capolavoro di Miles Davis. Ascolti guidati, cioè, alcuni da registrazioni inedite, condotti con maestria e grande presenza scenica da Merlin, che è riuscito in a trascinare il pubblico con la musica ma anche con gustosi aneddoti sul sommo Miles, di cui lui è uno dei massimi esperti mondiali. Mi ha ricordato le bellissime lezioni del grande maestro Carlo Boccadoro che seguivo alla scuola Holden, e mi ha fatto venire una gran voglia di seguirne altre. Perché dopo essere stati guidati per mano nella comprensione di questi capolavori, si sente di poter apprezzare e gustare meglio tutta la musica. Di Merlin, un critico musicale con cui chiacchieravo alla fine della serata mi ha consigliato Mille dischi per un secolo, che "malgrado il titolo" (come dice lui), è davvero un ottimo libro.
Qui sotto vedete una foto della serata, con Merlin che parla e Mr K che ascolta.

P.S.: mi hanno mandato una foto dove ci sono anch'io.

 

giovedì 21 novembre 2013

Don DeLillo: Running Dog

Arrivo sempre tardi per i compleanni. Quello di Don  DeLillo era ieri (è nato il 20 novembre del 1936), ma ciò non mi impedisce di fargli gli auguri citando l'incipit di un suo romanzo che ho tradotto nel 2006, Running Dog.


"Non troverai gente normale, qui. Non dopo il tramonto, in queste strade, sotto le antiche tettoie dei magazzini. Questo lo sai, naturalmente. È chiaro. Altrimenti non saresti venuto. Il vento soffia a raffiche dal fiume, alzando la polvere dei cantieri di demolizione. Vicino alle banchine, i vagabondi accendono il fuoco dentro fusti di petrolio arrugginiti. Si stringono gli uni agli altri, infagottati nei cappotti, nei maglioni di seconda mano o in qualunque combinazione di indumenti siano riusciti a procurarsi. Ci sono camion parcheggiati vicino ai magazzini, alcuni occupati da uomini che fumano al buio, in attesa degli omosessuali che escono dai bar oltre Canal Street. Allunghi il passo, ma non cerchi riparo dal freddo. Ti piace quel vento che soffia sempre più forte. Giri l’angolo e lo affronti per un istante, sentendo con piacere la forma delle cosce contro la stoffa tesa del vestito. Vetri rotti scintillano come mica bianca nei terreni vuoti. Stasera il fiume ha un forte odore di muschio.
Ora, a est, vedi quattro lettere tracciate con la vernice spray sul lato di un edificio. Uno scarabocchio senza senso. ANGW. Ma ha qualcosa di familiare, scava un buco nel tempo. Ed ecco che ti torna alla mente, da una distanza di più di vent’anni. La gita a Salisburgo. I cugini, i giochi, il museo. Quattro lettere incise su un’alabarda da cerimonia. La spiegazione di tuo padre: Alles nach Gottes Willen.
Da allora le armi sono diventate empie. Hanno perso la fede. E i bambini sono cresciuti, scoprendo di aver percorso singolari distanze. Ora è imminente, lo senti, qualcuno ti aspetta dietro l’angolo, una contrattazione silenziosa che non ha nulla a che vedere con merci o servizi; solo ciò che siete realmente, anime che si aggirano nella notte concludendo accordi. Un’oscura esaltazione cresce a ogni passo.
Tutto secondo la volontà di Dio. Il Dio del Corpo. Il Dio del Rossetto e della Seta. Il Dio del Nylon, del Profumo e dell’Ombra."