mercoledì 31 agosto 2011

"Is That a Fish in Your Ear?" An irreverent survey of translation theory

Being obsessed, as I am these days, by The Hitchhiker's Guide to the Galaxy, I was immediately attracted by the title of this book, which, for the ones who haven't read Douglas Adams' masterpiece, refers to the Babel Fish, an amazing creature that performs instant translations.

The book, just about to be published by Penguin, is written by David Bellos, an English-born translator and biographer who teaches French and Italian and Comparative literature at Princeton University.

Wikipedia calls it "an irreverent survey of translation theory", and this is probably enough to make it interesting. 

The synopsis seems also promising: " (...) Is That a Fish in Your Ear? ranges across the whole of human experience, from foreign films to philosophy, to show why translation is at the heart of what we do and who we are. What's the difference between translating unprepared natural speech, and translating Madame Bovary? How do you translate a joke? What's the difference between a native tongue and a learned one? Can you translate between any pair of languages, or only between some? What really goes on when world leaders speak at the UN? Can machines ever replace human translators, and if not, why? (...)"

And finally, this delightful video where Bellos himself introduces his book made me definitively want to buy it. Enjoy!

martedì 30 agosto 2011

"Forget it, Jake. It's Chinatown." (Ancora sui ristoranti cinesi)


Prendo spunto dall'ultima battuta di Chinatown per spiegare il mio attuale atteggiamento nei confronti dei ristoranti del quartiere cinese.

Il post di ieri ha suscitato un po' di curiosità, e se riguardo alla Dragon Dance vorrei documentarmi meglio prima di rispondere, sui ristoranti cinesi posso sempre raccontarvi la mia esperienza. 

Arrivata a San Francisco con l'esperienza dei ristoranti cinesi che in genere si fa in Italia, dove, a parte alcuni casi fortunati, "cucina cinese" equivale a pietanze tutte uguali precotte in scatola, ho sempre storto il naso all'idea di provare un ristorante cinese locale. Certo, ogni tanto mi è capitato, e anche se qui è più facile che i piatti siano effettivamente cucinati, anziché tirati fuori dalla scatoletta e riscaldati, non ho mai avuto esperienze esaltanti.

Qualche mese fa, però, mentre eravamo in visita a New York, la nostra amica Cheryl Tan, una giornalista e scrittrice originaria di Singapore che scrive di cibo e se ne intende assai, ci ha portati in un ristorante che ha cambiato la mia idea della cucina cinese. Si chiama The Grand Sichuan, fa cucina, appunto, del Sichuan, ed è un ristorante strepitoso, completamente diverso dalla cucina cinese standard che si trova più spesso nei ristoranti. Di recente, poi, ho anche avuto la fortuna di mangiare cucina cinese fatta in casa da un'amica cinese, e naturalmente l'ho trovata buonissima.

Incoraggiata da queste esperienze ho deciso di ignorare il luogo comune secondo cui a San Francisco, malgrado la città ospiti la più grande e la più antica Chinatown al di fuori dell'Asia, non esistono buoni ristoranti cinesi (e lasciate perdere The House of Nanking: lo consigliano tutte le guide, c'è sempre la fila fuori ed è pessimo). E così, quando ho notato un ristorante con cucina del Sichuan, ho deciso di provarlo. Il risultato è stato il solito piatto di verdure bollite e gamberetti per me (non c'era nient'altro che non fosse superpiccante o a base di carne - che in genere non mangio - o rane), e per Jonathon una ciotola stracolma di olio e peperoncino dove era stata cotta della carne di manzo (?). Il tutto corredato da un piccolo ramaiolo con il quale estrarre i pezzi di carne dall'olio in cui erano stati bolliti (o fritti? Come si chiamerà  un tipo di cottura che prevede la stufatura della carne immersa nell'olio?). Ho trovato online una foto che ci somiglia, ma nella ciotola di Jonathon (che ha mangiato tutto con gusto) c'era più olio.

domenica 28 agosto 2011

Il tragitto casa-lavoro: una passeggiata per Chinatown

Suonatore di erhu, strumento a due corde cinese
Una delle cose piacevoli del mio nuovo lavoro è il fatto che da casa mia all'Istituto Italiano Scuola, la scuola di lingua dell'Istituto Italiano di Cultura dove insegno, c'è una passeggiata di dieci minuti (al ritorno almeno quindici, per via della salita). 

