martedì 31 gennaio 2012

Due chiacchiere sull'ebook

L'altro giorno sono stata intervistata da Ferdinando Morgana per il sito ebookgratis.it. L'intervista comincia così:

1) Ciao Silvia, intanto vorrei sapere: qual è il tuo rapporto con gli ebook?
Un rapporto piuttosto pacifico, direi.
Leggi il resto di questo articolo

Se poi siete interessati al rapporto un po' meno pacifico di Jonathan Franzen con gli ebook, leggete QUI.

(Visto che si parla di libri e che pochi giorni fa parlavo di Wim Wenders, invece della mia solita foto con Franzen questa volta scelgo un'inquadratura del meraviglioso film di Wenders che parla di angeli e anche di libri. Magari c'entra poco, ma ricordare quel film fa sempre bene al cuore.)

lunedì 30 gennaio 2012

La lavatrice di Steve Jobs

Dopo il post dell'altro giorno dedicato alle lavatrici, proprio oggi, in uno dei miei affannosi tentativi di rimettermi in pari con i numeri arretrati del "New Yorker", ho trovato un pezzo di Malcolm Gladwell intitolato The Tweaker, dedicato alla famosa biografia di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson

La copertina del New Yorker ha suscitato commenti furiosi ( Jobs era buddista).
Cosa c'entra con le lavatrici? C'entra, c'entra. Verso l'inizio dell'articolo si racconta  di come funzionava la scelta di una nuova lavatrice in casa Jobs (e delle esaltanti discussioni conviviali alla tavola dei Jobs):
"European washing machines, Jobs discovered, used less detergent and less water than their American counterparts, and were easier on the clothes. But they took twice as long to complete a washing cycle. What should the family do? As Jobs explained, 'We spent some time in our family talking about what’s the trade-off we want to make. We ended up talking a lot about design, but also about the values of our family. Did we care most about getting our wash done in an hour versus an hour and a half? Or did we care most about our clothes feeling really soft and lasting longer? Did we care about using a quarter of the water? We spent about two weeks talking about this every night at the dinner table.'"


Il pezzo di Gladwell prosegue, sempre citando dalla biografia, e descrive il famigerato caratteraccio di Jobs:
"Jobs, we learn, was a bully. 'He had the uncanny capacity to know exactly what your weak point is, know what will make you feel small, to make you cringe,' a friend of his tells Isaacson. Jobs gets his girlfriend pregnant, and then denies that the child is his. He parks in handicapped spaces. He screams at subordinates. He cries like a small child when he does not get his way. He gets stopped for driving a hundred miles an hour, honks angrily at the officer for taking too long to write up the ticket, and then resumes his journey at a hundred miles an hour. He sits in a restaurant and sends his food back three times. (...) In the hospital at the end of his life, he runs through sixty-seven nurses before he finds three he likes. 'At one point, the pulmonologist tried to put a mask over his face when he was deeply sedated,' Isaacson writes:
Apple Water (click to enlarge)
'Jobs ripped it off and mumbled that he hated the design and refused to wear it. Though barely able to speak, he ordered them to bring five different options for the mask and he would pick a design he liked. . . . He also hated the oxygen monitor they put on his finger. He told them it was ugly and too complex.'" (...)
"The great accomplishment of Jobs’s life is how effectively he put his idiosyncrasies—his petulance, his narcissism, and his rudeness—in the service of perfection."

C'è poi un'interessante digressione linguistica, dove si parla della creazione del famoso slogan:
"They debated the grammatical issue: If 'different' was supposed to modify the verb 'think,' it should be an adverb, as in 'think differently.' But Jobs insisted that he wanted 'different' to be used as a noun, as in 'think victory' or 'think beauty.' Also, it echoed colloquial use, as in 'think big.' Jobs later explained, 'We discussed whether it was correct before we ran it. It’s grammatical, if you think about what we’re trying to say. It’s not think the same, it’s think different. Think a little different, think a lot different, think different. ‘Think differently’ wouldn’t hit the meaning for me.'"

E infine, qualche parola sul rapporto tra Jobs e Bill Gates:
"Perhaps this is why Bill Gates—of all Jobs’s contemporaries—gave him fits. Gates resisted the romance of perfectionism. Time and again, Isaacson repeatedly asks Jobs about Gates and Jobs cannot resist the gratuitous dig. 'Bill is basically unimaginative,' Jobs tells Isaacson, 'and has never invented anything, which I think is why he’s more comfortable now in philanthropy than technology. He just shamelessly ripped off other people’s ideas.'
After close to six hundred pages, the reader will recognize this as vintage Jobs: equal parts insightful, vicious, and delusional. It’s true that Gates is now more interested in trying to eradicate malaria than in overseeing the next iteration of Word. But this is not evidence of a lack of imagination. Philanthropy on the scale that Gates practices it represents imagination at its grandest. In contrast, Jobs’s vision, brilliant and perfect as it was, was narrow."

domenica 29 gennaio 2012

La banalità del bene, Enrico Deaglio all'Istituto Italiano di Cultura (Italian and English version)

(See below for English version) 

Visto che i "Giusti" sono un tema ricorrente di questo blog, dal Libro dell'ignoto a L'ultimo dei giusti, segnalo con piacere che lunedì sera Enrico Deaglio sarà all'Istituto Italiano di Cultura di San Francisco per presentare il suo bel libro, La banalità del bene
Deaglio ribalta il famoso titolo di Hannah Arendt per raccontare la storia del famoso "giusto" italiano Giorgio Perlasca, che salvò la vita di oltre cinquemila ebrei ungheresi durante la seconda guerra mondiale. La storia di Perlasca è stata resa nota, oltre che dal libro di Deaglio e da altri che trovate elencati qui (ricordo in particolare il graphic novel, Giorgio Perlasca. Un uomo comune, di Sonseri e Bufi), anche dal film TV Perlasca. Un eroe italiano
La storia di Perlasca è quindi ben conosciuta, ma per chi non la ricordasse eccola qui, adattata da Wikipedia.

Giorgio Perlasca
Dopo aver aderito in gioventù al Partito Fascista e aver combattuto come volontario prima in Africa orientale e poi nella guerra civile di Spagna in appoggio alle truppe di Franco, all'inizio della seconda guerra mondiale Perlasca si trovò a lavorare a Budapest come agente per una ditta di Trieste.
L'8 settembre 1943 si rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, e per questo, ricercato dai tedeschi, dovette rifugiarsi nell'ambasciata spagnola. Ottenuto dall'ambasciata un falso passaporto spagnolo, si trasformò in «Jorge Perlasca» e insieme all'ambasciatore Ángel Sanz Briz cominciò a salvare gli ebrei di Budapest, ospitandoli in apposite "case protette" e rilasciando salvacondotti.
Quando, nel novembre 1944, Sanz Briz lasciò l'Ungheria per non dover riconoscere il governo filonazista ungherese, Perlasca decise di restare e spacciarsi come sostituto del console, redigendo di suo pugno la nomina ad ambasciatore con tanto di timbri e carta intestata.
Da quel momento Perlasca si trovò a gestire il "traffico" di migliaia di ebrei, nascosti nell'ambasciata e nelle case protette sparse per la città, unendosi agli sforzi compiuti dal diplomatico svedese Raoul Wallenberg e dal nunzio apostolico Mons. Angelo Rotta. Tra il 1º dicembre 1944 e il 16 gennaio 1945 Perlasca rilasciò migliaia di finti salvacondotti che conferivano la cittadinanza spagnola agli ebrei, arrivando più volte a strappare letteralmente dalle mani delle Croci Frecciate i deportati sui binari delle stazioni ferroviarie. Si calcola che grazie all'opera di Perlasca circa 5.200 ebrei furono salvati dalla deportazione.
Dopo l'entrata a Budapest dell'Armata Rossa, Perlasca dovette abbandonare il suo ruolo di ambasciatore spagnolo, in quanto filo-fascista e perciò ricercato dai sovietici. Tornato in Italia, riprese la sua vita senza troppi clamori. Dai pochi a cui tentò di raccontare la sua vicenda non fu creduto. Soltanto nel 1987, oltre quarant'anni dopo, alcuni ebrei ungheresi residenti in Israele rintracciarono finalmente Perlasca (reputato da molti un cittadino spagnolo) e divulgarono la sua storia di coraggio e solidarietà. Giorgio Perlasca è morto a Padova nel 1992.
Israele gli ha conferito il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni e gli ha dedicato una foresta in cui sono stati piantati 10.000 alberi, a simboleggiare le vite degli ebrei da lui salvati in Ungheria.

