venerdì 29 giugno 2012

Obamacare: un post controcorrente


Insomma, a me questa riforma obamiana non convince affatto. Ora vi spiego perché.

Sul sito ElectoralVote ho trovato una breve storia dei tentativi di far passare la riforma della sanità negli Usa. Ho così scoperto che nel 1989, la molto conservatrice Heritage Foundation cercò una soluzione conservatrice al problema della sanità. Il loro progetto prevedeva di fornire la copertura a tutti i cittadini obbligandoli a comprare l'assicurazione sanitaria da una compagnia assicurativa privata. Questo progetto aveva il vantaggio di lasciare l'intero settore nelle mani dei privati, assicurando loro profitti ancora maggiori. Presentato dal senatore repubblicano Don Nickles nel 1993 con il nome Consumer Choice Health Security Act (che trovate qui. Io non lo linko - brutta parola, lo so -  perché è un documento ufficiale), il progetto della Heritage Foundation non venne approvato. Nel 2006, l'allora governatore del Massachusetts Mitt Romney riuscì a farne passare una versione modificata nel proprio stato.
Nel 2009, Obama pensò che il modo migliore per convincere i repubblicani a sostenere una riforma della sanità fosse usare il loro stesso progetto, e così propose la riforma di Romney su scala nazionale. I repubblicani però si opposero, per motivi esclusivamente politici (e non costituzionali), visto che la riforma Obama era stata in origine una loro idea. Ed è questa la riforma che verrà messa in atto grazie al voto di ieri della Corte Suprema.

Tutto questo, per me, comporterà l'obbligo di assicurarmi a pagamento. Ci sarà un sussidio statale, certo, come spiega anche Rampini QUI. In pratica: lo stato devolverà denaro alle assicurazioni, costringendo i cittadini ad acquistare un prodotto da un privato.
Ok, di meglio proprio non si poteva fare, però che lo stato mi imponga (aiutandomi, certo, ma devo ancora ben capire in che misura) di comprare il mio diritto alla salute da un privato che ci specula sopra, a me non piace proprio per niente. 

Questo articolo, che parla di "the Dark Side of Thursday's Supreme Decision on Health Care", contiene una frase illuminante: "Health care is a commodity".
Be', per loro l'assistenza sanitaria sarà anche una merce. Per me è un diritto umano fondamentale.

giovedì 28 giugno 2012

Investiamo in ostacoli

La barzelletta greca pubblicata sul blog di George mi ha fatto venire in mente l'ormai tristemente famoso caso del "cancello della discordia", l'inferriata che alla stazione di Roma Ostiense blocca l'accesso a Italo - il treno che fa concorrenza al Freccia Rossa -  costringendo i passeggeri a un lungo e scomodo giro per salire a bordo. Ne ha parlato anche l'Economist (qui l'articolo originale).

Io ho preso Italo per andare da Roma a Milano. Ho viaggiato bene a un'ottima tariffa, 45 euro (tariffa Low Cost che si ottiene prenotando con un po' di anticipo). Eppure qualcuno a cui l'ho detto, qui in Italia, ha reagito con fastidio, perché "è troppo poco, ci sarà qualche fregatura".

Un'amica americana a cui ho raccontato del cancello, invece, ha commentato: "They could have spent that money to improve their service, but they chose to invest in an obstacle instead".

Per certi versi mi è sembrata una metafora dell'economia italiana: investiamo in ostacoli.

martedì 26 giugno 2012

Questo sito può dare dipendenza

Robert Capa: Pablo Picasso and Françoise Gilot and Picasso's nephew, Javier Vilato.
Questa e migliaia di altre foto, di tutti i generi, di tutte le epoche, di tutti gli autori, di tutti i soggetti, le potete trovare qui (sotto ogni foto, in basso a sinistra, cliccate su "Link". Da lì se ne apriranno molte altre). Molto, molto pericoloso.

lunedì 25 giugno 2012

Romanzo o racconto? Cosa preferite?

