Un altro libro che ho tradotto con grande piacere è Ho sempre amato questo posto (Fine Just the Way It Is), della grande Annie Proulx, autrice nota in Italia soprattutto per il racconto Brokeback Mountain (contenuto nella raccolta Close Range: Wyoming Stories, pubblicata in Italia nel 1999 con la traduzione di Fenisia Giannini e Mariapaola Dettore) da cui è stato tratto il famoso film di Ang Lee.
Si narra che dopo aver raccontato le avventure dei due cowboy gay, Annie non sia più stata tanto ben vista nel bar dove andava a raccogliere storie, un locale frequentato appunto da cowboy vicino al suo ranch nel Wyoming.
Annie ha vinto anche il National Book Award (nel 1993) e il Pulitzer (nel 1994) con il bellissimo The Shipping News (pubblicato in Italia nel 1996 con il titolo Avviso ai naviganti e la traduzione di Edmonda Bruscella).
Ecco cosa scrive Antonio Monda su Repubblica, parlando di Ho sempre amato questo posto: "(...) Proulx ci consegna delle storie segnate da passioni grandi e infelici, e da un destino ineluttabile che sembra il contraltare della severità di una natura eterna, silenziosa e implacabile (...) Ron Carlson sul New York Times ha scritto che la Proulx, ormai settantatreenne, 'scrive come un diavolo', e l'itinerario drammatico dei personaggi, così come l'evoluzione delle storie, sembra che sottintendano un invito a condividere un senso tragico della vita, nel quale anche 'l' amore non porta nulla di buono' e persino 'morire' può essere 'noioso'. Questo pessimismo cosmico (...) viene accentuato dalla presenza imprescindibile di una violenza efferata, nei quali anche gli oggetti inanimati 'bramano il sangue'. I racconti (...) celebrano a modo loro i grandi spazi e le vite solitarie della gente del Wyoming."
Pubblico qui l'inizio del racconto Un padre di famiglia, il primo della raccolta Ho sempre amato questo posto, da me tradotta per Mondadori nel 2009.
"La Mellowhorn Home era un edificio di tronchi a un piano e a pianta irregolare, arredato in stile western: mobili rivestiti di stoffa a motivi geometrici 'indiani', paralumi con frange di pelle scamosciata. Alle pareti erano appese le teste di cervo mulo del signor Mellowhorn e una sega trasversale a doppio manico.
Era il periodo dell’anno in cui Berenice Pann avvertiva l’ingresso della terra nell’oscurità, non un buon periodo, pensava, per cominciare un lavoro, soprattutto se deprimente come accudire anziane vedove di allevatori. Ma aveva preso quello che aveva trovato. Non c’erano molti uomini nella casa di riposo Mellowhorn, e quei pochi erano così assediati dalle donne che Berenice li compativa. Aveva sempre creduto che la pulsione sessuale si affievolisse in tarda età, ma quelle megere si contendevano i favori di vecchi paralitici dalle grosse braccia tremolanti. Gli uomini potevano scegliere tra un vasto assortimento di vestaglie informi e scheletri a fiori.
I tre cani dei Mellowhorn, defunti e impagliati, montavano la guardia in punti strategici: accanto alla porta d’ingresso, alla base delle scale e di fianco al rustico mobile bar ricavato da vecchi pali di staccionata. Tre targhette pirografate conservavano i loro nomi: Joker, Bugs e Henry. Se non altro, pensò Berenice accarezzando la testa di Henry, da lì si godeva di una bella vista sulle montagne circostanti. Aveva piovuto tutto il giorno, e adesso i ciuffi d’erba spuntavano dalle tenebre sempre più fitte come ciocche di capelli ossigenati. Lungo un vecchio canale d’irrigazione i salici formavano una linea frastagliata color rosso cupo, e il laghetto artificiale ai piedi della collina era piatto come una lastra di zinco. Berenice si avvicinò a un’altra finestra per vedere la perturbazione in arrivo. A nord-ovest un gelido spicchio di cielo lattiginoso spingeva avanti la pioggia. Un vecchio sedeva davanti alla finestra della sala comune a contemplare l’autunno grigio. Berenice conosceva il suo nome, conosceva il nome di tutti: Ray Forkenbrock.
«Le porto qualcosa, signor Forkenbrock?» Ci teneva a chiamare i residenti con l’appellativo adeguato, a differenza degli altri membri del personale, prodighi di nomi propri come se lì dentro fossero tutti amici di vecchia data. Deb Slaver si prendeva fin troppa confidenza, e inframmezzava i vari 'Sammy', 'Rita' e 'Delia' con una sfilza di 'tesoro', 'cara' e 'bellezza'.
«Sì» disse il signor Forkenbrock. Parlava con lunghe pause tra una frase e l’altra, un lento succedersi di parole che facevano venir voglia di suggerirgli il resto della frase.
«Portami via di qui» disse.
«Portami un cavallo» disse.
«Portami indietro di settant’anni» disse.
«Questo non posso farlo, però posso portarle una bella tazza di tè. E fra dieci minuti comincia l’Ora Sociale» disse Berenice.
Non riuscì a guardarlo negli occhi. Aveva una presenza notevole, malgrado la faccia ordinaria, con la bocca sdentata e il collo scarno. Erano gli occhi. Li aveva molto grandi, spalancati e di un azzurro chiarissimo, come un blocco di ghiaccio rotto con il punteruolo: un celeste pallido con raggi cristallini. In fotografia sembravano bianchi come gli occhi delle statue romane, e solo i puntini neri delle pupille li salvavano dallo sguardo cieco delle statue. Quando la guardava con quegli strani occhi bianchi, Berenice non capiva più niente di quello che le diceva. Il signor Forkenbrock non le piaceva, malgrado fingesse di trovarlo simpatico. Le donne dovevano fingere di apprezzare gli uomini, di avere i loro stessi interessi. Sua sorella aveva sposato un uomo appassionato di pietre, e adesso le toccava accompagnarlo in giro per deserti e montagne."