Ripubblico qui l'intervista di Maria Teresa Carbone a Julie Otsuka, uscita qualche giorno fa sul Manifesto alla vigilia del reading al Festival delle Letterature di Massenzio.
Insieme all'intervista ripubblico anche una foto che ho trovato sul sito della Sacramento State University: si tratta della famiglia di Julie Otsuka (sua nonna, suo zio e sua madre) al loro arrivo all'ippodromo di Tanforan, a San Bruno, uno dei luoghi di raccolta dove venivano trasferiti i nippo-americani prima di venire deportati nei campi di detenzione.
il manifesto 2012.06.05 - 11 CULTURA
Un incontro con Julie Otsuka, autrice di «Venivamo tutte per mare»
Emigrazione e internamento declinati alla voce «noi»
Scritto alla prima
persona plurale, il romanzo della scrittrice americana di origine
giapponese ruota intorno alle vicende di tante donne che all'inizio del
'900 si trasferirono negli Usa dove, all'indomani di Pearl Harbor,
furono chiuse con le loro famiglie in campi di detenzione.
Ci sono scrittori che audacemente, deliberatamente, spostano i paletti
piantati intorno ai territori della narrativa per avventurarsi in
regioni ancora non battute, anche a costo di ritrovarsi, in questa loro
esplorazione, a lungo isolati. (Così è stato, in anni recenti, W. G.
Sebald, la cui feroce insofferenza verso «qualsiasi forma di scrittura
d'autore dove il narratore si atteggia a macchinista e regista e giudice
ed esecutore» è stata la molla che lo ha portato a elaborare libri
tanto difficilmente catalogabili quanto affascinanti). E ci sono scrittori che quegli stessi paletti li scavalcano quasi per distrazione, senza velleità rivoluzionarie, condotti - se non dal caso - dall'umile tentativo di dare maggiore forza al testo che vanno componendo. A questa seconda famiglia appartiene la statunitense di origine giapponese Julie Otsuka, il cui secondo «romanzo» (questa la dicitura ufficiale che compare sulla copertina), Venivamo tutte per mare, uscito all'inizio dell'anno da Bollati Boringhieri nella traduzione efficace e intensa di Silvia Pareschi (pp. 142, euro 13) non soltanto è scritto per intero in una infrequente prima persona plurale, ma non ha personaggi immediatamente riconoscibili e neppure qualcosa che assomigli a una trama.
Eppure questa singolare saga collettiva di emigrazione e di deportazione (vi si racconta, in sostanza, delle centinaia di donne che nei primi decenni del Novecento lasciarono il Giappone dirette negli Stati Uniti, dove avrebbero incontrato i futuri mariti - giapponesi come loro, ma ancora sconosciuti - e del successivo internamento di tutte queste famiglie in campi di detenzione all'indomani dell'attacco di Pearl Harbor) è, a dispetto - o forse a causa - delle sue eccentricità, estremamente avvincente, tanto che si potrebbe dire, come nelle recensioni artigianali delle librerie online, che «si legge d'un fiato».
Abbiamo incontrato Julie Otsuka alla vigilia del suo reading che si terrà questa sera al festival «Letterature» nella Basilica di Massenzio a Roma, dove la scrittrice dividerà il palcoscenico con Melania Mazzucco.
Nell'originale il suo romanzo si intitola The Buddha in the Attic, «Il Budda in soffitta», ma nella traduzione italiana il titolo è diventato Venivamo tutte per mare. Non pensa che questo cambiamento indirizzi i lettori in una direzione diversa da quella che lei aveva immaginato?Personalmente sono convinta che i titoli non debbano rivelare troppo del libro cui si riferiscono. Mi piacciono i titoli vagamente misteriosi e evocativi, e in questo caso particolare c'è un motivo in più per cui sono affezionata al titolo originale: la donna che, prima di lasciare la sua casa per il campo di internamento, depone nella soffitta una minuscola statua del Budda che ride, porta lo stesso nome di mia madre, Haruko. Ma l'editore italiano mi ha detto che nella vostra lingua non avrebbe «suonato» bene, e anche questo è un fattore importante, da non sottovalutare.
Al centro del suo primo romanzo, When the Emperor Was Divine, c'è una famiglia della quale, fino alla fine, non ci viene detto il nome. E in Venivamo tutte per mare ci troviamo di fronte a un agglutinarsi di figure e di vicende, ma non ci sono personaggi, né un vero e proprio intreccio. È il segno di una sua sfiducia nel romanzo tradizionale che, si vedano i casi di Jeffrey Eugenides o di Jonathan Franzen, ancora domina la scena letteraria americana?No, scegliendo di adottare un soggetto collettivo, non ho inteso infrangere le regole consolidate. Semplicemente, ho pensato che questo era il modo migliore per raccontare la storia che avevo in mente. Sono partita, anzi, con una narrazione più tradizionale, alla prima persona singolare, ma presto mi sono resa conto che il romanzo in quella forma era noioso. Il fatto è che le vicende di queste donne nel complesso si assomigliano e le variazioni tra l'una e l'altra sono sottili, toccano soprattutto i particolari. Ecco perché il «noi» è molto più adatto per accompagnare l'andamento del racconto.
Dopo due testi per molti versi eccentrici, ha dovuto cercare a lungo una «voce» diversa per il libro che sta scrivendo?Anche per il mio terzo romanzo, che è in via di elaborazione e dal quale leggerò stasera alcune pagine, mi sono lasciata guidare dall'idea che avevo in mente. Questa volta non parlo più del passato, ma mi ispiro proprio a mia madre, che è malata di Alzheimer e sta a mano a mano perdendo la memoria. Un fatto, come può immaginare, molto doloroso e coinvolgente per me, anche perché sono convinta - sulla base di quanto mi hanno detto i medici - che la malattia sia dovuta in parte proprio agli effetti dello stress subito in gioventù, al tempo dell'internamento. Uno stress tanto più forte perché - come quasi tutti i giapponesi che sono passati attraverso la stessa esperienza - dopo la guerra è stato tenuto sotto silenzio. In ogni caso, per questo romanzo c'è una voce che si rivolge in seconda persona a una figura nella quale potrei identificarmi io stessa. È un lavoro nuovo per me, che non comporta ricerche storiche come per i romanzi precedenti, ma un continuo scavo interiore.
A proposito del trauma che le protagoniste senza volto di Venivamo tutte per mare hanno subito emigrando negli Stati Uniti, una delle voci narranti a un certo punto afferma che «non c'è tribù più selvaggia degli americani». È una notazione ironica nei confronti di un paese che continua a considerarsi come un faro di civiltà?Proprio così. La maggior parte degli americani non si rende conto di quanto sia difficile inserirsi in una società tutt'altro che aperta qual è quella statunitense, soprattutto al di fuori delle grandi città. Oggi come ieri le condizioni di lavoro sono estremamente dure e il fatto di avere un aspetto «diverso» suscita pregiudizi inattesi. E a chi mi chiede se le cose sono cambiate rispetto all'epoca che ho descritto nei miei primi due romanzi, rispondo che no, nel fondo la situazione è rimasta molto simile.
Ciao! Ho ascoltato l'intervista di Julie Otsuka questa settimana alla radio (su Fahrenheit)...non conoscevo questa autrice ma le sue parole mi hanno rapito...sono andata subito alla ricerca di questo libro! :-)
RispondiEliminaBella intervista. Nemmeno io conoscevo questa scrittrice. Grazie!
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