CARO TOM
(You can’t be lovin’ someone who is savage and cruel)
Malgrado le ripetute insistenze della sua amica Gloria, Marta esitava a scrivere quella lettera a Tom. Certi ricordi, le diceva, era meglio lasciarli sepolti nel passato. Ma quel ricordo era duro a morire, e poi, secondo Gloria, se Tom avesse letto la sua lettera magari ci avrebbe scritto sopra una canzone, d’altronde era una storia d’amore malinconica come quelle che piacevano a lui. E così finalmente Marta si era decisa. In realtà non era sicura che fosse davvero una storia d’amore, ma questo magari lo avrebbe giudicato Tom.
Ecco qui la lettera.
Caro Tom,
la prima volta che ho sentito la tua musica ero al ristorante sulla spiaggia. Il ristorante perfetto. Penombra, candele. La padrona indossava una camicia di seta bianca e si ricordava di me anche se mi vedeva una volta all’anno. Quando assaggiavo una pietanza chiudevo gli occhi per lasciar fuori il resto del mondo. In quel ristorante ci andavo con Gio, il mio fidanzato, e il giorno designato digiunavamo fin dalla mattina per essere sicuri di non saltare neanche una portata. Quella sera nel ristorante perfetto c’era la tua musica. In sottofondo, certo, ma non offenderti: era lei la protagonista della serata. Indagai con la signora dalla camicia di seta, e lei mi mostrò il cd di The Heart of Saturday Night, quello con la copertina in cui, con la cravatta e la sigaretta in bocca, fingi di non notare la ragazza dal vestito color borgogna che ti guarda in modo inequivocabile. Fu amore al primo ascolto.
Qualche
anno dopo lasciai Gio. Con lui lasciai i miei vent’anni, la città che amavo, i
giorni delle rose e delle osterie, e sull’autostrada piatta e diritta che mi
portava via da Bologna, nella malinconia di un tramonto nebbioso della bassa
padana, scoppiai finalmente a piangere.
«Perché
cavolo piangi?» disse il mio nuovo fidanzato, che guidava la macchina del
trasloco. Smisi subito. In effetti, pensai, non c’era motivo di essere triste.
Andai a
vivere in riva a un lago, un posto di piogge primaverili e temporali estivi.
Ero sicura di poter convincere Alex a fidarsi di me. Ma non si può salvare un
amore sbagliato, e così io e Alex non facevamo altro che litigare, lasciarci e
riprenderci, e ogni volta giuravo che era l’ultima.
Era il
1999, l’anno in cui sei venuto in Italia, ricordi? Tre sere d’estate a Firenze.
Appena l’ho saputo ho cominciato a sognare il momento in cui finalmente ti avrei
visto sul palco.
In quel
periodo non stavo con Alex, ero in uno di quei momenti di tregua in cui pensavo
solo a rimettermi con lui. Lo chiamai per chiedergli se voleva venire al
concerto, ma lui rifiutò. Allora chiamai Gio. Eravamo rimasti amici, di
nascosto da Alex che si strozzava dalla gelosia ogni volta che lo sentiva
nominare. Gio rispose: «Ci penso io», e dopo un’ora mi richiamò dicendo che
aveva comprato due degli ultimi biglietti rimasti per il tuo concerto di domenica
25 luglio.
Il piano
era questo: sarei partita al mattino con il treno per Milano, e da lì avrei
preso la coincidenza per Bologna (e comunque, a proposito di Bologna: se un
giorno ti capiterà di tornare in Italia, vai a visitarla, sono sicura che ti
piacerà. Siediti in una vecchia osteria e ordina un litro di rosso della casa,
e magari qualcuno a un tavolo vicino dirà «Mo vè, c’è Tom Waits», e alzerà il
bicchiere per brindare alla tua salute), dove avrei incontrato Gio che mi
avrebbe portata a Firenze in macchina.
Un paio
di giorni prima, però, la tregua finì e mi rimisi con Alex. Ci incontrammo a
una festa dove ovviamente speravo di incontrarlo, e poi il magnetismo dei poli opposti
fece il suo dovere. Tornammo a casa insieme, e mentre un temporale estivo
creava un'ambientazione adeguatamente drammatica – in quel momento riuscii a
pensare che sembrava una pessima sceneggiatura, a dimostrazione del fatto che mi
restava ancora un barlume di lucidità – Alex mi rivolse la domanda che gli
premeva di più: «Ci vai lo stesso al concerto di Tom Waits?»
Non lo
avevo previsto. Non vedevo cosa c’entrasse il tuo concerto. Ingenua. «Be’, certo
che ci vado» risposi.
D’un
tratto il fronte temporalesco si trasferì all’interno del piccolo appartamento,
e cupi nuvoloni di collera oscurarono lo sguardo di Alex. Ci eravamo appena
rimessi insieme e ora io stavo per andarmene a un concerto, non solo senza di
lui, ma addirittura con il mio ex fidanzato. Era chiaro che non lo amavo, che
sputavo sui suoi sentimenti, che non ero degna della sua fiducia. Un lampo
squarciò di nuovo lo strappo appena ricucito e la traditrice venne scacciata.
