martedì 24 aprile 2012

We don't want a society without them


Today I was reading an article by Scott Timberg on salon.com, No sympathy for the creative class, and I was reminded of this Craigslist ad that a friend recently showed me.

"They’re pampered, privileged, indulged – part of the 'cultural elite,'" writes Timberg. "They spend all their time smoking pot and sipping absinthe. To use a term that’s acquired currency lately, they’re entitled. (...) This what we hear about artists, architects, musicians, writers and others like them. And it’s part of the reason the struggles of the creative class in the 21st century – a period in which an economic crash, social shifts and technological change have put everyone from graphic artists to jazz musicians to book publishers out of work – has gone largely untold. Or been shrugged off.
Neil Young and Bruce Springsteen write anthems about the travails of the working man (...) Taxpayers bail out the auto industry and Wall Street and the banks. There’s a sense that manufacturing, or the agrarian economy, is what this country is really about. But culture was, for a while, what America did best: We produce and export creativity around the world. So why aren’t we lamenting the plight of its practitioners? Bureau of Labor Statistics confirm that creative industries have been some of the hardest hit during the Bush years and the Great Recession. But  when someone employed in the world of culture loses a job, he or she feels easier to sneer at than a steel worker or auto worker. (...) The musicians, actors and other artists we hear about tend to be fabulously successful. But the daily reality for the vast majority of the working artists in this country has little to do with Angelina Jolie or her perfectly toned right leg. Artists in the Workforce,” a National Endowment for the Arts report released in 2008, before the Great Recession sliced and diced this class, showed the reality of the creative life. While most of the artists surveyed had college degrees, they earned — with a median income, in 2003-’05, of $34,800 — less than the average professional. Dancers made, on average, a mere $15,000. (More than a quarter of the artists in the 11 fields surveyed live in New York and California, two of the nation’s most expensive states, where that money runs out fast. The report has not been updated since 2008.)
'What does it mean in America to be a successful artist?' asks Dana Gioia, the poet who oversaw the study while NEA chairman. 'Essentially, these are working-class people – a lot of them have second jobs. They’re highly trained – dancers, singers, actors – and they don’t make a lot of money. They make tremendous sacrifices for their work. They’re people who should have our respect, the same as a farmer. We don’t want a society without them.'"

Read the rest of the article HERE.

8 commenti:

  1. Bellissimo articolo!!
    Ecco, non ho mai capito perchè molte persone considerino "lavoro" solo quello in ufficio o, peggio ancora, solo quello che produce fatica fisica.
    Essere imbrigliati in un sistema irregimentato dove qualcuno ti dice cosa devi fare e come lo devi fare (vedi per esempio un lavoro impiegatizio come il mio) è molto più semplice di uno in cui devi usare la tua creatività.
    Ed entrambi devono avere la stessa dignità.
    Mah!

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    1. Grazie Nega. Purtroppo sono sicura che quelli che la pensano come te sono una minoranza. E' un discorso lungo che rischia di diventare moralistico, perché coinvolge il concetto del valore che si dà alle cose. Resta il fatto che una delle cose che ho sempre amato negli Stati Uniti è il grande valore sociale che si è sempre assegnato all'arte, e che si è sempre tradotto in sostegno agli artisti, per mezzo di premi e aiuti in denaro ma anche semplicemente sotto forma di considerazione sociale. Perché quello dell'artista è considerato un lavoro, non una vocazione o un dono divino come in molte parti d'Europa, con il risultato che gli artisti americani in genere sono molto meno spocchiosi e pieni di sé che da noi.
      Ma naturalmente in tempo di crisi la prima cosa che viene considerata superflua è un bene "immateriale" come l'arte, che soddisfa una necessità "secondaria" come rendere migliore la vita delle persone.

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  2. Un articolo molto interessante, Silvia, grazie per averlo segnalato. Riflettevo sul ruolo dell'arte e su quanto gli artisti siano realmente valorizzati negli Stati Uniti proprio nei giorni scorsi, dopo aver letto che i casi di diniego di visti per gli USA per artisti stranieri sono in crescita esponenziale: http://www.visalawyerblog.com/2012/04/artist_visas_why_the_rate_of_d.html

    Credo che una società senza (o con poca) arte, sia una società molto povera, molto meno aperta al diverso e - in definitiva - molto meno libera.

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    1. Ah, che brutta notizia che mi dai, Gianluca! Pensa che io conosco diversi artisti che hanno avuto la Green Card come "alien of extraordinary ability", cioè proprio per meriti artistici (uno la sta ottenendo proprio in questo periodo), e altri che sono negli Usa con un "Artist Visa", e considerano ancora gli Stati Uniti come il posto migliore per lavorare. Come si dice nell'articolo, è l'arte in tutte le sue forme ad aver creato buona parte del mito americano, e se questo dovesse finire rimarremmo con un paese di capitalismo nudo e crudo, senz'altro poco bello da vedere.

