La notizia della mamma californiana che fa causa alla Nutella per pubblicità ingannevole e fa partire una class action che costringerà la Ferrero USA Inc. a pagare un risarcimento di più di tre milioni di dollari mi aveva lasciato piuttosto indifferente. Un sorrisino di scherno per la solita californiana salutista rompiscatole, niente di più. Non che fossi dalla parte della multinazionale, però trovavo un po' esagerata la posizione ipersalutista.
Poi, questa mattina, ho letto un interessante articolo di Luca Celada su Losangelista e ho cambiato idea sulla signora Athena Hohenberg. Sarà anche una rompiscatole, però ha ragione. Ecco cosa dice l'articolo di Celada:
"(...) La società, che in materia di disinformazione
pubblicitaria è recidiva, dovrà modificare le etichette sulle
confezioni vendute in America per riflettere più chiaramente che
l’alimento in questione contiene zuccheri e grassi saturi in quantità
tipiche dei dolciumi e risarcire ogni consumatore che l’abbia acquistata
negli ultimi quattro anni e che ne faccia richiesta. Al solito la
notizia ha suscitato numerosi commenti sul vittimismo di chi farebbe
meglio ad usare il buonsenso invece di correre a piangere in tribunale
per qualsiasi inezia. A noi però sembra che fondamentalmente la storia
riproponga la questione della protezione dei consumatori al tempo
dell’alimentazione industriale. La Ferrero e la sua crema avranno pure
origini radicate in tradizioni più artigianali di molti cibi di massa,
ma stiamo pur sempre parlando di una multinazionale agroalimentare con
un fatturato di 6 miliardi di euro, 20000 dipendenti e un’impronta
globale di dolciumi mirati ai bambini in un momento di obesità endemica
ed esplosione di patologie legate all’alimentazione squilibrata. Una
posizione che nel mondo competitivo dell’alimentazione di massa si
raggiunge e si mantiene solo con una massiccia operazione di marketing
come la Ferrero fa dai tempi di Carosello; ancora più della qualità
della cioccolata il genio dell’azienda è stato l’imprinting a tappeto
di generazioni di consumatori mediante 'narrative' sui loro dolci, fra
cui quella di come siano 'sani e genuini'. Ora l’opposto della
pubblicità è l’informazione, ad esempio sugli ingredienti e sulle
qualità nutritive dei prodotti venduti, e non a caso le lobby del
settore sostengono costanti campagne contro norme di trasparenza in
materia.
Più singolare è invece l’attitudine della nostra stampa, che
in questioni di Nutella sembra interpretare il proprio ruolo come
difensore dell’onore della multinazionale italiana dagli attacchi del
subdolo straniero. Sia Repubblica che il Corriere riportando la notizia
hanno lasciato l’ultima parola alla società, trascrivendo ampi stralci
del comunicato della Ferrero; Repubblica gli dedica 2 di 4 paragrafi del proprio articolo e conclude con lo slogan integrale della società: “L’utilizzo
di Nutella a prima colazione con pane, latte e frutta nelle quantità
suggerite – conclude la Ferrero – rimane un utilizzo raccomandato da
numerosi studi scientifici di alta rilevanza internazionale nel quadro
di una dieta equilibrata e gustosa, che come dice la pubblicità, fa più
buona la vita”. Ah beh, se lo dice pure la pubblicità… appunto. Anche dal Corriere ampio risalto al comunicato aziendale in cui si legge tra l’altro che «L’accordo
transattivo raggiunto da Ferrero negli Stati Uniti è relativo al solo
contenzioso nato dalla pubblicità trasmessa negli Stati Uniti e alla
conformità di quest’ultima alle esigenze della legislazione americana.
Non vi è nessun tipo di necessità di correggere da parte dell’azienda i
suoi comportamenti commerciali e pubblicitari negli altri paesi ». Meno
male, così non ci dobbiamo metterci a leggere tutte quelle parole
noiose scritte piccole piccole sull’etichetta come quegli sfigati
californiani. Tiè! (...)
Quadrato insomma attorno alla crema nazionale, e al nostro diritto di
non sapere cosa ci mangiamo. Un autolesionismo efferato, che ricorda
quello degli elettori repubblicani che marciano per il diritto a non
essere curati perché la previdenza sanitaria è un concetto socialista. E così i consumatori italiani e europei per il momento sono
salvi dalle informazioni sugli ingredienti che mangiano. In realtà
sull’etichettatura non è che si brilli né da una parte né dall’altra
dell’Atlantico. Le multinazionali combattono la trasparenza con medesimo
vigore in Europa e USA dove ad esempio le etichette non riportano la
presenza di ingredienti OGM, (...) ma non ci sembra una buona
ragione perché anche i giornali si debbano schierare per il diritto
all’ignoranza a difesa dei produttori. Come dimenticare il putiferio
sollevato un paio di anni fa quando la UE tentò di applicare le norme
sui valori nutrizionali scatenando l’allarme di ansimanti titolatori: “La Ue dichiara guerra al mito Nutella”, “Allarme: Nutella a Rischio”.
(...) Accanto alla tutela del made in Italy (...) l’argomento che spunta regolarmente in questi casi è quello
del buonsenso per cui 'veramente abbiamo bisogno di uno stato-balia che
ci spieghi che lo zucchero fa ingrassare?' La mamma californiana che ha
denunciato la Ferrero perché i suoi spot l’avevano convinta a cibare
ogni mattina la propria bimba di zucchero e olio di palma anziché
cereali e frutta sarà anche ingenua, ma il fatto che abbia prodotto
delle etichette più oneste francamente non dispiace. Va bene imprinting e patriottismo, ma davvero vogliamo batterci per il diritto delle
corporation a raccontarci le frottole?"