Qualche giorno fa sono stata ospite del blog di Loris Righetto, per un'intervista collettiva con altri "addetti ai lavori" (scrittori e agenti letterari) sui motivi del maggiore successo dei romanzi rispetto alle raccolte di racconti. Le domande erano due:  

1) Quali sono le cinque raccolte di racconti italiani che ti sono piaciute di più negli ultimi vent’anni, trent’anni.  
2) Perché in Italia si preferisce la forma ‘romanzo’ alla forma ‘raccolta di racconti’?”

Alla fine, dopo le interviste, si trova anche una lista di titoli. "Un bel po’ di libri, tutti molto interessanti", come scrive Loris. 

Io vi ricopio qui le mie risposte (ho barato e ho citato solo tre raccolte di racconti, le prime che mi venivano in mente) e vi invito ad andarvi a leggere le altre. Poi lo chiedo anche a voi: preferite leggere romanzi o racconti?

1) Mosca più balena di Valeria Parrella; L’ubicazione del bene di Giorgio Falco; Casa d’altri di Silvio D’Arzo.

2) ‘Tu dici che “in Italia” si preferisce la forma romanzo alla forma raccolta di racconti. È vero, ma non vale solo per l’Italia. Negli Stati Uniti la situazione è identica. Certo, ci sono autori che pubblicano esclusivamente racconti (penso alla canadese Alice Munro e alla statunitense Amy Hempel, per esempio), ma in generale gli editori non amano pubblicare racconti perché “non vendono”, e spesso impongono agli autori contratti per due o tre libri nei quali, se il primo è una raccolta di racconti, gli altri dovranno necessariamente essere romanzi. E gli autori che pubblicano racconti si sentono sempre chiedere: “A quando il romanzo?
L’epoca d’oro del racconto è finita anche in America, insomma, soppiantata dalle esigenze di marketing che vogliono il romanzo più “appetibile” per i lettori. Ho parlato spesso con scrittori che si lamentano di questa situazione, anche perché romanzo e racconto sono due forme completamente diverse, e chi eccelle nell’una non è detto che riesca bene anche nell’altra. Mi sono anche chiesta – e non solo io, naturalmente – il motivo di questo pregiudizio nei confronti del racconto. Gli editori reagiscono semplicemente ai gusti dei lettori, oppure, pubblicando meno racconti e puntando meno sul loro successo, sono loro stessi che allontanano i lettori dalla forma racconto? Io propenderei per la seconda ipotesi, anche perché il successo di un’autrice come Munro dimostra che i lettori sono decisamente pronti e disponibili ad apprezzare le raccolte di racconti.

sabato 23 giugno 2012

Gita di compleanno all'Alpe Devero. Ovvero: a noi lo Yosemite ci fa un baffo

Visto che domani è il mio compleanno, abbiamo deciso di approfittare di uno dei (pochi) vantaggi della vita da freelance e di prenderci due giorni di vacanza durante la settimana. 

L'Alpe Devero è a meno di due ore da casa. Una volta arrivati al paese di Devero, lasciamo la macchina e saliamo a piedi per una mezzoretta fino a Crampiolo, che ci piace da matti perché è un paesino piccolissimo, tutto di pietra e senza macchine (e in settimana anche senza gente). D'inverno si sale con le ciaspole, d'estate si fa un pieno di verde e di aria freschissima in mezzo a sentieri meravigliosi. 

Secondo me il parco dell'Alpe Veglia e Alpe Devero è bello quanto lo Yosemite (vabbè, è più piccolo, che scoperta), solo che costa meno, l'ospitalità è cento volte migliore, e si mangia mille volte meglio (non perdetevi il mitico formaggio Bettelmatt, da mettere nei panini che vi farete fare per le passeggiate. E se non siete vegetariani, i salumi locali sono squisiti). Insomma, Devero batte Yosemite 4-1. Tiè.























giovedì 21 giugno 2012

Quidditch o spada laser?

