martedì 28 febbraio 2012

Un'intervista alla sottoscritta/3

Di corsa, affannata per una scadenza - per fortuna un altro bel libro - vi rimando alla bella intervista che mi ha fatto l'autrice del blog Biblioteca giapponese (che come potrete vedere riprende anche il mio bannerino sulla citazione del nome del traduttore) sulla mia traduzione del libro di Julie Otsuka Venivamo tutte per mare.

L'intervista è accompagnata da alcune delle belle foto di Dorothea Lange, che documentano l'internamento dei nippo-americani della costa occidentale degli Stati Uniti nel 1942. Ne potete trovare una serie completa qui.


May 6: A girl waits with her family's baggage outside the Wartime Civil Control Administration station in Oakland. © Dorothea Lange

L'intervista comincia così:

Biblioteca giapponese: Silvia, innanzitutto grazie per avermi concesso questa intervista.
Molte delle opere di cui ti sei occupata appartengono alla letteratura statunitense. Nel leggere e, successivamente, nel tradurre Venivamo tutte per mare – nato in seno all’idioma inglese – hai captato delle qualità (letterarie, stilistiche, linguistiche…) o degli scarti peculiari? Si percepisce insomma, a tuo parere, quella che, genericamente, potrebbe esser chiamata impronta giapponese?
Silvia Pareschi: Uno degli elementi che più colpiscono nella struttura del romanzo è la voce narrante, una voce corale, un “noi” collettivo che da un lato annulla  l’individualità e dall’altro rende la narrazione più potentemente universale. A mio parere, l’impronta giapponese del libro consiste proprio in questo modo se vogliamo pudico di raccontare una storia così dolorosa, rifuggendo dall’immedesimazione in un io accentratore per cercare di comprendere in sé più voci e più storie. Anche nel precedente romanzo di Julie Otsuka si trova qualcosa di simile, i personaggi perdono un po’ della propria individualità per diventare parte di un noi collettivo, ma in quel caso l’autrice raggiunge il suo scopo in un modo diverso (che non vi svelo).

E continua QUI.

20 commenti:

  1. Grazie del link alle foto della Lange
    Proprio in queste settimane sto leggendo una sua biografia by Linda Gordon

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    1. Ecco la fotografa (meraviglia, le tue foto)! Anche Ansel Adams andò a fotografare i campi in cui erano internati i nippo-americani, ma con un'ottica un po' diversa, più patriottica: "Through the pictures the reader will be introduced to perhaps twenty individuals… loyal American citizens who are anxious to get back into the stream of life and contribute to our victory", scriveva lo stesso Adams. E ancora: "The purpose of my work was to show how these people, suffering under a great injustice, and loss of property, businesses and professions, had overcome the sense of defeat and dispair [sic] by building for themselves a vital community in an arid (but magnificent) environment…"
      Il link alle foto lo trovi qui.

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  2. ho sempre pensato che il tuo sia un lavoro difficile, impegnativo, ma che da tantissime soddisfazioni personali.

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  3. ho letto metà libro e poi l'ho voluto conservare per il viaggio aereo del ritorno. solo che nel frattempo mi è venuta un'inflenza che mi ha impedito di dormire la notte prima della partenza, così al mattino ero parecchio rinco, io sono partita, ma venivamo tutte per mare è rimasto lì, sul mio comodino.
    se penso che dovrò aspettare mesi per finire li leggerlo, che rabbia!
    comunque nell'intervista peccato sia stata data molta più rilevanza al fattore immigrazione e meno al come erano arrivate in america, cioè con l'inganno. mi sembra che per le donne ci sia stato da combattere su due fronti...
    comunque anche il titolo originale mi piaceva un sacco.

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    1. Per le donne c'è sempre da combattere su più fronti :-(
      Quanto al titolo, ne parlavo ieri sera con Jonathon. In inglese "The Buddha in the Attic" suona molto bene, in italiano secondo me meno. Vedremo cosa faranno con il prossimo, che in inglese ha un titolo ancora più bello, "When the Emperor Was Divine", che in italiano ancora una volta funzionerebbe molto meno.

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    2. @mariaantonietta, mi permetto di spiegare come mai nell'intervista io (alias Biblioteca giapponese) non abbia dato maggiore spazio al come le donne giungevano in America (al contrario di quanto ho fatto nella recensione al libro: http://www.bibliotecagiapponese.it/2012/02/21/una-sola-moltitudine-venivamo-tutte-per-mare-di-j-otsuka/).

      Senza nulla togliere a Silvia, ho creduto che questo argomento fosse più adatto a un esperto di storia e costumi giapponesi (in fondo, la pratica dell'omiai - i matrimoni combinati - è tuttora in voga nel Sol Levante).