La passeggiata passa per Chinatown e arriva a North Beach, il quartiere italiano dove ovviamente si trova l'Istituto. Chinatown è un quartiere affascinante, anche se non proprio uno dei miei preferiti. Tanto per cominciare, c'è da fare lo slalom fra i numerosi centenari (la popolazione cinese ha un tasso di longevità impressionante. Merito della dieta, dicono) che ti intralciano il passo con la loro camminata lentissima. Poi ci sono gli altrettanto numerosi ottantenni (e settantenni, sessantenni eccetera) che ti spintonano brutalmente se tu intralci il passo a loro. E mentre cerco di chiudere le orecchie all'onnipresente concerto di sputi, devo anche chiudere gli occhi davanti alle cassette di tartarughe squartate in vendita nelle pescherie.

Prima che le squartino
Graffiti a Chinatown
Anche Chinatown ha i suoi lati positivi. Uno è la mia bella biblioteca, di cui parlerò presto. Un altro sono i negozi pieni di merce misteriosa e affascinante (escludendo la roba semiillegale e disgustosa come tartarughe, rane e pinne di pescecane). E poi c'è sempre qualche sorpresa, come sentire le note dell'opera cinese (avete presente la colonna sonora di Lanterne rosse?) uscire da uno scantinato in un vicolo buio, dove la sera la gente si raduna per ascoltare la musica.

sabato 27 agosto 2011

A book I loved to translate: "The Buddha in the Attic", by Julie Otsuka

Dorothea Lange, Japanese Internment Camp
I will write about it often in the next months, when my translation of this wonderful books comes out in Italy.

Now it's coming out in the US, and I want to share this great "New York Times" review which, I think, captures well the beauty of this little gem of a book.

"(...) The voice that speaks to us here is the 'we' of the Japanese women who arrived in California in the aftermath of World War I, most of them young and inexperienced, most bearing photographs of men they had agreed to marry, sight unseen: 'On the boat we could not have known that when we first saw our husbands we would have no idea who they were. That the crowd of men in knit caps and shabby black coats waiting for us down below on the dock would bear no resemblance to the handsome young men in the photographs. That the photographs we had been sent were 20 years old. . . . That when we first heard our names being called out across the water one of us would cover her eyes and turn away — I want to go home — but the rest of us would lower our heads and smooth down the skirts of our kimonos and walk down the gangplank and step out into the still warm day. This is America, we would say to ourselves, there is no need to worry. And we would be wrong.'

You can read the whole article HERE.

venerdì 26 agosto 2011

"L'isola più lontana": Jonathan Franzen su David Foster Wallace

  
Lo trovate sul numero di Internazionale in edicola oggi (n. 912, 26 agosto/1 settembre 2011): l'articolo di Jonathan Franzen - tradotto da me - L’isola più lontana

Il pezzo, uscito in origine sul New Yorker lo scorso aprile, con il titolo Farther away, parla dell'isola di Masafuera, di Robinson Crusoe, della nascita del romanzo, del rayadito di Masafuera e delle ceneri di David Foster Wallace.

giovedì 25 agosto 2011

Piccoli terremoti

Il primo è stato un paio d'anni fa. Ero da Whole Foods, e stavo passando per la corsia degli integratori alimentari quando d'un tratto i flaconi pieni di vitamine, echinacea e artiglio del diavolo cominciarono a vibrare con un sinistro rumore di maracas. Era il mio primo terremoto, ma quando mi girai terrorizzata per farmi confortare da Jonathon mi trovai di fronte a un'espressione indifferente e a un'alzata di spalle. Ancora più frustrante fu accorgermi che i commessi ridacchiavano e scommettevano sulla magnitudo del terremoto. Resto convinta che si tratti di una posa che la gente assume per farsi coraggio e poter continuare a vivere in una città ad alto rischio sismico, ma devo confessare che avrei preferito ricevere qualche manifestazione di simpatia in più nel giorno del mio primo terremoto.

Ieri la terra ha tremato in Virginia, e il sisma si è avvertito distintamente a New York e lungo la costa est, fino al Canada. Strano, ho pensato, finché non ho scoperto che la Virginia è in realtà una zona sismica. I terremoti che la colpiscono, però, di solito non sono forti come questo, che è stato il secondo più forte mai verificatosi in quella zona. Il giorno prima, lunedì, c'era stato un altro terremoto in una zona insolita, il sud del Colorado.