Il nostro amico Eric Hansen. Foto: Jake Stangel
Qualche tempo fa, i nostri amici Eric e Hrund ci raccontarono della partita di Quidditch a cui Eric dovette giocare per scrivere un articolo sulla rivista Outside. Sì, perché c'è gente che a Quidditch ci gioca per davvero. E si fa anche molto male. Eric e Hrund ce lo raccontavano divertiti, ma anche un po' orripilati. 

Il racconto di Eric è apparso poco tempo dopo sulla rivista. Se siete potterheads e volete leggerlo tutto, lo trovate QUI. Altrimenti, siccome è molto lungo, vi riporto qui di seguito i punti salienti.

"Sunset on a Saturday in early November. The playing fields of Randall's Island, New York City. It's near the end of the first day of the surprisingly violent 2011 Quidditch World Cup, and we of the Outside Magazine Partially Icelandic Quidditch World Cup Team—OMPIQWCT for short—are ready to kick some Potter ass. (...)
But here are the basics: Play happens on an egg-shaped, 50-yard-long pitch. Each team fields seven players, two of whom must be women, and all players have to wear team jerseys and colored sweatbands. Critically, everyone must at all times straddle a broom at least 46 inches long, to simulate flying. (...)
'Wrap him up, tackle him!' a teammate yells at me when the goalie takes off a third time. I try, but he barges past with the flailing arms and unblinking eyes of a proper Potter psycho. For reasons unknown, just shy of our goal the bastard chooses to ignore the hoops and instead clobbers my wife, Hrund, who isn’t even in the game.
(...) One moment she’s relaxing on the sideline, looking away, not even holding a broom. The next, this freak lowers his non-broom-carrying shoulder and blasts her in the sternum. The impact sends her flying through the dusky air, nearly completing a full back layout before landing on her head.
Silence. The sun disappears behind skyscrapers. 'I’m OK,' Hrund declares, finding her feet. (...)
Source
Quidditch was invented at Vermont’s Middlebury College in 2005, when a group of buddies—fans of J.K. Rowling, of course—got tired of playing bocce and decided to improvise something more exciting that involved brooms and bath-towel capes. They drew up a loose Quidditch rulebook and encouraged other students at tony schools to play.
In 2007, a reporter from USA Today covered "the first inter-collegiate Quidditch match." (...) Within months of the story’s appearance, the intramural sport had magically spread from campus to campus. (...) The height of the mania quickly became the annual World Cup, held each fall and open to any teams registered with the Bedford Hills, New York–based International Quidditch Association."


Source

Se poi il Quidditch non vi interessa, potete sempre dedicarvi al combattimento con la spada laser, imparando i Sette Stili di combattimento Jedi nell'apposita Accademia.
 



mercoledì 20 giugno 2012

"L'amore in un clima freddo": Nancy Mitford e l'amore al tempo degli snob

Esce oggi L'amore in un clima freddo, il romanzo di Nancy Mitford che ho tradotto per Adelphi.

QUI trovate l'articolo di Natalia Aspesi su Repubblica. QUI c'è Livia Manera sul Corriere. QUI Davide Coppo sulla rivista Studio, dove tempo fa è comparsa anche un'intervista alla sottoscritta.

Qui sotto invece trovate la recensione di Irene Bignardi uscita su Vanity Fair (n.26, 4 luglio 2012, pag. 153). Un'altra bella recensione in cui viene menzionata la traduttrice è quella di Elisabetta Rasy per Il Sole 24 Ore

Piccolo mondo inglese
Nancy Mitford era la più grande delle sei figlie di Lord Redesdale - ragazze bizzarre, visto che due, Diana e Unity, furono simpatizzanti della destra più estrema e del nazismo, e una, Jessica, combatté dal lato repubblicano nella guerra civile spagnola. Nancy, troppo sarcastica o troppo cinica per prendere una posizione politica, si scelse il ruolo di commentatrice dei costumi della buona società britannica tra le due guerre. E in L’amore in un clima freddo, (traduzione scintillante di Silvia Pareschi) dà il meglio del suo humour e della sua capacità di osservazione, nel ruolo di testimone esterno alle vicende della famiglia di Lord Montdore, ricchissimo, malinconico, sposato a una vipera, padre della bellezza del secolo, Polly, così annoiata da non trovare di meglio che convolare a nozze con suo zio, amante della mamma.
C'è profumo di autobiografia in queste pagine frizzanti e acute, dove Nancy Mitford fa a pezzi un mondo (il suo): ma la vicinanza al suo oggetto non fa che potenziare nella scrittrice la visione critica di una classe al tramonto, e l'abilità di incidere ritratti esilaranti e sapidi di un mondo destinato a essere spazzato via dalla storia.