      Viceversa, ho preferito sfruttare i punti forti di Silvia, cioè la sua solida preparazione in ambito americanistico, il grande coinvolgimento con cui ha tradotto il libro e la conoscenza diretta di uomini e donne che hanno vissuto in prima persona quel difficile periodo.

      Ti ringrazio, comunque, per il suggerimento: chissà, magari nella prossima intervista a Silvia, dopo l'uscita della traduzione di "When the emperor was divine", ci sarà una domanda su queste donne attratte negli Usa con l'inganno.

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    3. Oh, grazie Anna Lisa per la spiegazione, in effetti era logico!
      e complimenti per l'intervista!

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  4. Siccome ho capito che ci sei molto affezionata e siccome mi hai fatto venire la curiosita' di leggerlo, quando andro' in Italia tra un paio di mesi lo cerchero' :)
    Comunque e' triste dirlo ma i matrimoni in fotografia vengono perpetuati ancora oggi anche in certe zone del nostro bel paese (ho conosciuto storie di ragazzi che sceglievano la loro moglie in foto e poi mandavano "l'intermediario" a recuperarla in uno degli sfortunati paesi dell'Est Europa).

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    1. Hi hi, altro che molto affezionata, vi ho fatto una testa così con questo libro! ;-)
      E sì, l'usanza delle "mail-order brides" continua imperterrita.

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  5. Silvia, sono assolutamente affascinata dal tuo lavoro!

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    1. Be', ma perché io vi racconto solo il lato bello... ;-)

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    2. A proposito, sulla rubrica Faber del Sole 24 Ore, la blogger della settimana è la traduttrice Paola Mazzarelli. I suoi articoli sono interessanti, e molto utili per capire qualcosa di più sulla vita di una traduttrice. Li trovi qui.

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    3. Grazie! In effetti sono ancora in tempo per scegliere Translation &
      Interpretation Studies il prossimo anno...

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  6. Complimenti per l'intervista! Mi ha colpito il tuo riferimento a come i nippo-americani abbiano trattato la vicenda con pudore e poco clamore... direi quasi con la stessa compostezza, tutta giapponese, che emerge anche dalle foto della Lange (che sono terribili ed affascinanti allo stesso tempo).
    Secondo me, al tentativo di rimozione collettiva di questo evento da parte degli americani, ha contribuito anche il fatto che l'ordine di internamento fu dichiarato costituzionale dalla Corte suprema nel 1944, in una decisione (Korematsu v. United States) considerata universalmente come uno dei punti più bassi della giurisprudenza del massimo Giudice statunitense.
    In essa, Hugo Black affermò che la necessità di difendere lo Stato da possibili atti di spionaggio era da ritenersi prioritaria rispetto ai diritti costituzionali dei cittadini americani di discendenza nipponica. Once again, "security" trumped "liberty"...

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    1. Niente di nuovo sotto il sole, insomma... sto leggendo un bell'articolo di Adam Gopnick sul New Yorker che parla del sistema carcerario statunitense. S'intitola "The Caging of America ed è veramente agghiacciante.

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    2. Ho letto l'articolo. Solo un commento: O.M.G.

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  7. Complimenti per l'intervista. Bello anche il sito della Biblioteca giapponese.

    Come sai, ho appprezzato molto il libro a aspetto il successivo della Otsuka. W le donne! :-)

    Riguardo a quelle che si sposano per corrispondenza, un tempo molti di questi matrimoni, come quelli combinati dai genitori o altri, funzionavano a meraviglia. Credo sia una questione di attitudine mentale e di sapersi sopportare. Cose che spesso mancano nei matrimoni cosiddetti 'per amore'. Molte coppie innamoratissime si separano alle prime difficoltà. Io sono per l'amore, naturalmente, ma non credo che sia l'unica cosa necessaria nel matrimonio. Certo, partire con un inganno è sbagliato...

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    1. Discorso lungo, ma fondamentalmente ti do ragione. Tempo fa parlavo con un amico, uno scrittore del Ghana trapiantato negli Usa, che mi spiegava proprio questo: dopo essersi innamorato del concetto di amore romantico tipicamente occidentale, aveva finito per accettare un matrimonio combinato impostogli dalla famiglia, e alla fine aveva capito - accettato? - che in un matrimonio combinato una coppia sviluppa un rapporto di comprensione e affetto reciproco che spesso manca nei matrimoni "d'amore". Non sono d'accordo con lui - o meglio, essendo nata e cresciuta con un'idea diversa non potrei mai arrivare ad accettare la sua - però capisco cosa voleva dire.

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