Ieri sera eravamo a cena a casa di amici a Berkeley, e verso le undici e mezza abbiamo sentito due tonfi. Tump. Tump. Non proprio un tremito, quanto piuttosto la netta sensazione che King Kong stesse camminando per le strade del quartiere. Gli amici hanno reagito in modo un po' meno cool dei commessi di Whole Foods, e mentre ci riaccompagnavano a casa in macchina hanno notevolmente aumentato la velocità sul Bay Bridge: un ponte non è proprio il posto migliore dove trovarsi in caso di terremoto. Le due scosse erano di magnitudo 3.6 e 2.3 (la seconda tecnicamente detta microscossa, perché non ha raggiunto i 3 gradi).

Questa mattina verso le 10 un'altra, sempre di magnitudo 3.6, mentre facevo la doccia. Altro posto non proprio ideale dove trovarsi durante un terremoto. Ma d'altronde ci sono un sacco di posti non ideali dove trovarsi durante un terremoto. A cominciare, naturalmente, da quello dove si sta verificando il terremoto.

lunedì 22 agosto 2011

Susan Bernofsky's 11 rules for translators

The Babel Fish
This interesting article was published a few weeks ago on the blog Arabic Literature (in English), which has many great posts about translation. 

Susan Bernofsky is one of the best translators from German into English, and writes about translation in her blog Translationista. I was curious to know what her 11 rules for translators might be, and if I agreed with them. The answer is mostly yes. How could I not! So here they are, with my comments, written from the point of view of a full-time literary translator from English into Italian:



1. Always be a writer while you are translating, and every time you forget, bring yourself back to it.
[I love this one. Translators do have a personality, and they don't have to be completely invisible. They just should have a good instinct for balance, and shouldn't have too big of an ego. (But then, no one should have too big of an ego.)]

2. The most important thing about the structure of a sentence is the order in which the bits of information arrive.
[Very important. But this applies more to the writer, I think. If I follow his/her structure, I should be safe.]

3. If the original text is not well-written, you are doomed; feel free to despair.
[This is strictly connected to rule n.1.When the translator is a better writer then the writer he/she is translating, it can be extremely frustrating. It's okay to keep your ego at bay, but this is too much!]

4. If the original is well-written, make sure you understand exactly what’s good about it, i.e. what constitutes this writer’s characteristic style.  Getting the tone right is key.
[Yes!]

5. Get up from your computer at least once every hour to stretch and walk around.  Translating in a stupor isn’t going to work out to anyone’s satisfaction.
[Mmm... and what about vacations? Get away from your computer at least once a... month? A year?]

6. The most important reference work you can own is a Roget’s International Thesaurus.  Indexed, not in dictionary form.  Yes, it does make a difference.  And no, there is no dictionary of synonyms available online that can hold a candle to a good Roget’s.
[Indispensable for translators into English. Translators from English will have to make do with a good thesaurus in their own language.]

7. No, it’s not good enough yet, keep revising.
[I know it's not good enough, I'll tell the publisher I need more time and more money.]

8. I can’t believe you’re asking again already.  Revise some more.
[The publisher said no already.]

9. Read everything you translate aloud, preferably to a bookloving listener who can be trusted to furrow a brow when a phrase is off.
[I used to do this at the beginning. Now I'm more confident and I think I can do without it.  Especially because I very soon ran out of bookloving people willing to listen to everything I translate.]

10. Read lots and lots of gorgeous books at all times so that your head will constantly be filled with the cadences of literary greatness.
[Oh, yes, this is fun!]

11. Remember that no matter what hard work it is, translating is supposed to be fun; if you consistently find yourself not having fun while translating, why don’t you try something else that you might actually make some money at?
[Like what? I still have to find it...]

sabato 20 agosto 2011

Una delle cose che mi piacciono di questo paese (aggiornamento sulla campagna Kickstarter di Christian Erroi)

Christian Erroi ce l'ha fatta. È riuscito a raccogliere 18.000 dollari (di più, anzi: 18.453) per finanziare il suo progetto, di cui ho parlato qui

