«Non sempre quando si è all'estero si perde la propria lingua madre, tuttavia sono tanti gli aspetti della vecchia vita che mancano: non c'è la quotidianità, mancano le voci dei venditori di strada. Ma soprattutto mancano le persone. Tua madre, la fonte d'amore della tua lingua non c'è. Tutti i tuoi ricordi sono connessi alla lontananza. Ed ecco che a un tratto le parole non ti toccano più, non ti emozionano più. È un grande pericolo. Non importa se succede con la tua lingua madre o un'altra lingua: se le parole smettono di emozionarti, è davvero pericoloso. [...] E qui entra in gioco la collezionista di parole. Un collezionista di parole è un collezionista di emozioni.
Il mio traduttore spagnolo, Miguel Sáenz, dice sempre: Özdamar deve essere tradotta così com'è, ed è riuscito a tradurre i miei libri con successo. Sicuramente anche l'anima del traduttore è molto importante. Si tratta piuttosto di un coautore: io scrivo una musica, il traduttore la ascolta e musica di nuovo il pezzo. Miguel è solito dire che un libro è sempre un'opera non ancora terminata che diventa completa solo grazie alle traduzioni nelle diverse lingue. È verissimo: spesso leggo le mie traduzioni e penso che è proprio così.»
[intervista di Margherita Bettoni a Emine Sevgi Özdamar, autrice di La lingua di mia madre (Palomar 2005, trad. di Silvia Palermo, fuori catalogo), il manifesto, 5.1.2013]