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  3. già! Io sono cantante lirica di professione. Quando dico che faccio la cantante immancabilmente mi chiedono "sì, ma di lavoro cosa fai?". E' raro trovare persone che capiscono subito che è un lavoro. E in tempi di crisi i finanziamenti alla cultura sono i primi a partire.

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    1. Cantante lirica, che bellezza! Non sarà certo tutto rose e fiori, come già si capisce dal tuo commento (un po' come quando mi dicono: "traduttrice, che bellezza!"), però diciamo che svolto nelle condizioni ideali dev'essere senz'altro un lavoro bellissimo.
      E comunque certo, i finanziamenti alla cultura sono i primi a partire, perché, come dice qualche imbecille, "con la cultura non si mangia"...

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  4. come spesso accade nei post interessantissimi che Silvia scrive sul suo blog...mi sento chiamato in causa! :-)

    Sono proprio uno di quegli artisti che ha deciso di vivere negli USA per il loro sostegno "indiretto" all'arte contemporanea. Dico "indiretto" perche' in realta' i tempi delle "vacche grasse", in cui si potevano avere grants (borse) per artisti singoli (e non associazioni o corporazioni), e' finito ormai da un pezzo. Gli Americani usano lamentarsi dello "scarso sostegno" che negli USA e' dato agli artisti, guardando soprattutto a pochi, fortunatissimi paesi del Nord Europa (per esempio l'Olanda, la Svezia, alcuni stati dell'ex URSS come la Latvia, e in qualche misura il Regno Unito) dove di fatto molti artisti vengono sovvenzionati con i fondi statali, in maniera quasi totale. E' vero, qui in America non c'e' (o non c'e' piu') questa possibilita', ma c'e' un sostegno indiretto appunto, che consiste (mi piace usare il presente in maniera ottimistica) soprattutto nel considerare l'arte una forma elevatissima di espressione umana.

    Gli Americani, che vivono nel mito incondizionato dell'Europa e soprattutto dell'Italia, guardano all'arte come dei bambini, affascinati e senza pregiudizi; questo e' dovuto in gran parte al terreno giovane, all'assenza di un passato ingombrante, e ha favorito nell'ultimo secolo la produzione di opere in moltissimi campi, e la nascita di avanguardie ormai "storiche" (penso al cinema sperimentale, ma anche alla musica atonale, al jazz - nato qui ed evoluto in una delle piu' interessanti forme di musicalita' inter-culturale -, alla performance, oltre ad alcuni interessantissimi movimenti in campo pittorico).

    Oggi, in maniera molto piu' capillare e meno altisonante, la pratica artistica viene incoraggiata e riproposta in attivita' para-scolastiche, con l'ausilio di associazioni non-profit, che indirettamente vengono finanziate anche con sussidi federali. Io ho avuto modo di sperimentare questa realta', che in parte ha sostenuto (anche se con grandi sacrifici) la mia pratica artistica; ho ideato workshops e attivita' artistiche in collaborazione con associazioni non-profit e scuole, e l'esperienza a contatto con ragazzi adolescenti, considerati "a rischio", ha cambiato la mia vita per sempre...

    Io credo fermamente nel valore EDUCATIVO dell'arte (quando uso la parola arte intendo TUTTE le arti, visive, teatrali, ecc., inclusa la musica, importantissima!). L'arte come come studio del nostro patrimonio storico e culturale, e l'esercizio della creativita' come chiave di sviluppo in tantissimi campi (anche nell'economia! parlano tanto delle "capacita' creative dei manager"...ma poi tolgono lo studio dell'arte da tutti i percorsi scolastici!!!) , dovrebbe essere garantita a TUTTI, fin dai primi anni di vita.

    Non si studia l'arte per diventare artisti ed esporre nei musei, ma per diventare uomini e donne a tutto tondo, per imparare a guardare le cose da molteplici punti di vista, per sviluppare la tolleranza, per incoraggiare la ricerca di nuove soluzioni, per rielaborare i propri vissuti, per continuare a giocare...per dare un senso ai pensieri, ai sentimenti e alle emozioni che non trovano sfogo nella vita asservita all'unica logica del profitto, dell'utile, e del particolare.

    (Silvia, scusa se mi sono dilungato un po'!)

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    1. Macché dilungato, anzi, ti ringrazio moltissimo del commento. Potrei incorniciarlo! :-)

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