Kickstarter ha funzionato, insomma. Ma una cosa come Kickstarter può funzionare in un paese come questo, dove all'arte e agli artisti si riconosce un ruolo importante nella società. Dove quello dell'artista è considerato un mestiere che come tale viene rispettato, e non una chiamata mistica che solo pochi (e più facilmente ricchi di famiglia e senza una preoccupazione al mondo) possono seguire. Qui artisti non solo si nasce, ma anche si diventa. Ricordo il mio stupore quando per la prima volta un'amica americana mi disse: "Voglio diventare un'artista". Ero sempre stata abituata a pensare al talento come un misterioso dono del cielo, e quel verbo diventare, associato alla parola artista, mi sembrava incongruo. 
Certo, gli Stati Uniti sono ben lungi dall'essere la terra delle pari opportunità, eppure per un artista vivere e lavorare qui è un po' più facile. Trova possibilità di lavorare, di crescere, di sentirsi apprezzato e rispettato. E trova persone che apprezzano e rispettano la sua voglia di lavorare e di crescere. Persone come i 53 sostenitori che in circa un mese hanno raccolto 18.453 dollari per finanziare il progetto di Christian.

(P.S. Consiglio vivamente la lettura del commento di Sandro Del Rosario, qui sotto.)

giovedì 18 agosto 2011

Postcards from San Francisco: Spring/Summer

Presidio Heights, April 2011

Golden Gate Bridge through the window of a Golden Gate Transit bus, August 2011

venerdì 12 agosto 2011

In the mood for poetry: Philip Levine

Philip Levine, "known for his emphasis on the voice of the ordinary workingman and the industrial heartland" (as Dwight Garner writes on the NYT), is the new Poet Laureate of America.

And, according to the NYT, "Americans are rushing to read poetry". "One day after Philip Levine was named the next poet laureate, his books have quickly sold out (...) making it nearly impossible to immediately acquire copies of some collections of his poems. On the Amazon.com 'Movers and Shakers' list, which tracks books that are growing the most quickly in popularity, two by Mr. Levine were at the top of the list: 'What Work Is', a collection of poems that won a National Book Award, and 'The Simple Truth', a collection that won a Pulitzer Prize".

Here's one of my favourite poems of his.

The Simple Truth

I bought a dollar and a half's worth of small red potatoes,
took them home, boiled them in their jackets
and ate them for dinner with a little butter and salt.

Then I walked through the dried fields
on the edge of town. In middle June the light
hung on in the dark furrows at my feet,
and in the mountain oaks overhead the birds
were gathering for the night, the jays and mockers
squawking back and forth, the finches still darting
into the dusty light. The woman who sold me
the potatoes was from Poland; she was someone
out of my childhood in a pink spangled sweater and sunglasses
praising the perfection of all her fruits and vegetables
at the road-side stand and urging me to taste
even the pale, raw sweet corn trucked all the way,
she swore, from New Jersey. "Eat, eat" she said,
"Even if you don't I'll say you did."
Some things
you know all your life. They are so simple and true
they must be said without elegance, meter and rhyme,

they must be laid on the table beside the salt shaker,
the glass of water, the absence of light gathering
in the shadows of picture frames, they must be
naked and alone, they must stand for themselves.
My friend Henri and I arrived at this together in 1965
before I went away, before he began to kill himself,
and the two of us to betray our love. Can you taste
what I'm saying? It is onions or potatoes, a pinch
of simple salt, the wealth of melting butter, it is obvious,
it stays in the back of your throat like a truth
you never uttered because the time was always wrong,
it stays there for the rest of your life, unspoken,
made of that dirt we call earth, the metal we call salt,
in a form we have no words for, and you live on it. 


And here's another one:

The Fox

I think I must have lived
Once before, not as a man or woman
But as a small, quick fox pursued
Through fields of grass and grain
By ladies and gentlement on horseback.
This would explain my nose
And the small dark tufts of hair
That rise from the base of my spine.
It would explain why I am
So seldom invited out to dinner
And when I am I am never
Invited back. It would explain
My loathing for those on horseback
In Central Park and how I can
So easily curse them and challenge
The men to fight and why no matter
How big they are or how young
They refuse to dismount,
For at such times, rock in hand,
I must seem demented.
My anger is sudden and total,
For I am a man to whom anger
Usually comes slowly, spreading
Like a fever along my shoulders
And back and turning my stomach
To a stone, but this fox anger
Is lyrical and complete, as I stand
In the pathway shouting and refusing
To budge, feeling the dignity
Of the small creature menaced
By the many and larger. Yes,
I must have been that unseen fox
Whose breath sears the thick bushes
And whose eyes burn like opals
In the darkness, who humps
And shits gleefully in the horsepath
Softened by moonlight and goes on
Feeling the steady measured beat
Of his fox heart like a wordless
Delicate song, and the quick forepaws
Choosing the way unerringly
And the thick furred body following
While the tail flows upward,
Too beautiful a plume for anyone
Except a creature who must proclaim
Not ever ever ever
To mounted ladies and their gentlemen.