lunedì 18 giugno 2012

Una minorenne in America/3: Greetings from New York, 1985 - Seconda parte

(Continua da qui).





 


Non lo facemmo apposta. Camminavamo, camminavamo come sempre, nel caldo di agosto, mentre io macinavo chilometri masticando mele verdi, quando d'un tratto notammo un cambiamento nel colore dei passanti. C'erano molti più neri che bianchi. Anzi, i bianchi continuavano a diminuire, e a un certo punto finirono. Intorno a noi erano tutti neri. "Ma dove siamo? Guarda un po' la cartina." "Ah, guarda, siamo a Harlem!"







 

Harlem nel 1985, cioè, quando New York era una città sporca e cattiva e piena di criminali e di senzatetto, prima che arrivasse Giuliani a ripulire tutto con il lanciafiamme. E così, forse perché in quel momento ci punse la nostalgia delle nostre camerette sicure e tranquille, Cristina ebbe una splendida idea. Decise di telefonare a sua madre per farle un saluto. Trovammo un telefono pubblico e Cristina chiamò a casa. A New York erano tipo le 5 del pomeriggio, a Milano le 11 di sera, e sua madre dormiva. "Ciao mamma, indovina da dove ti chiamo? Da una cabina telefonica di Harlem!"




Dopo aver terrorizzato la madre di Cristina decidemmo che per quel giorno avevamo avuto sufficienti avventure, e potevamo tornare al college. Trovammo una fermata dell'autobus e ci mettemmo in attesa. Poco dopo vedemmo arrivare in lontananza un gruppetto di quattro o cinque uomini molto grossi in tuta da operaio. E allora anche noi, con tutta la nostra allegra incoscienza, cominciammo a sentirci un po' inquiete. "Ma secondo te vengono da noi? Ma secondo te cosa vogliono? Oddio, si avvicinano, cosa facciamo?" Restammo lì impietrite mentre gli omaccioni si avvicinavano e, sì, venivano proprio a parlare con noi. "Volete andare downtown, ragazze?" "Ehm, sì..." "Allora l'autobus dovete prenderlo dal lato opposto della strada. Take care".
Quello fu senz'altro il momento più pericoloso di tutto il nostro viaggio.


domenica 17 giugno 2012

Quote of the day: Ray Bradbury



“I have never listened to anyone who criticized my taste in space travel, sideshows or gorillas. When this occurs, I pack up my dinosaurs and leave the room.” 
Ray Bradbury, from Zen in the Art of Writing

sabato 16 giugno 2012

A negative path to happiness


A very interesting article on The Guardian, today, mentions The Museum of Failed Products (For Oily Hair Only shampoo, Pepsi AM Breakfast Cola, a brand of fortune cookies for dogs...), the dangers of ceaseless optimism, the importance of "training to failure", and how "the worst thing about any future event is usually your exaggerated belief in its horror".

All this and more in a book with a great title: "The Antidote: Happiness For People Who Can't Stand Positive Thinking", by Oliver Burkeman

venerdì 15 giugno 2012

Meet my husband/16: Jonathon Keats goes to Hong Kong/2


Miching Malicho is a Hong Kong based art group which curates experimental art projects. Their first public event was the Electrochemical Currency Exchange Co. by conceptual artist and experimental philosopher Jonathon Keats.




giovedì 14 giugno 2012

"Never let go of that fiery sadness called desire"


Ci sono due musicisti che desidero disperatamente vedere in concerto, e per varie ragioni non ci sono mai riuscita. Uno è il mio amato Tom Waits, e la storia di come perdetti il suo concerto, tanti anni fa, merita forse di essere raccontata, ma non qui, non ora.