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Monday, January 30, 2012, Enrico Deaglio will appear in conversation with Francesco Spagnolo (The Magnes Collection, UC Berkeley), to discuss Deaglio’s book entitled La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca.

The book is a real-life account of Giorgio Perlasca, an Italian who posed as a Spanish Charge d'Affairs in Budapest during World War II and tricked the Nazis in order to save the lives of 5,000 Jews. Deaglio's book has been translated into English by Gregory Conti, with the title The banality of Goodness

From the publisher's page:
"In this incredible true story, Enrico Deaglio dramatically recounts the courageous efforts of Giorgio Perlasca, who, by posing as a Spanish consul, saved the lives of thousands of Hungarian Jews in World War II. This deeply moving story went unrecognized for nearly half a century until some of the people whom Perlasca had saved, tracked him down and brought this forgotten hero of the Holocaust to the attention of the world. (...)
Giorgio Perlasca was an Italian businessman working in Budapest when the war left him stranded. (...) Perlasca saw his opportunity to help when the official Spanish consul fled Budapest. Although he had no authorization to do so, Perlasca announced that he was the replacement charge d’affaires of the Spanish embassy.
At the risk of his life, he orchestrated an elaborate scheme to save as many lives as he could by issuing false documents, maintaining eight refugee houses, and salvaging anyone he could among those awaiting deportation in the train yards. Even when confronting Adolf Eichmann, the architect of Hitler’s plan, Perlasca did not waver. (...)
When Hannah Arendt wrote about Eichmann in Jerusalem: A Report of the Banality of Evil she shocked public opinion by maintaining that Eichmann’s evil was the expression, not of a monster, but of an ordinary human being. In The Banality of Goodness, Enrico Deaglio shows us that the goodness of the man who opposed Eichmann in Budapest was not the expression of a saint, but that of an ordinary person.
(...)

Enrico Deaglio is one of Italy’s best known journalists. His investigative reports have been published by La Stampa, Il Manifesto, and L’Unità and broadcast on national television. Deaglio is also the author of numerous books including Raccolto Rosso (1993, on the Mafia in Sicily). He is now the editor of a weekly news and cultural affairs magazine, Diario.
Gregory Conti is Reader in English at Facolta di Lettere e Filosofia, Universita di Perugia, Italy. He is a freelance translator with numerous works to his credit."

sabato 28 gennaio 2012

Egli scosse la mano di lui

I traduttori lo conoscono tutti. È un libro molto bello, anche se - appunto - un po' agro, scritto dal grande Luciano Bianciardi, scrittore, giornalista e traduttore (Saul Bellow, Henry Miller, John Steinbeck, William Faulkner, Stephen Crane, Jack London, Tennessee Williams, per citare solo alcuni degli autori da lui tradotti). Sul sito ufficiale a lui dedicato, alla voce Bianciardi traduttore, si legge: "È forse questo il vero Bianciardi? Molte ragioni farebbero dire di sì. È l'attività che lo mantiene, alla quale Bianciardi non rinuncerà mai, anzi quella in cui tutto sommato trova una vera dignità. È la sua grande maestra: di linguaggio, di suggestioni, di valori, di confronti."

Eppure nel suo libro più famoso, La vita agra, del 1962, la vita del traduttore non è proprio descritta in modo da suscitare invidia.

Qui sotto potete vedere un divertente spezzone del film omonimo, diretto da Carlo Lizzani nel 1964, con Ugo Tognazzi come protagonista.


giovedì 26 gennaio 2012

Beautiful Houses/8







Haight-Ashbury 
(Queen Anne Row Houses, 1880-1910 ca.)


(Se volete vederle con una risoluzione migliore, le trovate nel mio set di Flickr dedicato alle foto di San Francisco.)

mercoledì 25 gennaio 2012

125 anni di evoluzione

Prelevo direttamente dal blog Sociological Images:

  "125 years of evolution", but apparently men still haven’t figured out how to use the washing machine.

martedì 24 gennaio 2012

Doppio o trippio?

Licia, l'autrice del blog Terminologia etc. che cito spesso nei miei post, mi segnala alcune chicche sull'argomento di Starbucks e del caffè americano in generale, che ha suscitato interesse e molti commenti un paio di giorni fa. 

Sul blog della Oxford University Press (che fra l'altro è anche la casa editrice che pubblica i libri di mio marito, questo e il prossimo che uscirà) si trova la trascrizione di un interessante dialogo con un importatore di caffè, il quale spiega, fra l'altro che "McDonalds has better coffee [than Starbucks] (...) McDs has won numerous blind tasting competitions and they have cheaper prices. (...) In my opinion the difference between the two is not so much the bean, but the way they roast. [Starbucks uses] mechanized roasters, everything is consistent but not necessarily good. The issue I have is their roasting method, which as most of their detractors would agree on, is far too dark resulting in a burnt taste. Unfortunately many people prefer this approach."

 

E questo, tanto per cominciare, mi fa capire cosa non mi piace in generale del caffè che bevo qui: il sapore di bruciato.
I due proseguono poi parlando del Trenta, la misura extra-large che si può comprare da Starbucks e contiene circa un litro di liquido (circa trenta once, appunto), cioè più di quanto ce ne sta in uno stomaco umano (o in una bottiglia di vino).



