giovedì 24 febbraio 2011

Denis Johnson/2: Albero di fumo, ancora un romanzo sul Vietnam

Ripubblico qui un mio articolo comparso sull’Indice dei libri del mese nell'aprile del 2009, sul romanzo di Denis Johnson Albero di fumo, da me tradotto per Mondadori. (Il link all'articolo non si trova, perciò lo posto qui per intero.)

Ancora un romanzo sul Vietnam  
La domanda che ritorna spesso quando si parla di Tree of Smoke, il poderoso romanzo con il quale Denis Johnson ha vinto il National Book Award 2007, è se fosse necessario un altro romanzo sul Vietnam. La risposta è sì, per molteplici ragioni. La prima è che Tree of Smoke – dedicato a HP, che sta, molto probabilmente, per Higher Power – è un romanzo in cui la guerra del Vietnam si espande fino a diventare un simbolo di tutti i conflitti combattuti in nome di un Potere Superiore, umano o divino (“albero di fumo” è un’espressione tratta dalla Bibbia che viene usata in riferimento al fungo atomico nell’oscuro complotto spionistico che fa da sfondo al romanzo), fra i quali è possibile riconoscere anche l’attuale guerra contro l’Iraq. Anche qui, infatti, come nelle opere precedenti di Denis Johnson, i protagonisti sono anime smarrite che brancolano in un mondo di calvinistica predeterminazione, dove “alcuni erano sicuramente e assolutamente scelti per la salvezza, mentre altri erano altrettanto assolutamente destinati alla rovina”. Soprattutto, in Tree of Smoke, la guerra del Vietnam torna come traguardo di un filo conduttore che percorre, più o meno marginalmente, tutte le opere di Denis Johnson, da Angels (1983), in cui viene tracciata la tragica parabola post-bellica dei due fratelli James e Bill Houston, che tornano come protagonisti di Tree of Smoke, a Fiskadoro (1985), romanzo post-apocalittico in cui compare brevemente un altro dei protagonisti di Tree of Smoke, il vietnamita Nguyen Minh, che ritroveremo anche in Resuscitation of a Hanged Man (1991) insieme a Jimmy Storm, un altro personaggio del romanzo, e così via, in un rincorrersi di echi che trasformano Tree of Smoke in un prisma nel quale si riflettono i temi e i personaggi di tutta l’opera precedente di Johnson.
Lo stesso rincorrersi di echi si ritrova poi su un piano più ampio, che trasforma il romanzo in un pastiche postmoderno contenente innumerevoli allusioni alla letteratura e alla filmografia sul tema del Vietnam. Se finora le opere sul Vietnam erano state scritte da testimoni diretti, spesso prima di tutto testimoni e solo in seconda istanza scrittori, il romanzo di Johnson, che non ha combattuto in quella guerra, va a occupare uno spazio nuovo, lo spazio della rielaborazione e in un certo senso della universalizzazione di quella testimonianza. L’autore fornisce un richiamo esplicito alla letteratura precedente sul conflitto vietnamita nominando, in un dialogo fra due personaggi chiave del romanzo, Skip Sands e Kathy Jones, quell’importante capostipite che fu The Quiet American di Graham Greene, romanzo che nel 1956 profetizzava con incredibile lucidità la debacle statunitense. E non a caso Skip Sands lo cita insieme a un’altra opera importante anche se meno nota, The Ugly American (1958), nel quale gli autori, William J. Lederer e Eugene Burdick, denunciavano l’inefficienza della diplomazia Usa in Indocina. Questi due titoli sono emblematici della traiettoria che Skip Sands compirà nel corso del libro, dall’idealismo alla disillusione fino a un inevitabile destino tragico: “Fra gli stranieri che la guerra rese irriconoscibili – anche, o soprattutto, a se stessi – c’erano una giovane vedova canadese e un giovane americano che a volte si vedeva come l’Americano Tranquillo e a volte come l’Americano Brutto, e che non voleva essere nessuno dei due, ma avrebbe voluto essere l’Americano Saggio, o il Buon Americano, e che invece finì col sentirsi il Vero Americano e infine semplicemente l’Americano Schifoso.” 