L'altra è Patti Smith. Lei, per qualche triste ragione, mi sfugge sempre. Anche quest'estate: lei sarà a Villa Arconati - un posto dove ho visto tanti bellissimi concerti - dopo che io sarò partita per la California, e in novembre sarà in California - nella cittadina di Fairfax che mi è anche particolarmente simpatica - quando io sarò in Italia. Eppure un giorno ce la farò, la vedrò cantare. 

Il suo nuovo album, Banga, è bellissimo. Oggi ho ascoltato Seneca una dozzina di volte. La foto che vedete qui accanto l'ho presa dalla bella voce dell'Enciclopedia delle Donne a lei dedicata.



 

martedì 12 giugno 2012

Saluti dalle Cinque Terre

Ecco uno dei post che avevo già pronti. Prima di passare tre giorni a Roma, ne abbiamo passati un paio alle Cinque Terre. Mi sono sentita molto fortunata: una settimana in due dei posti più belli del mondo.

Consigli per un soggiorno low-cost: dormite all'Ostello Tramonti di Biassa e mangiate panigacci e testaroli alla Locanda del Gallese, sempre a Biassa. Se passate da La Spezia, non perdetevi il ristorante All'Inferno.



Manarola. I paesi sono splendidi, certo...



... ma la cosa più bella sono i sentieri...


... e i fiori...


... e il colore del mare...

... e naturalmente Porto Venere...


... con la vista dal Castello...


... di una bellezza così intensa...





... che mette persino fame.




E per chi è vegetariano: panigacci e testaroli alla Locanda del Gallese (dove tutto il resto però è carne).

domenica 10 giugno 2012

Lo yoga ossigena il cervello (ovvero: il Nirvana può attendere)

La nuova formula prevede la pubblicazione di post già pronti (finché ce ne sono), oppure di idee lampo come questa.

Amo lo yoga soprattutto per due motivi. Mi snoda la schiena e mi ossigena il cervello. Lo so che mentre pratico dovrei svuotare la mente e sciogliere l'ego nel Nirvana o comesichiama. Invece a me vengono idee. Mi ricordo cose dimenticate. Collego fatti distanti. Ecco, poco fa mi è venuta un'idea. L'umore è cambiato, ho di nuovo un obiettivo, un progetto a cui lavorare.

Grazie a tutti dei vostri bei commenti. (Orpo, è bastato che annunciassi un rallentamento e ho già perso un follower!)

venerdì 8 giugno 2012

Qualche involontario cambiamento



Non ho più tempo, accidenti. Non posso più stare dietro al blog come vorrei. Avevo pensato di sospenderlo, però mi dispiace troppo. E allora mi tocca fare un esperimento. Rallentare il ritmo dei post, se possibile, e soprattutto, ahimè, smettere di seguire altri blog e rispondere ai commenti. Purtroppo si tratta anche della parte che preferisco, quella che mi consente di dialogare con persone belle e interessanti. Ma l'alternativa sarebbe sospenderlo del tutto, almeno per ora. Insomma, cercherò di rimanere presente anche se fuori dal dialogo. Saluto tutti quelli che mi hanno tenuto compagnia finora, e spero di tornare presto a chiacchierare con voi.

"Non c'è tribù più selvaggia degli americani": un'intervista a Julie Otsuka

Ripubblico qui l'intervista di Maria Teresa Carbone a Julie Otsuka, uscita qualche giorno fa sul Manifesto alla vigilia del reading al Festival delle Letterature di Massenzio
Insieme all'intervista ripubblico anche una foto che ho trovato sul sito della Sacramento State University: si tratta della famiglia di Julie Otsuka (sua nonna, suo zio e sua madre) al loro arrivo all'ippodromo di Tanforan, a San Bruno, uno dei luoghi di raccolta dove venivano trasferiti i nippo-americani prima di venire deportati nei campi di detenzione.