Proseguendo nella ricerca, dopo aver scoperto l'esistenza, sempre da Starbucks, di un meraviglioso "espresso trippio", sono arrivata, sempre grazie a Licia, a questo post sull'autorevole Language Log, che ho trovato molto divertente. In particolare vorrei riportare quello che scrive il comico Dave Barry sulla questione delle misure dei caffè, perché mi ha fatto sbellicare dalle risate:


We begin today with a disturbing escalation in the trend of coffee retailers giving stupid names to cup sizes. As you know, this trend began several years ago when Starbucks (motto: "There's one opening right now in your basement") decided to call its cup sizes "Tall" (meaning "not tall," or ''small"), "Grande" (meaning "medium") and "Venti" (meaning, for all we know, "weasel snot"). Unfortunately, we consumers, like moron sheep, started actually USING these names. Why? If Starbucks decided to call its toilets "AquaSwooshies," would we go along with THAT? Yes! Baaa!
Recently, at the Dallas-Fort Worth International Airport and Death March, Mister Language Person noticed that a Starbuck's competitor, Seattle's Best Coffee (which also uses "Tall" for small and "Grande" for medium) is calling ITS large cup size — get ready — "Grande Supremo." Yes. And as Mister Language Person watched in horror, many customers — seemingly intelligent, briefcase-toting adults — actually used this term, as in, "I'll take a Grande Supremo."
Listen, people: You should never, ever have to utter the words "Grande Supremo" unless you are addressing a tribal warlord who is holding you captive and threatening to burn you at the stake. JUST SAY YOU WANT A LARGE COFFEE, PEOPLE. Because if we let the coffee people get away with this, they're not going to stop, and some day, just to get a lousy cup of coffee, you'll hear yourself saying, "I'll have a Mega Grandissimaximo Giganto de Humongo-Rama-Lama-Ding-Dong decaf." And then you will ask for the key to the AquaSwooshie. And when THAT happens, people, the terrorists will have won.

lunedì 23 gennaio 2012

Pina!

Ditta Miranda Jasfi in "Vollmond" in Wim Wenders' "Pina." Copyright Neue Road Movies

Finalmente l'ho visto anch'io. Lo sapevo che mi sarebbe piaciuto, ma è riuscito a sorprendermi lo stesso. Che meraviglia. Che film straordinario. Voglio rivederlo ancora almeno dieci volte.




venerdì 20 gennaio 2012

Bye bye (for now) SOPA/PIPA!


Bene bene, il Congresso ha "indefinitely postponed" il voto sul Protect Intellectual Property Act (PIPA) che doveva tenersi il 24 gennaio. La stessa decisione è stata presa al Senato per lo Stop Online Piracy Act (SOPA) "until there is wider agreement on the legislation".

In attesa della prossima puntata...

High Times in the City/2


Se fumi una sigaretta ti mettono alla gogna, ma ogni strada, ogni angolo di questa città odora di marijuana. E quanto somiglia all'odore delle puzzole! Adesso ho capito perché la chiamano skunk.

giovedì 19 gennaio 2012

Perché i ricchi sono ricchi, secondo gli americani

Secondo un sondaggio pubblicato dal NYT, circa due terzi degli americani - una percentuale in grande crescita - sono convinti che negli Usa esistano "forti conflitti" tra ricchi e poveri
L'articolo, molto interessante, riporta un sondaggio condotto dal Pew Research Center, che sul suo sito pubblica anche la seguente tabella:



Il 46% afferma che i ricchi sono ricchi per nascita o perché conoscono le persone giuste. Secondo il 43% la ricchezza è invece una questione puramente di merito. Secondo voi, se il sondaggio venisse condotto in Italia, quali sarebbero le percentuali? E non spunterebbe fuori anche un'altra voce, tipo "... perché si sono arricchiti con metodi illeciti"?

mercoledì 18 gennaio 2012



Have a look at the animated GIF about SOPA on The Oatmeal website.

More info here.

Per la versione italiana del comunicato: Wikipedia Italia

E poi scusate, ma che cacchio di nomi sono, SOPA e PIPA? 


martedì 17 gennaio 2012

Internet Goes on Strike!

L'articolo pubblicato ieri su Rainews24 parla soprattutto di Wikipedia:

Il logo di WikipediaBlackout di Wikipedia contro la legge antipirateria

Washington, 16-01-2012
Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, ha annunciato su Twitter che la versione in inglese dell'enciclopedia online chiuderà per 24 ore, in protesta contro la proposta di legge antipirateria all'esame del Congresso americano, conosciuta come Sopa (Stop online piracy act).
Anche Google e Facebook potrebbero oscurare i propri siti come forma di protesta. Il blackout deciso da Wikipedia, che dovrebbe durare 24 ore a partire dalla mezzanotte di mercoledì 18, ha già avuto l'adesione di siti come Reddit e Boing Boing.

Rupert Murdoch, il magnate di NewsCo, ha difeso la Sopa e ha puntato il dito contro Barack Obama, contrario. Il provvedimento limiterebbe, secondo la Casa Bianca, "la libertà di espressione". "Così Obama ha gettato tutto il suo peso sui padroni si Silicon Valley che minacciano tutti i creatori di software con la pirateria, un semplice furto", ha scritto Murdoch su Twitter, chiamando a raccolta i giganti del software come Microsoft, le 'major' di Hollywood (la "20th Century Fox" fa parte del suo gruppo) e le case discografiche.

Contro la proposta di legge, lo scorso mese hanno scrito al governo Usa una lettera. Tra i firmatari i fondatori di Netscape, Google, Twitter, Yahoo, YouTube, eBay, e Wikipedia. Se il provvedimento passasse, affermano, "darebbe al governo americano il potere di censurare il web ricorrendo alle stesse tecniche impiegate da Cina e Iran".
La Casa Bianca aveva chiarito che "mentre crediamo che la pirateria online dai siti stranieri rappresenti un grave problema che richiede una seria risposta legislativa, non sosterremo una legislazione che riduca la libertà di espressione, aumenti i rischi per la cyber-sicurezza, o blocchi la dinamiche e le innovazioni globali di Internet. Ogni sforzo per combattere la pirateria online deve considerare anche il rischio della censura online su attività legali e non deve fermate l'innovazione delle nostre società dinamiche, grandi e piccole che siano".

In realtà la protesta è molto più vasta. Ecco qui il sito dello sciopero:





On January 18th, 2012 the internet is going on strike to stop the web censorship bills in Congress! Now is our moment— we need you to do everything you can, whether you have a website or not.



January 18th is going to be amazing. Sites are striking in all different ways, but they are united by this: do the biggest thing you possibly can, and drive contacts to Congress. Put this on your site or automate it by putting this JS into your header, which will start the blackout at 8AM EST and end at 8PM EST.


Websites: How to Strike


  1. Black out your website for 12 hours with this page's HTML, or by putting this Javascript into your site's theme. Tucows is doing this and so is BoingBoing.
  2. Other people have made tools to strike. Some other ways to strike:
  3. Don't be silent that day. Tweet all day from your official company account (#SOPASTRIKE) and share news on sites like reddit. You will get much love in return from your users, and the bigger the action you do, the more love you will be feeling :) - You can follow us on twitter for news as the strike gets closer. If you are really feeling shy, you can blackout your site logo / add STOP SOPA messages wherever you can.

Everyone: Prepare to Strike


  1. If you have a Twitter account, tweet about the #SOPASTRIKE and ask your followers to get ready. You can follow us on twitter for news as the strike gets closer. Go to Blackout SOPA to add ‘STOP SOPA’ to your Twitter image.
  2. Post this SOPA Strike page to your Facebook account by clicking here.
  3. Get ready for January 18th! Email and tweet at your friends, tell them to tell everyone about the strike. When the day comes, call Congress, tweet like crazy (#SOPASTRIKE), and help the strike appear everywhere!
On Jan 24th, Congress will vote to pass internet censorship in the Senate, even though the vast majority of Americans are opposed. We need to kill the bill - PIPA in the Senate and SOPA in the House - to protect our rights to free speech, privacy, and prosperity. We need internet companies to follow Reddit's lead and stand up for the web, as we internet users are doing every day.

lunedì 16 gennaio 2012

Una traduzione straordinaria: il Salinger di Carlo Fruttero

Ieri, giorno della scomparsa di Carlo Fruttero, ho pubblicato un link a questo mio post dell'ottobre scorso, in cui scrivevo che la traduzione di Fruttero dei Nove racconti di Salinger (Einaudi, 1962) è un capolavoro.
Così ho pensato di farvi un regalo e pubblicare qui uno di quei racconti perfetti, nella perfetta traduzione di Carlo Fruttero.
Buona lettura.