La nostra storia era già finita un’altra volta.
Con il
passare delle ore la mia certezza già precaria si andò sgretolando. Da una
parte c’eri tu e il sogno di vederti cantare, dall’altro c’era l’angoscia per
aver sprecato l’ultima possibilità di guadagnarmi l’amore di Alex. Era una
decisione tormentosa, e se c’è una cosa che odio è prendere decisioni. Le
lascio per l’ultimo istante, aspettando che arrivi un segno del destino o che
qualcun altro decida per me. Nei casi peggiori, allo scadere del tempo il pendolo
dell’indecisione si ferma al vertice della sua traiettoria e non mi lascia
altra scelta che obbedirgli, pur sapendo che pochi istanti dopo avrei potuto
scegliere la cosa opposta. La mia mente continuò a oscillare per tutta la
notte, finché, all’alba di domenica 25 luglio, mi alzai e mi preparai a
partire.
Ostacolata
dal peso del rimorso, ogni movimento mi costava fatica. Mi sembrava di muovermi
dentro una vasca piena di fango. Riuscii ad arrivare fino alla stazione di
Milano prima di rimanere bloccata nel mio stesso pantano. Mi trascinai verso un
telefono, uno di quelli pubblici che oggi non esistono più. Composi il suo
numero.
«Pronto.»
«Ciao,
sono io.»
«Cosa
vuoi?» La sua voce era un blocco di ghiaccio tagliato con l’accetta.
«Be’,
ecco, sono a Milano, e pensavo che in effetti hai ragione tu, non è giusto che
io vada al concerto.»
«L’hai
capito un po’ tardi, no?»
«Sì, hai
ragione, però senti, pensavo… e se non ci andassi?»
«Ci sei
già andata, mi sembra.»
«No, no,
ho cambiato idea, posso tornare a casa adesso e stare con te. Facciamo come se
non fosse successo niente. Ho capito di avere sbagliato e torno da te.» Non ero
molto soddisfatta del mio tono servile, ma in quel momento ero mossa da uno
zelo missionario che aveva la precedenza su tutto il resto.
«Fai come
ti pare.»
«Ecco,
sì, però ci sarebbe una cosa… insomma, be’… Gio ha comprato i biglietti… mi
sembra brutto telefonargli così e dirgli che non vado… pensavo che magari
potrei andare a Bologna e dirglielo di persona e poi tornare a casa. Ho guardato
l’orario, ce la faccio benissimo. Posso arrivare in serata, così magari andiamo
a mangiarci una pizza insieme?»
«Va
bene.»
«Allora
arrivo alle nove e venti, vieni a prendermi in stazione?»
«Okay.»
Gio non
approvò la mia decisione. A dir poco. Provò a farmi cambiare idea, ma io ero
inflessibile, tutta compresa del coraggio del mio sacrificio. Gio non si lasciò
commuovere. Disse che lui al concerto da solo non ci andava, e che quindi
dovevo restituirgli non solo i soldi del mio biglietto, ma anche quelli del
suo. Già che c’ero gli offrii anche il pranzo, per il disturbo, e poi,
purificata dalla colpa e alleggerita nel portafoglio, ripresi il treno per tornare
indietro.
L’odore
familiare del lago alleviò appena il senso di fastidio lasciatomi addosso da
una giornata in treno. Uscii emozionata dalla piccola stazione e lo vidi lì fuori,
appoggiato alla macchina ad aspettarmi. Non sorrideva, ma quella non era una
cosa insolita. Aveva mal di testa, si limitò a dire.
Alle nove
e trentacinque, mentre tu uscivi sul palco di Firenze, io e Alex ci mettevamo a
tavola. La pizzeria era brutta, un salone anonimo con le luci fluorescenti. La
pizza era cattiva, mi sembra, ma non sono sicura, visto che la mia attenzione
era rivolta solo ad Alex, che non sorrideva e non parlava. Se ne stava lì a
masticare con aria noncurante. Certe volte, davanti a lui, provavo solo incredulità.
Mentre il
boato degli applausi si placava e tu cominciavi il concerto con una delle mie
canzoni preferite, quella che apre Daunbailò
con New Orleans in bianco e nero ed Edna Million con un vestito da sballo, io
azzardai: «Allora?»
«Allora
cosa?»
«Be’,
sono tornata, hai visto?»
Ghigno a
mezza faccia. «Sì, ho visto.»
Il palco
era ingombro di strumenti, tu avevi la bombetta e il tuo solito completo da
poeta sgualcito.
«Sono
tornata per te.»
«Non me
ne frega un cazzo. Potevi anche restare dov’eri, tanto con te non ci torno.»
Poi si
alzò e uscì dalla pizzeria, lasciandomi il conto da pagare.
Intanto
tu, a Firenze, lanciavi manciate di coriandoli sul pubblico. Poi prendevi il
megafono e cantavi il dolce Gesù di cioccolata. Sono ricordi che ho rubato,
Tom, come in quella tua canzone. Eppure anch’io sono innocente, quando sogno.
E chissà,
forse un giorno riuscirò a vederti.
Tua,
Marta