National Archives image of Julie Otsuka's family in San Bruno, California. The image is captioned "Family of Japanese ancestry arrives at assembly center at Tanforan Race Track". Her grandmother is in the hat, her uncle (age 7) is in the foreground and her mother is hidden behind her uncle.




il manifesto 2012.06.05 - 11 CULTURA
Un incontro con Julie Otsuka, autrice di «Venivamo tutte per mare»
Emigrazione e internamento declinati alla voce «noi»
Scritto alla prima persona plurale, il romanzo della scrittrice americana di origine giapponese ruota intorno alle vicende di tante donne che all'inizio del '900 si trasferirono negli Usa dove, all'indomani di Pearl Harbor, furono chiuse con le loro famiglie in campi di detenzione.
Ci sono scrittori che audacemente, deliberatamente, spostano i paletti piantati intorno ai territori della narrativa per avventurarsi in regioni ancora non battute, anche a costo di ritrovarsi, in questa loro esplorazione, a lungo isolati. (Così è stato, in anni recenti, W. G. Sebald, la cui feroce insofferenza verso «qualsiasi forma di scrittura d'autore dove il narratore si atteggia a macchinista e regista e giudice ed esecutore» è stata la molla che lo ha portato a elaborare libri tanto difficilmente catalogabili quanto affascinanti).
E ci sono scrittori che quegli stessi paletti li scavalcano quasi per distrazione, senza velleità rivoluzionarie, condotti - se non dal caso - dall'umile tentativo di dare maggiore forza al testo che vanno componendo. A questa seconda famiglia appartiene la statunitense di origine giapponese Julie Otsuka, il cui secondo «romanzo» (questa la dicitura ufficiale che compare sulla copertina), Venivamo tutte per mare, uscito all'inizio dell'anno da Bollati Boringhieri nella traduzione efficace e intensa di Silvia Pareschi (pp. 142, euro 13) non soltanto è scritto per intero in una infrequente prima persona plurale, ma non ha personaggi immediatamente riconoscibili e neppure qualcosa che assomigli a una trama.
Eppure questa singolare saga collettiva di emigrazione e di deportazione (vi si racconta, in sostanza, delle centinaia di donne che nei primi decenni del Novecento lasciarono il Giappone dirette negli Stati Uniti, dove avrebbero incontrato i futuri mariti - giapponesi come loro, ma ancora sconosciuti - e del successivo internamento di tutte queste famiglie in campi di detenzione all'indomani dell'attacco di Pearl Harbor) è, a dispetto - o forse a causa - delle sue eccentricità, estremamente avvincente, tanto che si potrebbe dire, come nelle recensioni artigianali delle librerie online, che «si legge d'un fiato».
Abbiamo incontrato Julie Otsuka alla vigilia del suo reading che si terrà questa sera al festival «Letterature» nella Basilica di Massenzio a Roma, dove la scrittrice dividerà il palcoscenico con Melania Mazzucco.
Nell'originale il suo romanzo si intitola The Buddha in the Attic, «Il Budda in soffitta», ma nella traduzione italiana il titolo è diventato Venivamo tutte per mare. Non pensa che questo cambiamento indirizzi i lettori in una direzione diversa da quella che lei aveva immaginato?Personalmente sono convinta che i titoli non debbano rivelare troppo del libro cui si riferiscono. Mi piacciono i titoli vagamente misteriosi e evocativi, e in questo caso particolare c'è un motivo in più per cui sono affezionata al titolo originale: la donna che, prima di lasciare la sua casa per il campo di internamento, depone nella soffitta una minuscola statua del Budda che ride, porta lo stesso nome di mia madre, Haruko. Ma l'editore italiano mi ha detto che nella vostra lingua non avrebbe «suonato» bene, e anche questo è un fattore importante, da non sottovalutare.
Al centro del suo primo romanzo, When the Emperor Was Divine, c'è una famiglia della quale, fino alla fine, non ci viene detto il nome. E in Venivamo tutte per mare ci troviamo di fronte a un agglutinarsi di figure e di vicende, ma non ci sono personaggi, né un vero e proprio intreccio. È il segno di una sua sfiducia nel romanzo tradizionale che, si vedano i casi di Jeffrey Eugenides o di Jonathan Franzen, ancora domina la scena letteraria americana?No, scegliendo di adottare un soggetto collettivo, non ho inteso infrangere le regole consolidate. Semplicemente, ho pensato che questo era il modo migliore per raccontare la storia che avevo in mente. Sono partita, anzi, con una narrazione più tradizionale, alla prima persona singolare, ma presto mi sono resa conto che il romanzo in quella forma era noioso. Il fatto è che le vicende di queste donne nel complesso si assomigliano e le variazioni tra l'una e l'altra sono sottili, toccano soprattutto i particolari. Ecco perché il «noi» è molto più adatto per accompagnare l'andamento del racconto.
Dopo due testi per molti versi eccentrici, ha dovuto cercare a lungo una «voce» diversa per il libro che sta scrivendo?Anche per il mio terzo romanzo, che è in via di elaborazione e dal quale leggerò stasera alcune pagine, mi sono lasciata guidare dall'idea che avevo in mente. Questa volta non parlo più del passato, ma mi ispiro proprio a mia madre, che è malata di Alzheimer e sta a mano a mano perdendo la memoria. Un fatto, come può immaginare, molto doloroso e coinvolgente per me, anche perché sono convinta - sulla base di quanto mi hanno detto i medici - che la malattia sia dovuta in parte proprio agli effetti dello stress subito in gioventù, al tempo dell'internamento. Uno stress tanto più forte perché - come quasi tutti i giapponesi che sono passati attraverso la stessa esperienza - dopo la guerra è stato tenuto sotto silenzio. In ogni caso, per questo romanzo c'è una voce che si rivolge in seconda persona a una figura nella quale potrei identificarmi io stessa. È un lavoro nuovo per me, che non comporta ricerche storiche come per i romanzi precedenti, ma un continuo scavo interiore.
A proposito del trauma che le protagoniste senza volto di Venivamo tutte per mare hanno subito emigrando negli Stati Uniti, una delle voci narranti a un certo punto afferma che «non c'è tribù più selvaggia degli americani». È una notazione ironica nei confronti di un paese che continua a considerarsi come un faro di civiltà?Proprio così. La maggior parte degli americani non si rende conto di quanto sia difficile inserirsi in una società tutt'altro che aperta qual è quella statunitense, soprattutto al di fuori delle grandi città. Oggi come ieri le condizioni di lavoro sono estremamente dure e il fatto di avere un aspetto «diverso» suscita pregiudizi inattesi. E a chi mi chiede se le cose sono cambiate rispetto all'epoca che ho descritto nei miei primi due romanzi, rispondo che no, nel fondo la situazione è rimasta molto simile. 