Un giorno ideale per i pescibanana
 
di J.D. Salinger [ da Nove Racconti ]

Nell’albergo c’erano novantasette agenti pubblicitari di New York e tenevano le linee interurbane talmente monopolizzate che la ragazza del 507 dovette attendere la sua chiamata fin quasi alle due e mezzo. Ma non rimase con le mani in mano. Lesse in una rivista femminile un articolo intitolato Il sesso: paradiso… o inferno. Lavò il pettine e la spazzola. Tolse la macchia dalla gonna del tailleur nocciola. Spostò il bottone sulla camicetta di Saks. Strappò due peli da poco spuntati alla superficie del neo. Quando finalmente la centralinista fece il numero della sua stanza, se ne stava seduta nel vano della finestra e aveva quasi finito di laccarsi le unghie della mano sinistra.
Era il tipo di ragazza che non pianta le cose a metà - qualsiasi cosa -per un campanello. Non cambiò espressione, come se quel telefono fosse abituata a sentirlo suonare ininterrottamente fin dalla pubertà.
Mentre gli squilli continuavano, passò il pennellino sull’unghia del mignolo, accentuando la curva della lunetta. Poi rimise il tappo al flacone di lacca e, alzandosi, agitò avanti e indietro la mano bagnata, la sinistra. Con quella asciutta raccolse dal sedile nel vano della finestra un portacenere congestionato e se lo portò fino al tavolino da notte, su cui era posato l’apparecchio. Sedette su uno dei due letti gemelli, fatti entrambi, e a questo punto - era il quinto o sesto squillo - alzò il ricevitore.
- Pronto, - disse, tenendo le dita della sinistra ben distese e lontane dalla vestaglia di seta bianca, l’unico indumento che avesse indosso oltre alle pantofole; gli anelli erano in bagno.
- Ci siamo, signora Glass, ho New York in linea, - disse la centralinista.
- Grazie, - disse la ragazza, e fece posto al portacenere sul tavolino da notte.
Dall’apparecchio venne una voce di donna. - Muriel? Sei tu?
La ragazza scostò un poco il ricevitore dall’orecchio. - Sì, mamma. Come stai? - disse.
- Ero in pena da morire. Perché non hai telefonato? Come stai? Stai bene?
- Ho cercato di chiamarti ieri sera e l’altro ieri. Ma qui il telefono…
- Davvero stai bene, Muriel?
La ragazza allargò ancora l’angolo tra il ricevitore e l’orecchio. - Sto benissimo. Fa un gran caldo. Oggi è la giornata più calda che ci sia stata in Florida dal…
- Perché non hai telefonato? Ero in pena da…
- Mamma, senti, c’è bisogno di urlare così? Ti sento benissimo, - disse la ragazza. - Ti ho chiamato due volte, ieri sera. Una volta erano appena passate le…
- L’avevo detto a tuo padre che probabilmente avresti chiamato, ieri sera. Ma lui niente, ha voluto a tutti i costi…Ma stai bene, Muriel? Dimmi la verità.
- Sto benissimo. Fammi il piacere, smettila di farmi sempre la stessa domanda.
- Quando siete arrivati?
- Non so. Mercoledì mattina, presto.
- Chi ha guidato?
- Lui, - disse la ragazza. - E non agitarti. Ha guidato come un angelo. Non avrei mai creduto.
- Ha guidato lui? Muriel, mi avevi dato la tua parola d’ono…
- Mamma, - interruppe la ragazza, - se ti dico che ha guidato come un angelo. Sotto gli ottanta dal principio alla fine, se vuoi saperlo.
- Non ha più fatto quei suoi scherzetti con gli alberi?
- Ti dico che ha guidato come un santo, mamma. Va bene? Gli ho detto di tenersi sempre vicino alla striscia bianca eccetera eccetera, e lui ha capito subito cosa volevo dire, e mi ha preso alla lettera. Cercava addirittura di non guardarli, gli alberi: me ne sono accorta benissimo. A proposito, papà se l’è poi fatta rimettere a posto, la macchina?
- Non ancora. Chiedono quattrocento dollari solo per…
- Mamma, Seymour ha già detto a papà che pagherà lui i danni. Non c’è motivo di…
- Va bene, vedremo. Come si è comportato… in macchina e… insomma.
- Benissimo, - disse la ragazza.
- T’ha ancora chiamata con quell’orribile…
- No. Adesso ne ha trovato un altro.
- E cioè?
- Oh, senti mamma, che te ne importa?
- Va bene, va bene. Mi chiama Miss Puttana Spirituale del 1948, - disse la ragazza, e ridacchiò.
- Non ridere, Muriel. Non c’è proprio niente da ridere. È una cosa spaventosa. Anzi, è un a cosa triste. Quando penso che…
- Mamma, - interruppe la ragazza, - senti una cosa. Ti ricordi di quel libro che mi aveva mandato dalla Germania? Sai, no… quelle poesie in tedesco. Dove diavolo l’ho messo? Mi sono rotta la…
- Ce l’hai sempre.
- Ma sei sicura? - disse la ragazza.
- Sicurissima. Anzi, l’ho io. È nella stanza di Freddy. L’hai lasciato qui e io non avevo più posto nella… Perché? Lo rivuole?
- No. Solo che me ne ha parlato, mentre venivamo qui. Voleva sapere se l’avevo letto.
- Ma è in tedesco!
- Lo so, mamma. Questo non cambia niente, - disse la ragazza, accavallando le gambe. - Si dà il caso che quelle poesie siano state scritte dall’unico grande poeta di questo secolo; così ha detto. Ha detto che avrei dovuto comprarmi una traduzione o… insomma. O se no, dovevo imparare il tedesco, e scusa se è poco.
- Spaventoso. Spaventoso. Proprio una cosa triste, non c’è altra parola. Ieri sera tuo padre diceva…
- Un secondo, mamma, - disse la ragazza. Andò a prendere le sigarette vicino alla finestra, ne accese una, e tornò a sedersi sul letto. - Mamma?-
disse, soffiando fuori il fumo.
- Stammi bene a sentire, adesso, Muriel.
- Ti sento.
- Tuo padre ha parlato col dottor Sivetski.
- Ah! - disse la ragazza.
- Gli ha raccontato tutto. Tutto. Almeno, così dice lui… sai com’è tuo padre. Gli alberi. Il fatto della finestra. Quelle cose atroci che ha detto alla nonna, quando le ha chiesto se aveva dei progetti per le vacanze eterne. Come ha conciato quelle meravigliose fotografie delle Bermude… tutto.
- E allora? - disse la ragazza.
- Allora. Per prima cosa, Sivetski ha detto che l’Esercito non avrebbe mai dovuto dimetterlo dall’ospedale: è stato un vero delitto, parola d’onore. Ha detto chiaramente a tuo padre che c’è il rischio - un rischio grandissimo, dice - che Seymour perda completamente il controllo di se stesso. Parola d’onore.