Diventa così possibile leggere il romanzo alla luce dei topoi della letteratura americana sul Vietnam, ripercorsi, reinterpretati e talvolta sovvertiti dall’autore. La struttura generale della narrazione, innanzitutto, in cui la frammentarietà e l’abbandono della linearità cronologica riecheggiano l’allucinazione della guerra, con l’alternanza fra le esplosioni adrenaliniche delle battaglie e le lunghe attese fra uno scontro e l’altro, ricorda immediatamente quella grande opera di New Journalism che è Dispatches di Michael Herr (1977), ma anche The Things They Carried di Tim O’Brien (1990) e The Short Timers (1979) di Gustav Hasford, romanzo dal quale venne tratta, con la collaborazione dello stesso Michael Herr, la sceneggiatura di Full Metal Jacket. Se le atmosfere surreali di quest’ultimo si ritrovano in molte scene del libro, un’altra potente eco cinematografica in Albero di Fumo è quella di Apocalypse Now, di cui ancora una volta Michael Herr fu co-sceneggiatore. La figura del Colonnello Francis Xavier Sands, eroe della Seconda Guerra Mondiale e scheggia impazzita negli alti ranghi dell’Agenzia, non è infatti altro che una nuova incarnazione del Kurtz conradiano: “E comunque la guerra è al novanta per cento mito, no? Per portare avanti le nostre guerre le eleviamo al livello di sacrificio umano, e invochiamo costantemente il nostro Dio. Nella guerra deve esserci qualcosa di più grande della morte, altrimenti saremmo tutti disertori. Penso che dovremmo esserne molto più consapevoli. Penso che dovremmo invocare anche gli dei del nemico. E i suoi demoni. Il nemico ha più paura delle sue divinità e dei suoi demoni di quanta ne avrà mai di noi.” Ma il Colonnello di Johnson, distorto attraverso la lente dell’ironia postmoderna, si trasforma in un personaggio ai limiti del grottesco, la cui iniziale immensità viene sminuita da una fine oscura e probabilmente indegna della sua fama mitica.
La lingua usata da Johnson è la stessa che accompagna tutta la letteratura e la cinematografia sul Vietnam: da un lato la lingua burocraticamente oscura dei vertici militari, dall’altro il gergo dei soldati, lo slang afroamericano dal ritmo sincopato, la lingua drogata e allucinata di uomini che, come in Herr, vedono la realtà intorno a sé ma non riescono a dare un senso alle immagini depositate nel loro cervello. La rivisitazione di temi e luoghi non può non comprendere il piacere della violenza, la follia omicida che assume i contorni della tortura di un presunto vietcong o dello stupro e omicidio di una donna vietnamita. E tuttavia nel Vietnam di Johnson non vi è spazio per le semplificazioni: “Buttavano bombe a mano dentro le capanne amputando braccia e gambe a contadini ignoranti, salvavano cuccioli affamati e se li portavano a casa, in Mississippi, nascosti sotto la camicia, incendiavano interi villaggi e violentavano bambine, rubavano jeep cariche di medicine per salvare la vita agli orfani.”
Il romanzo di Johnson, dunque, può essere visto come la rivisitazione di un genere, nella quale i luoghi comuni del genere stesso vengono evitati grazie all’ironia o alla intensa capacità di comprensione umana dell’autore. È questo il caso di un altro cliché della letteratura sul Vietnam: l’invisibilità del nemico. In Tree of Smoke scompare infatti la visione etnocentrica di “Charlie” (a cui era sfuggito forse solo Robert Olen Butler, con i racconti A Good Scent from a Strange Mountain del 1992, i cui protagonisti sono vietnamiti emigrati in America), e i personaggi vietnamiti diventano un elemento fondamentale del romanzo, al quale aggiungono profondità e interesse.
E così, in contrasto con la fondamentale misoginia della letteratura di guerra in generale e di quella sul Vietnam in particolare, Johnson affida la scena e il senso finale del romanzo a una donna, la missionaria Kathy Jones, che conserva l’estrema speranza di una salvezza raggiunta malgrado la disperazione, o forse proprio grazie a essa. “Kathy sedeva in mezzo al pubblico pensando: qualcuno qui ha il cancro, qualcuno ha il cuore spezzato, qualcuno ha perduto l’anima, qualcuno si sente nudo e straniero, pensa che un tempo conosceva la strada ma adesso non la ricorda più, si sente solo e privo di corazza, fra queste persone c’è qualcuno con le ossa rotte, altri che prima o poi se le romperanno, persone che hanno rovinato la propria salute, adorato le proprie menzogne, sputato sui propri sogni, voltato le spalle alle proprie convinzioni, sì, sì, e tutti saranno salvati. Tutti saranno salvati. Tutti saranno salvati.”

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