venerdì 22 aprile 2011

An evening with Lydia Davis/2: Madame Bovary.1

Come dicevo nel post di ieri, l'altra sera sono andata a sentire Lydia Davis che parlava della sua traduzione di Madame Bovary.
Lydia Davis mi piace molto come scrittrice, e da come scrive sapevo che mi sarebbe piaciuta anche di persona. E infatti mi è subito piaciuta la sua placida ironia, mi è piaciuto il suo modo di avere opinioni ben precise senza tuttavia prendersi troppo sul serio. E mi è piaciuto soprattutto come ha parlato di traduzione, con un approccio pratico, concreto, basato su esempi tratti dal suo lavoro assiduo e minuzioso sul testo. Niente teorie, niente sofismi, niente voli pindarici. Solo lei e un libro pieno di post-it. ("So che dovrei dire Sciarl, alla francese, ma mi riesce troppo difficile, quindi dirò Ciarls".)

Lydia Davis ha parlato del suo lavoro su Madame Bovary in una serie di articoli che ha scritto per The Paris Review. Li potete trovare qui. Ho trovato molto interessante rileggerli dopo averla sentita parlare. E dato che l'argomento è complesso e affascinante, ho deciso di trattarlo in una serie di post, nei quali metterò insieme le cose che ho sentito raccontare da Davis con altre che ho letto nel suo diario di traduzione.

Davis comincia raccontando che, dopo aver accettato di ritradurre Madame Bovary (anche se il romanzo non l'aveva mai entusiasmata: il suo Flaubert preferito è infatti quello di Bouvard et Pécuchet), scoprì che esisteva un numero enorme di traduzioni dello stesso libro, più o meno una ventina. In genere, a parte quando aveva ritradotto Du côté de chez Swann (di cui esistevano due traduzioni precedenti, quella di C. K. Scott Moncrieff fatta durante gli anni '20 e '30, e una di un irlandese-australiano, James Grieve, pubblicata nel 1982 e quasi introvabile negli Usa), Davis aveva sempre lavorato su opere mai tradotte in precedenza. Questa volta, dunque, si procurò quasi tutte le altre traduzioni, con la speranza di poter copiare una frase qua e là ("lift", dice, aggiungendo che non se ne sarebbe affatto vergognata), per poi scoprire che gli altri traduttori si erano già copiati a vicenda.
Ma perché, si chiede Davis nel primo dei suoi articoli, tradurre di nuovo Madame Bovary?

Nel caso di un libro pubblicato più di 150 fa, e così importante per la storia del romanzo, ci possono essere più ragioni per voler effettuare una nuova traduzione, come per esempio la necessità di adeguare la traduzione a una versione dell'originale posteriore e più filologicamente corretta, oppure la ricerca di una traduzione più fedele, laddove i primi traduttori potevano aver alterato lo stile e perfino il contenuto per adattarli a un pubblico straniero. Ma anche semplicemente il desiderio di un traduttore di misurarsi con la ritraduzione di un classico.
Confrontando le varie traduzioni, Davis rimase sorpresa dalla loro scarsa aderenza all'originale. Quando un libro è ben scritto, infatti (e in questo sono completamente d'accordo con lei), basta mantenersi il più possibile vicini all'originale ("very close, not slavishly literal") per riuscire a conservarne il tono.
Eppure ogni versione era, a suo modo, diversa dall'originale e diversa dalle altre. Quanti modi, per esempio, per tradurre una sola espressione: bouffées d’affadissement:
  • gusts of revulsion (Davis)
  • a kind of rancid staleness 
  • stale gusts of dreariness 
  • waves of nausea 
  • fumes of nausea 
  • flavorless, sickening gusts 
  • stagnant dreariness 
  • whiffs of sickliness 
  • waves of nauseous disgust 

Davis conclude dicendo che a suo parere una traduzione superlativa può diventare immortale, ma ciò non significa che altri traduttori non possano cimentarsi nell'impresa. "The more the better, in the end." 

[Seconda parte. Continua.]

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