- C’è uno psichiatra qui all’albergo, - disse la ragazza.
- Chi è? Come si chiama?
- Non lo so. Rieser, un nome così. Pare che sia bravissimo.
- Mai sentito nominare.
- Be’, comunque pare che sia bravissimo.
- Muriel, non prenderla su questo tono, fammi il piacere. Stiamo molto in pensiero per te. Tuo padre voleva telegrafarti di tornare a casa, ieri sera, se vuoi s…
- Per il momento non ho nessuna intenzione di tornare a casa, mamma. E quindi non stare ad agitarti.
- Muriel, parola d’onore. Il dottor Sivetski dice che Seymour può perdere completamente il con…
- Sono appena arrivata, mamma. Sono le prime vacanze che mi prendo in non so quanti anni, e non ho nessuna intenzione di rifare le valige proprio adesso e tornarmene a casa, - disse la ragazza. - E poi comunque non potrei mettermi in viaggio. Mi sono presa una scottatura che non posso neanche muovermi.
- Ti sei presa una brutta scottatura? Ma non hai visto quel flacone di Bronze che t’ho messo nella valigia? L’ho messo subito sotto…
- L’ho visto e l’ho usato. Mi sono scottata lo stesso.
- È terribile. Dove sei scottata?
- Dappertutto, mamma, dappertutto.
- È terribile.
- Non morirò.
- Senti, hai parlato con lo psichiatra?
- Be’, per modo di dire, - disse la ragazza.
- Che cosa ha detto? Dov’era Seymour mentre tu gli parlavi?
- Nella sala belvedere, a suonare il piano. Ha suonato tutte e due le sere, da quando siamo qui.
- E allora? Cosa ti ha detto?
- Oh, niente di speciale. È stato lui ad attaccare discorso. Ero seduta vicino a lui, ieri sera, mentre si giocava a tombola, e lui m’ha chiesto se era mio marito quello che suonava il piano nell’altra stanza. Ho detto di sì, che era lui, e lui m’ha chiesto se Seymour era stato malato o cos’aveva. Allora io gli ho detto…
- Come mai te l’ha chiesto?
- Non lo so, mamma. Probabilmente perché è così pallido e tutto, - disse la ragazza. - Comunque, dopo la tombola lui e sua moglie mi hanno invitata a prendere qualcosa con loro, e io ho accettato. Sua moglie è orrenda. Ti ricordi quell’atroce abito da sera che abbiamo visto nella vetrina di Bonwit? Quello che tu hai detto che per poterlo portare bisognava avere un microscopico…
- Quello verde?
- Ce l’aveva addosso. E avessi visto i fianchi. Continuava a chiedermi se Seymour è parente di Suzanne Glass, sai, quella che ha il negozio a Madison Avenue… la modista.
- Ho capito, ma cosa ti ha detto? Il dottore.
- Oh, niente di speciale, cosa vuoi. Eravamo nel bar, capisci? C’era un chiasso tremendo.
- Sì, ma tu… ma gli hai detto cos’ha cercato di fare con la sedia della nonna?
- No, mamma. Non ho potuto entrare molto nei particolari, - disse la ragazza. - Probabilmente troverò un altro momento per parlargli. Sta seduto al bar dalla mattina alla sera.
- Non ha mica detto che secondo lui c’è il pericolo che possa… insomma… che si metta a fare delle stranezze? Che possa farti del male?
- Non proprio, - disse la ragazza. - Deve avere più dati, mamma. Devono sapere di quand’era bambino… tutte quelle cose lì. Te l’ho detto, quasi non potevamo sentirci, c’era un chiasso dell’altro mondo.
- Bene. Come va il tuo giaccone blu?
- Va ancora. Ho fatto togliere un po’ di imbottitura.
- Come sono i vestiti quest’anno?
- Terribili. Ma molto divertenti. Perfino lustrini… insomma tutto, - disse la ragazza.
- Com’è la stanza?
- Può andare. Ma appena appena. Non siamo riusciti ad avere la stanza che avevamo prima della guerra, - disse la ragazza. - La gente che c’è qui quest’anno è spaventosa. Dovresti vedere che razza di tipi abbiamo vicino a noi in sala da pranzo. Il tavolo accanto al nostro. Da dirsi, ma come ci sono arrivati qui, in camion?
- Cosa vuoi, è così dappertutto. E la gonna a fiori, poi?
- È troppo lunga. Te l’avevo detto che era troppo lunga.
- Muriel, te lo chiedo per l’ultima volta: stai bene?
- Mamma, - disse la ragazza, - per la novantaseiesima volta: sì.
- E non vuoi tornare a casa?
- Mamma, no.
- Tuo padre ha detto ieri sera che sarebbe felicissimo di aiutarti finanziariamente, se vuoi andartene in qualche posto per conto tuo a pensarci sopra. Potresti farti una bella crociera. Secondo noi…
- No, grazie, - disse la ragazza, e disincrociò le gambe. - Mamma, questa telefonata mi sta costando un pa…
- Quando penso che sei rimasta ad aspettare quel ragazzo per tutta la guerra… insomma, no quando penso a quelle mogli che ne facevano di tutti i colori…
- Mamma, - disse la ragazza, - è meglio che smettiamo. Seymour può entrare da un momento all’altro.
- Dov’è?
- Sulla spiaggia.
- Sulla spiaggia? Da solo? E come si comporta sulla spiaggia?
- Mamma, - disse la ragazza, - parli di lui come se fosse pazzo furioso…
- Non ho mai detto questo, Muriel.
- Be’, ma lo pensi. Poveretto, se ne sta lì sdraiato, buono buono. Non si toglie nemmeno l’accappatoio.
- Non si toglie l’accappatoio? E perché?
- E chi lo sa? Sarà perché è così bianco.
- Ma santo cielo, se c’è uno che ha bisogno di sole. Cerca di farglielo capire, no?
- Sai com’è Seymour, - disse la ragazza, e tornò ad accavallare le gambe.- Dice che non vuole che tutti quegli imbecilli vengano a vedere il suo tatuaggio.
- Ma non è mica tatuato! S’è fatto tatuare sotto le armi?
- No, mamma. No, sta’ tranquilla, - disse la ragazza e si alzò. - Senti, ti chiamo io domani, magari.
- Muriel. Stammi bene a sentire.
- Sì, mamma, - disse la ragazza, spostando il peso del corpo sulla gamba destra.
- Se si mette a fare o a dire qualcosa di strano devi chiamarmi immediatamente. Sai cosa voglio dire. Hai capito?
- Io non ho paura di Seymour, mamma.
- Muriel, devi promettermelo.
- Va bene, te lo prometto. Ciao, mamma, - disse la ragazza. - Saluta papà -. E abbassò il ricevitore.