giovedì 7 giugno 2012

Insolito romano

Ho fatto pochissime foto, in questi giorni romani. Ero troppo impegnata a passeggiare, chiacchierare, mangiare. Puntualmente ci ripensavo dopo: "Ma perché non ho fotografato Julie (a proposito, il testo che vi segnalavo ieri si trova ora per intero sul sito del festival. Naturalmente senza il nome della traduttrice) sul palco di Massenzio? Ma perché non ho fotografato la magistrale carbonara di Giusi Meister?

Però ho fotografato alcune cose insolite, che forse i turisti che invadono Roma (c'erano tanti americani che mi sembrava di essere tornata a San Francisco. Ma senza nebbia, grazie al cielo) non notano. Eccole qui.


Il quartiere Coppedè. Grazie ad Andrea Rényi che ci ha portati a visitarlo

La casa di Beniamino Gigli nel quartiere Coppedè.

I pappagalli di villa Torlonia: un gemellaggio Roma-San Francisco

Trastevere

mercoledì 6 giugno 2012

Julie Otsuka e i nomi scomparsi

Foto da qui
La Stampa ha pubblicato un estratto dal brano inedito letto ieri sera a Massenzio da Julie Otsuka. Lo trovate qui. Gli hanno dato il titolo "Mamma non ricorda come si chiama". Come sottotitolo potevano aggiungere "E il giornalista non ricorda come si chiama la traduttrice".