mercoledì 10 agosto 2011

Beautiful Artists/11: Christian Erroi, photographer

I was planning to write a post on Christian Erroi, sooner or later, but since he has an ongoing Kickstarter campaign, I figured that sooner is better than later.

Christian as an amazing and quite accomplished photographer, who decided to pursue his dream to begin a Master of Fine Arts degree at the International Center of Photography/Bard program. And the goal of the Kickstarter campaign is to help him fulfil his dream. You can back the project with a minimum pledge of 10 $, and you'll pay only if the total sum is collected.

Here is part of what he writes about his art:
"My project revolves around the brain and vision because I’ve had a lifetime of obstacles related to them. Over the years, I’ve had numerous strokes, which caused me great neurological harm. I am now legally blind, and reading and writing are arduously slow, so university study is a particularly ambitious challenge for me.
My photographic vocabulary is from nature, as I grew up in extremely beautiful places where plants and weather seem to determine everything in life. I have seen now that the earth and all of its systems provide me with a kind of universal language I can employ to communicate my ideas with a great number of people without needing to write or speak. (...)
If you are able, please help me to realize my promise as an artist, educator and a worker forming my project through the studies offered at ICP/Bard. If I accomplish this, I plan to share what I have learned with many others whose climb is a steep one. You may be assured that you will be transforming more lives than just mine through your generosity.
In return, I offer a variety of thank you gifts, in the form of current and recent works of art, and a visit to my studio for a memorable espresso, and then an opportunity to choose a work for yourself and no one else."

You can see some of his works on his website and visit his Kickstarter page here. And please, enjoy this beautiful video.







lunedì 8 agosto 2011

L'impasto della cherry pie: la ricetta definitiva

Dopo aver pubblicato la ricetta della torta di ciliegie di Nonna Papera, ho ricevuto un'email da Ileana M. Pop, una traduttrice (dal rumeno e dallo spagnolo) che ha anche un bel blog di cucina, Ricotta e zafferano. Ileana aveva sperimentato la ricetta, ma se il ripieno di ciliegie le era venuto squisito, altrettanto non si poteva dire dell'impasto, decisamente troppo burroso e sbrisolone.

A questo punto sono partita alla ricerca di una ricetta migliore per la pasta della pie (per il ripieno fate pure riferimento a quella riportata qui, che va benone. Prossimamente pubblicherò anche la ricetta del ripieno per la torta di mele).

Ho cominciato a chiedere in giro, e raccogliendo informazioni da amiche e studentesse ho scoperto che per fare la pasta della pie, si usa spesso un ingrediente che in Italia non esiste: il Crisco, quello che qui chiamano shortening, o "grasso alimentare". In pratica, nelle ricette che ho sentito non è mai previsto l'uso di solo burro, bensì una parte di burro e una parte di Crisco. E con cosa si può sostituire, il Crisco? Con strutto o margarina. Le mie consulenti hanno arricciato il naso davanti a entrambe le soluzioni, perché lo strutto finirebbe per dare un sapore troppo marcato all'impasto, mentre la margarina viene considerata troppo "chimica" (non che questo Crisco mi sembri proprio ultragenuino).
Alla fine probabilmente la cosa migliore rimane la margarina, anche perché sembra che possa sostituire in uguale quantità lo shortening, mentre per lo strutto bisognerebbe cambiare le dosi. 


Ciascuna consulente mi ha citato la sua "personale bibbia" culinaria, mitici libri di cucina come il Betty Crocker's Cookbook, The Joy of Cooking e il Fannie Farmer Baking Book di Marion Cunningham. Marion Cunningham non era quella di Happy Days, bensì questa persona reale. Betty Crocker invece non è mai esistita, ma è stata creata a tavolino per incarnare la cuoca perfetta (con quel nome, Betty, scelto perché suonava "caldo e amichevole"), come è spiegato qui.