- L’acchiappatoio – disse Sybil Carpenter, che abitava nell’albergo con sua madre. – Dov’è l’acchiappatoio?
- Se lo dici ancora una volta, topino, la mamma impazzisce. Diventa matta. Sta’ ferma, su.
La signora Carpenter stava mettendo dell’olio solare sulle spalle di Sybil, spalmandolo sulle scapole delicate come ali. Sybil era seduta precariamente su un grosso pallone da spiaggia, volta verso l’oceano. Indossava un costume da bagno giallo canarino, a due pezzi, e di uno dei due pezzi non avrebbe, in realtà, avuto bisogno per altri nove o dieci anni.
- Era un comunissimo fazzoletto di seta… da vicino si vedeva benissimo, - disse la donna nella sdraio accanto a quella della signora Carpenter. - Vorrei proprio sapere come se l’era legato. Le dico: un amore.
- Ci credo, - consentì la signora Carpenter. - Sybil, vuoi star ferma, per favore ?
- Che cosa acchiappi se non te lo togli? - disse Sybil.
La signora Carpenter sospirò. - Ecco, - disse. Riavvitò il tappo sul flacone. - Adesso corri a giocare, topino. La mamma va un momento in albergo a prendere un martini con la signora Hubbel. Ti porto l’oliva, eh?
Lasciata libera, Sybil corse fini alla parte piatta e dura della spiaggia, poi cominciò a camminare verso il Chiosco del Pescatore. Fermandosi solo una volta a ficcare il piede dentro un castello di sabbia ormai ridotto in poltiglia, si trovò ben presto fuori dal tratto riservato agli ospiti dell’albergo.
Continuò a camminare per quattro o cinquecento metri e all’improvviso partì di corsa, tagliando obliquamente attraverso la striscia più interna della spiaggia, dove la sabbia era soffice. Si fermò di colpo quando raggiunse il punto in cui un giovanotto se ne stava sdraiato sul dorso.
- Che cosa acchiappi se non te lo togli? - disse.
Il giovanotto sussultò, chiudendosi con la destra i risvolti dell’accappatoio di spugna. Si rivoltò sullo stomaco, lasciando cadere un asciugamano arrotolato che gli copriva gli occhi, e alzò lo sguardo su Sybil, ammiccando.
- Ehi! Ciao, Sybil.
- Non te lo togli?
- Stavo aspettando te, - disse il giovanotto. - Novità?
- Come? - disse Sybil.
- Che novità ci sono? Che c’è in programma?
- Il mio papà arriva domani col nareoplano, disse Sybil, scalciando nella sabbia.
- Non in faccia, Sybil, - disse il giovanotto, chiudendo la mano intorno alla caviglia di Sybil. - Be’, era ora che arrivasse, il tuo papà. Sai che lo aspettavo con impazienza. Con viva impazienza.
- Dov’è la signora? - disse Sybil.
- La signora? - Il giovanotto si tolse un po’ di sabbia dai capelli radi. - Difficile dirlo, Sybil. Ci sono mille posti in cui potrebbe essere. Dal parrucchiere. A farsi tingere i capelli di un bel visone. O a fabbricare delle bambole per i bambini poveri, in camera sua -. Tornando a sdraiarsi, ma questa volta sul ventre, il giovanotto chiuse le due mani a pugno, le mise una sopra l’altra, e appoggiò il mento su questo sostegno. - Domandami qualche altra cosa, Sybil, - disse. – È bello quel costume che hai addosso, sai? Se c’è una cosa che mi piace, è un costume da bagno blu.
Sybil lo guardò a occhi sgranati, poi si contemplò lo stomaco sporgente. - Questo è un giallo, - disse. - Questo è un giallo.
- Ah sì? Vieni un po’ più vicina.
Sybil fece un passo avanti.
- Hai proprio ragione. Ma guarda che stupido sono.
- Non ci vai nell’acqua? - disse Sybil.
- Ci sto pensando seriamente. Sto considerando la cosa con molta serietà, Sybil, se questo può farti piacere.
Sybil tastò col piede il materassino di gomma che qualche volta il giovanotto usava per appoggiare la testa. - Gli manca aria, - disse.
- Hai ragione. Gli manca più aria di quanto io sia disposto ad ammettere -. Tolse i due pugni di sotto il mento, che lasciò ricadere sulla sabbia. - Sybil, - disse, - sei proprio in forma. È un piacere vederti. Perché non mi parli un po’ di te? - Protese le mani davanti a sé e le strinse attorno alle caviglie di Sybil. - Io sono del Capricorno, - disse. - E tu cosa sei?
- Sharon Lipschutz dice che l’hai lasciata sedere sullo sgabello del piano vicino a te, - disse Sybil.
- Sharon Lipschutz ha detto questo?
Sybil annuì vigorosamente.
Il giovanotto le lasciò andare le caviglie, ritirò le mani e appoggiò una guancia sull’avambraccio destro. - Be’, - disse, - lo sai come vanno queste cose, Sybil. Ero là seduto che stavo suonando. E tu chissà dov’eri, in quel momento. E Sharon Lipschutz è venuta lì e a un certo punto si è messa a sedere vicino a me. Non potevo mica spingerla via, ti pare?
- Sì, che potevi.
- Oh no. No. Non potevo fare una cosa simile, - disse il giovanotto. - Ma sai cosa ho fatto, invece?
- Cosa?
- Ho fatto finta che fossi tu.
Immediatamente Sybil si chinò e cominciò a scavare nella sabbia.
- Andiamo nell’acqua, - disse.
- Va bene, - disse il giovanotto. - Si può sempre provare.
- Un’altra volta spingila via, - disse Sybil.
- Chi devo spingere via?
- Sharon Lipschutz.
- Ah, Sharon Lipschutz, - disse il giovanotto. - Come torna spesso quel nome. Mischiando il ricordo al desiderio -. Si alzò in piedi di colpo. Guardò l’oceano. - Sybil, - disse, - sai cosa faremo adesso? Cercheremo di acchiappare un pescebanana.
- Un cosa?
- Un pescebanana, - disse il giovanotto, e sciolse la cintura dell’accappatoio. Si tolse l’accappatoio. Aveva le spalle bianche e strette, e le mutandine azzurre. Piegò l’accappatoio, prima nel senso della lunghezza, poi in tre parti. Srotolò l’asciugamano che s’era messo sugli occhi, lo stese sulla sabbia e vi depose sopra l’accappatoio ripiegato. Si chinò, raccolse il materassino e se lo mise sotto il braccio destro. Poi, con la sinistra, prese la mano di Sybil.
Insieme si avviarono verso il mare.
- Immagino che ne avrai visti parecchi, di pescibanana, ai tuoi bei tempi, - disse il giovanotto.
Sybil scosse il capo.
- No? Ma si può sapere dove vivi?
- Non lo so, - disse Sybil.
- Ma sì che lo sai. Devi saperlo per forza. Sharon Lipschutz sa benissimo dove abita e ha solo tre anni e mezzo.
Sybil smise di camminare e strappò la mano da quella di lui. Raccolse una comune conchiglia e la esaminò con elaborato interesse. La gettò via. - Whirly Wood, Connecticut, - disse, e riprese a camminare con lo stomaco bene in fuori.
- Whirly Wood, Connecticut, - disse il giovanotto. - Non è dalle parti di Whirly Wood, Connecticut, per caso?
Sybil lo guardò. - È lì che abito, - disse spazientita.- Abito a Whirly Wood, Connecticut -. Corse davanti a lui di qualche passo, si prese con la sinistra il piede sinistro, e saltellò due o tre volte su una gamba sola.
- Tutto è chiaro, finalmente, - disse il giovanotto.
Sybil lasciò andare il piede. - Hai letto Il piccolo Sambo? - disse.
- È strano che tu me lo chieda, - disse lui. - Vedi caso, ho finito di leggerlo proprio ieri sera -. Allungò il braccio e riprese la mano di Sybil. - Come t’è sembrato? - le chiese.
- Come correvano intorno a quell’albero, le tigri.
- Non si fermavano più. Mai viste tante tigri in vita mia.
- Ce n’erano solo sei, - disse Sybil.
- Solo sei? - disse il giovanotto. - E lo chiami solo?
- Ti piace la cera? - chiese Sybil.
- Mi piace cosa? - chiese il giovanotto.
- La cera.
- Moltissimo. E a te?
Sybil annuì. - Ti piacciono le olive? - chiese.
- Le olive… sì. Olive e cera. Non faccio un passo senza portarmene dietro una provvista.
- Ti piace Sharon Lipschutz? - chiese Sybil.
- Sì. Sì, mi piace, - disse il giovanotto. - Quel che soprattutto mi piace di lei è che non fa mai delle brutte cose ai cagnolini nell’atrio dell’albergo. Quel piccolo bulldog di quella signora canadese, per esempio. Tu probabilmente non ci crederai, ma ho visto coi miei occhi certe bambine tormentarlo con un bastoncino. Queste cose Sharon non le fa. Non è mai cattiva o dispettosa, lei. È per questo che mi piace tanto.
Sybil taceva.
- Mi piace masticare le candele, - disse finalmente.
- Lo credo bene, - disse il giovanotto, mettendo i piedi nell’acqua. - Ahi! È fredda -. Lasciò cadere il materassino. - No, aspetta un momento, Sybil. Aspetta che arriviamo un po’ più in là.
Si spinsero avanti finché l’acqua giunse alla vita di Sybil. Allora il giovanotto la sollevò e la fece sdraiare sul materassino, a pancia in giù.
- Resti con i capelli così, senza cuffia, senza niente? - le chiese il giovanotto.
- Non lasciarmi andare, - ordinò Sybil. - Tienimi forte, adesso.
- Signorina Carpenter. La prego. Conosco i miei doveri, disse il giovanotto. - Tu devi solo tenere gli occhi bene aperti per il caso che passi qualche pescebanana. Questo è un giorno ideale per i pescibanana.
- Non ne vedo neanche uno.
- È comprensibile. Hanno delle abitudini molto singolari. Molto, ma molto singolari.
Continuò ad avanzare spingendo il materassino. L’acqua non gli arrivava al petto. – È una vita molto tragica, la loro, poveretti, - disse. - Lo sai cosa fanno, Sybil?
Sybil scosse il capo.
- Vedi, nuotano dentro una grotta dove c’è un mucchio di banane. Sembrano dei pesci qualunque, quando vanno dentro. Ma una volta che sono entrati, si comportano come dei maialini. Ti dico, so da fonte sicura di certi pescibanana che, dopo essersi infilati in una grotta bananifera, sono arrivati a mangiare la bellezza di settantotto banane -. Avvicinò di mezzo metro all’orizzonte il materassino e la sua passeggera. - Naturalmente, dopo una scorpacciata simile sono così grassi che non possono più venir fuori dalla grotta. Non passano dalla porta.
- Non troppo lontano, - disse Sybil. - E poi, cosa fanno?
- Cosa fanno chi?
- I pescibanana.
- Oh, vuoi dire dopo che hanno mangiato tante banane che non possono più uscire dalla grotta bananifera?
- Sì, - disse Sybil.
- Ecco, mi rincresce molto di dovertelo dire, Sybil. Muoiono.
- Perché? - chiese Sybil.
- Ecco, gli viene la bananite. È una malattia terribile.
- C’è un’onda che sta arrivando, - disse Sybil nervosamente.
- Faremo finta di non vederla. La snobberemo, - disse il giovanotto. - Due snob -. Prese in mano le caviglie di Sybil e spinse in basso e in avanti. Il materassino si rizzò sopra la cresta dell’onda. L’acqua inondò i capelli biondi di Sybil, ma il suo strillo era pieno di gioia.
Con la mano, quando il materassino fu di nuovo immobile, si tolse dagli occhi un lungo ciuffo bagnato e piatto, e riferì: - Ne ho visto uno.
- Cos’hai visto, amor mio?
- Un pescebanana.
- Santo cielo, no! - disse il giovanotto. - Aveva delle banane in bocca?
- Sì, - disse Sybil. - Sei.
All’improvviso il giovanotto tirò su uno dei piedi bagnati di Sybil, che sporgevano oltre l’orlo del materassino, e ne baciò il collo.
- Ehi! - disse la padrona del piede, voltandosi.
- Ehi cosa? Adesso si torna. Ti basta così?
- No!
- Mi rincresce, - disse il giovanotto, e spinse il materassino verso la spiaggia finché Sybil poté scendere. Poi lo tirò fuori dall’acqua e lo portò a riva.
- Ciao, - disse Sybil, e corse senza rimpianto in direzione dell’albergo.