Se poi volete ascoltare il podcast dell'intervista a Fahrenheit (in cui invece si cita anche la traduttrice), lo trovate qui.

E infine, qui trovate il post di Biblioteca giapponese con il video del reading e la trascrizione dell'intero testo in italiano.


martedì 5 giugno 2012

Julie Otsuka a Massenzio

Non vedo l'ora. Oggi a Roma c'è un sole bellissimo, stasera Massenzio sarà una meraviglia. Se volete rivedere un paio dei miei post su Julie Otsuka, date un'occhiata QUI e QUI.



sabato 2 giugno 2012

Storia parziale delle cause perse


Per qualche giorno sarò lontana da internet. Vi lascio con una barzelletta russa.
 
«Allora, c’è Stalin che appare in sogno a Putin» disse Viktor. «Putin, gli fa Stalin. Per mantenere il potere devi fare due cose: dipingere il Cremlino di verde e uccidere tutti i tuoi avversari politici. Putin lo guarda e gli risponde: perché di verde?»

La trovate nel libro Storia parziale delle cause perse, di Jennifer DuBois, appena uscito per Mondadori e tradotto da me.



venerdì 1 giugno 2012

Una riflessione sulla distanza

Non parlo dei miei problemi personali sul blog. Non ho parlato neppure del terremoto, perché non la considero la sede adatta, perché non l'ho vissuto, e perché preferisco rispettare i sentimenti di chi ne è stato colpito evitando di esprimere i pensieri necessariamente banali di chi le cose le ha lette solo sul giornale.

Detto questo, però, una riflessione personale ce l'avrei. Mi girava in testa da un po', dal giorno del secondo terremoto, quando ho cominciato a chiedermi perché, fra tutti nostri numerosi amici americani, solo tre avessero espresso preccupazione e interesse per quello che stava succedendo in Italia. E pensare che era su tutti i giornali. Certo, l'Italia è la periferia della periferia dell'impero, però quando si tratta di andarci in vacanza, pensavo, mentre la delusione lasciava il posto a un profondo fastidio, tutti prendono un'espressione beata e pronunciano le magiche parole: "Florence... Rome... Venice... oh, I LOVE Italy!"

Vero, quelle che per noi sono cose di fondamentale importanza, avvenimenti gioiosi o tragici che ci toccano da vicino, spesso vengono rese totalmente irrilevanti dalla distanza. È una distorsione dovuta alla diversa prospettiva, mi ripeto. E poi probabilmente hanno visto che il terremoto era lontano da me e non si sono preoccupati. O magari non l'hanno neppure letto sul giornale. Perciò non dovrei prendermela se una sola amica americana mi ha scritto per chiedermi notizie. Non dovrei, però l'amarezza rimane. Perché quel posto, quella gente, sono belli ma sono anche irrimediabilmente lontani. È così, nessuno può farci niente. E magari te ne accorgi solo in momenti come questo, momenti che ingrandiscono le distanze, ingigantiscono le differenze. E allora mi viene da pensare che oggi, con tutti i problemi che ci sono qui, con tutta la mia rabbia nei confronti di una certa Italia che tutti conosciamo, oggi preferisco stare in un posto dove la gente assomiglia a me. Dove la gente vive sulla sua pelle i problemi di questa terra, e non la considera solo un parco dei divertimenti dove andare in vacanza.
Probabilmente domani cambierò idea. Ma oggi preferisco stare qui.

Uccelli di lago/2

Dopo cormorani e anatre, ecco alcuni altri uccelli lacustri sorpresi nel loro habitat naturale, l'acqua sporca.


I tenerissimi cignetti pelosi, che oggi sono già adolescenti. Sempre grigiolini, goffi e pelosi.



Tre piccoli di folaga, con la caratteristica testina rossa spelacchiata

Folaga che fa yoga (vi consiglio di ingrandirla per vederla bene)