Tutte queste ricette, però, prevedevano l'uso dello shortening, tranne una: la pasta brisée della (anche lei) mitica Martha Stewart. Eccola.
 
Pasta brisée (ricetta di Martha Stewart, che potete trovare QUI).
(nei paesi anglosassoni gli ingredienti si misurano in tazze, cucchiai e cucchiaini. Ma niente paura: su questo sito trovate le tabelle di conversione)
  • 2 tazze e 1/2 di farina bianca
  • 1 cucchiaino di sale 
  • 1 cucchiaino di zucchero
  • 1 tazza di burro freddo tagliato a cubetti
  • da 1/4 a 1/2 tazza di acqua fredda 
  1. Mescolare la farina, lo zucchero e il sale in una ciotola. Aggiungere il burro e amalgamarli con la farina finché l'impasto non raggiunge la consistenza delle briciole di pane fresco. Aggiungere l'acqua, un po' alla volta, mescolando leggermente con una forchetta dopo ogni aggiunta. Continuare ad aggiungere acqua finché l'impasto non è ben amalgamato.
  2. Formare una palla e appiattirla in un disco. Avvolgere nella pellicola e mettere in frigo per 45 minuti/1 ora.
  3. Per il resto si procede come nella ricetta precedente

La fetta che mi sono mangiata questa mattina per colazione
E per finire, è arrivata anche la ricetta di una collega italiana.  Queste sono le sue dosi. Buon appetito!

  • 200 gr. di farina
  • 100 gr. di burro
  • un pizzico di sale
  • 1 uovo oppure circa 3 cucchiai di acqua

    mercoledì 3 agosto 2011

    San Francisco, agosto

    È una splendida giornata di sole. La luce di questa città è unica, vibra e profuma e frizza, ti abbaglia e ti accarezza. 
    Poi, d'un tratto, le sento. Le fog horns, le sirene della nebbia che cantano la scomparsa del sole. Guardo dalla finestra e il ponte è già sparito. Il muro bianco avanza e offusca la luce, spinto da un vento gelido che trasporta tante minuscole goccioline. Il vento è forte, e il muro bianco corre veloce. I primi ad arrivare sono stracci, brandelli, veli di vapore. Veloci, veloci, proprio sopra la mia testa. E poi il muro. Le sirene continuano a cantare per tutta la notte. Domani si ricomincia.


    lunedì 1 agosto 2011

    The Forgetting Stone: Mariko Nagai's beautiful essay on the tsunami in Japan

    Houses built on hills will bring peace to the children and grandchildren
    With the thought of devastation of the great tsunami,
    Remember never to build houses below this marker
    Both in Meiji 29 and Showa 8, the waves came to this very point
    And the entire village was destroyed; only two survived in Meiji 29, and four in Showa 8
    No matter how many years may pass, do not forget this warning.
    — A stone table
    (from Mariko Nagai's essay, The Forgetting Stone)



    A stone tablet warns of the height of a historic tsunami in Iwate prefecture; at right, Iwate three months after the quake.
    (Wikmedia Commons; AFP/Getty Images) 
     
    "Go to the mountain when there's an earthquake, no matter how small, the old people used to tell them, the ones who remembered the tsunami from Showa 8, the ones who remembered what the one who remembered the Meiji tsunami said. They did not remember that this coastline has been plagued with the angry waves as long as written words have existed, each devastation chis­eled into stones. It is grief impressed upon the pages and stone tablets that dot the coast of Sanriku area, though the names have changed with time, with the borders shifting along with the new warlords and governments. It is regrets contained in these words, regrets that translate into warnings for the future, for the present. But some had forgotten. So instead, they went home, thinking they have enough time."
    (from The Forgetting Stone, by Mariko Nagai)

    Foreign Policy has recently published an ebook, Tsunami: Japan's Post-Fukushima Future, which contains essays by some of Japan’s leading writers and thinkers about the earthquake and tsunami that hit Japan last March. 

    If you buy it - for just $4.99 - you will support the Japan Society, which will send all the proceeds to tsunami relief efforts on Japan’s northern coast. 
      
    My friend Mariko's beautiful and moving essay is part of the collection, and you can also read it here.