Il giovanotto si infilò l’accappatoio, accostò strettamente i risvolti e si cacciò l’asciugamano in tasca. Raccolse il materassino bagnato, cui ora aderiva un velo di sabbia, e se lo mise alla meglio sotto braccio. Si avviò solo, a passi pesanti, sulla sabbia fine e rovente verso l’albergo.
Al piano seminterrato dell’albergo, dove c’era l’ingresso riservato dalla direzione ai bagnanti, una donna col naso coperto di pomata allo zinco entrò nell’ascensore insieme al giovanotto.
- Vedo che mi sta guardando i piedi, - disse il giovanotto quando la cabina si mise in moto.
- Come ha detto, scusi? - disse la donna.
- Ho detto che vedo che lei mi sta guardando i piedi.
- Scusi, ma stavo guardando in terra, disse la donna, e si volse verso la porta della cabina.
- Se le fa piacere guardarmi i piedi, si accomodi, - disse il giovanotto. - Ma perdio, abbia almeno il coraggio di farlo senza sotterfugi.
- Scendo qui, prego, - disse in fretta la donna alla ragazza che manovrava l’ascensore.
Le porte si aprirono e la donna uscì senza voltarsi indietro.
- Ho dei piedi normalissimi e perdio non capisco perché la gente me li debba guardare con gli occhi fuori dalla testa, - disse il giovanotto. - Al quinto, prego -. Tirò fuori dalla tasca dell’accappatoio la chiave della sua camera.
Scese al quinto piano, percorse il corridoio ed entrò al numero 507. La stanza odorava di valige nuove e di acetone.
Il giovanotto guardò la ragazza addormentata su uno dei letti gemelli. Poi si avvicinò a una valigia, l’aprì, e di sotto a una pila di mutande e canottiere trasse una Ortgies automatica calibro 7,65. Fece scattare fuori il caricatore, lo guardò, tornò a infilarlo nell’arma. Tolse la sicura. Poi attraversò la stanza e sedette sul letto libero; guardò la ragazza, prese la mira e si sparò un colpo nella tempia destra.

domenica 15 gennaio 2012

Ciao, Carlo


È morto Carlo Fruttero, celebre scrittore - in coppia con Franco Lucentini - e grandissimo traduttore. Ne avevo parlato qui.

Venivamo tutte per mare

Qualche giorno fa è uscito "Venivamo tutte per mare", il romanzo di Julie Otsuka che ho tradotto per Bollati Boringhieri e di cui ho già parlato diverse volte negli ultimi mesi (qui , qui, qui e qui).

Nei prossimi giorni, quando avrò un po' di tempo, vorrei dedicare un post alla storia dell'internamento in campi di concentramento dei giapponesi americani durante la Seconda Guerra Mondiale, un argomento di cui Otsuka parla in questo libro e anche nel precedente, l'altrettanto bello When the Emperor Was Divine.

Nel frattempo, vi segnalo alcune belle recensioni che sono uscite in questi giorni.

Leonetta Bentivoglio su Repubblica: "È un romanzo leggerissimo, nel senso più incantatorio dell' aggettivo: anche nelle parti più malinconiche e amare, scorre come una folata di vento, toccando intimamente chi lo legge col suo descrivere la vita come un insieme di esistenze minute, ritratte mentre ci narrano una vicenda di destini sfaccettati e condivisi. (...) È anche una sinfonia di voci, un saliscendi musicale ipnotico nell' andirivieni tra il diluirsi e l'intensificarsi della sonorità espressiva.(...) Questo testo premiatissimo (selezionato per il National Book Award e inserito dal New York Times tra i titoli migliori del 2011) non contempla personaggi singoli. Il protagonista è uno solo, ed è lo sterminato ensemble che espone l'avventura. Sta qui, nel pluralismo della voce narrante, la geniale invenzione dell' autrice. Verrebbe da supporre che un flusso narrativo declinato per intero con il 'noi' produca un distacco, una mancanza d'adesione emotiva. Invece no: il 'noi' di Otsuka, in virtù del suo stile nitido e umanissimo, rende costantemente pregnante quel plurale. (...) Quello ripercorso, in sostanza, è un episodio storico documentato. A inizio Novecento, migliaia di donne giapponesi - le 'spose in fotografia' - furono acquistate per corrispondenza e spedite negli Stati Uniti per congiungersi a connazionali immigrati, i quali le volevano giovani e disponibili a nozze repentine. Fu una deportazione di vittime consenzienti, che quando scoppiò la guerra divenne un massacro. In seguito all'attacco di Pearl Harbour infatti, Franklyn D. Roosvelt decise di considerare tutti i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici, condannandoli alla reclusione. (...) Quando ce le sottraggono per condurle nei 'centri di raccolta' (simili ai luoghi in cui si convogliano le odierne folle di clandestini che sbarcano disperatamente sulle coste italiane); quando vengono umiliate nei cosiddetti 'posti sicuri'; quando scompare la delicatezza del loro passo sulla nostra terra, la commozione, per chi legge, è uno sbocco inevitabile. Pochi altri romanzi hanno affrontato con altrettanta cruda lucentezza temi difficili e abusati come l'immigrazione e il razzismo. E forse nessuno ha saputo farlo dalla parte delle donne in modo tanto perturbante e originale."

Japanese immigrants arrive at Angel Island Immigration Station. Thousands of "picture brides" passed through the station bet. 1910 and 1924.
Credit: California State Parks Collection
 
Graziella Pulce su Alias: "Venivamo tutte per mare è un piccolo gioiello in cui si incastonano mille storie miniaturizzate in poche righe, tutte dal profilo fiabesco: non ci sono personaggi e ogni individuo rappresenta la declinazione di un ruolo. Se leggiamo questo libro come un deposito di storie, un campionario di vicende unificate dalmotivo della perdita e dell'abbandono in vista dell'ignoto, le vicende di queste donne assumono un valore naturale e paradigmatico: di esseri umani che condividono il destino delle carote o delle erbacce da estirpare. (...) Impressionante il capitolo che racconta l'internamento dei giapponesi nei campi di prigionia, che per più di un dettaglio rievoca la contemporanea vicenda ebraica. Anche se i tasti vengono sfiorati con ancora maggiore levità, ciò che si intravede è sufficientemente terrificante. Costretti a partire, e a vendere tutto rapidamente in cambio di pochi dollari o di assegni scoperti, molti di questi uomini non faranno ritorno. Di case, campi e negozi si approprieranno americani scaltri che sfonderanno porte, raccoglieranno frutti che non avevano seminato e continueranno le attività commerciali che erano state degli operosi e discreti giapponesi, di cui ben presto saranno dimenticati nomi e volti." 

Annamaria Crispino su DeA: "'La scomparsa" è l’ultimo capitolo del libro e il registro cambia: il 'noi' non è più quello delle donne venute per mare decenni prima, è la comunità di una qualsiasi piccola città americana che da un giorno all’altro non li vede più. Quei 'bianchi' commentano: «I giapponesi sono scomparsi dalla nostra città. Le loro case sono sprangate e vuote. Le loro cassette della posta cominciano a traboccare [...] In una delle loro cucine – quella di Emi Saito – un telefono nero continua a squillare. [...] I più turbati dalla scomparsa dei giapponesi sembrano essere i nostri figli. Ci rispondono male più del solito. Si rifiutano di fare i compiti. Sono ansiosi, inquieti». Hanno paura, si fanno domande. Alcuni, non tutti. Perché anche 'loro' non sono tutti uguali."

sabato 14 gennaio 2012

Meet my husband/11: Um... genius or crazy?

Bigthink.com has just published two articles about Jonathon Keats: one on his latest artwork (Can Bacteria Solve the Mysteries of the Universe?), and another where they ask their readers if Mr Keats is a genius or a lunatic.

A little embarrassing for Mr Keats' wife, I admit, but also quite funny. So here's the article for you. If you want, you can follow the link and add your comment.



Genius or Crazy? Jonathon Keats

Keats

Today's homepage article shares the latest work of experimental philosopher Jonathon Keats – a kind of tightrope walker over the chasm of Possibility. This is a man who has copyrighted his own brain on the grounds that its neural networks are a kinetic sculpture he created by thinking. He opened an “anti-bank” in an attempt to counteract the global recession with a mirror economy based on antimatter, issuing paper currency in denominations of 10,000 positrons and higher. Keats has even attempted to introduce legislation in the state of California: the Law of Identity – which, sadly, did not pass – would have stated that “A = A, or: every entity is identical to itself.” 
From his porn theater for plants (showing films of bees pollinating flowers) to his attempt to genetically engineer god in a petri dish, Keats turns science and everyday reality inside out, making the Twilight Zone manifest. His experiments provoke thought, laughter, debate, bewilderment, even outrage. So we ask you, readers of Big Think: Jonathon Keats – Genius, or Crazy?

venerdì 13 gennaio 2012

Let's dance!/2

Tom Waits, Ice Cream Man (from Closing Time, 1973, studio version: good for dancing)

I'll be clickin' by your house about two forty-five
Sidewalk sundae strawberry surprise,
I got a cherry popsicle right on time
A big stick, mamma, that'll blow your mind

'Cause I'm the ice cream man, I'm a one-man band (yeah)

I'm the ice cream man, honey, I'll be good to you.

Baby, missed me in the alley, baby, don't you fret

Come back around and don't forget,
When you're tired and you're hungry and you want something cool,
Got something better than a swimming pool

'Cause I'm the ice cream man, I'm a one-man band

I'm the ice cream man, honey, I'll be good to you.
'Cause I'm the ice cream man, I'm a one-man band
I'm the ice cream man, honey, I'll be good to you.

See me coming, you ain't got no change

Don't worry baby, it can be arranged:
Show me you can smile, baby just for me
Fix you with a drumstick, I'll do it for free

'Cause I'm the ice cream man, I'm a one-man band

I'm the ice cream man, honey, I'll be good to you.
Be good to you, be good to you,
Good to you yeah, good to you yeah, good to you yeah, good to you yeah,
Good to you yeah, good to you, I'll be good to you, I'll be good to you... 


Live in Denver, 1975 (good for dreaming that I was there)