Successo di recente: mi sono ritrovata in mezzo a un gruppo di adolescenti avvolti in una spessa nube di fumo di marijuana, che mi guardavano storto perché avevo in mano una sigaretta.
E 'sti cazzi
La foto qui sopra (a destra in dettaglio) è la finestra di un albergo di Bolinas, il paese che si nasconde. Presto un post al riguardo.
(Update: as Elle suggested in the comments, and as my Chinese-speaking friend Cristina confirms, the sign actually means: "Danger, please don't play here")
Tutti i professionisti, tutti i corsi e
i laboratori di Langue&Parole formazione sono sempre stati
concentrati sull’aspetto più concreto e pratico della traduzione. Ogni
nostro sforzo è sempre stato dedicato all’artigianalità del tradurre:
come in una bottega. I seminari, la revisione sui testi e gli incontri
personalizzati sono la nostra normale pratica di lavoro. Ora tutto
questo è applicato alla parte più creativa: la letteratura. Laboratorio
applicativo di traduzione letteraria, con la collaborazione di due
esperte traduttrici, Federica Aceto e Silvia Pareschi.
Ci avvicineremo a grandi romanzi di autori contemporanei. Un
laboratorio nel senso più vero della parola: un confronto con i testi e
con i traduttori, esercizi di traduzione e testimonianze professionali.
“Questo
laboratorio vuole essere un esperimento creativo per chi ha voglia di
affrontare la letteratura nella sua concretezza. Per chi ha voglia di
aggiornarsi con le parole, attraverso le parole."
Struttura del Laboratorio:
Lingua di lavoro: inglese CORSO INTERAMENTE ONLINE/ELEARNING
Organizzazione: Cinque
settimane di laboratorio, quattro romanzi da affrontare, quattro autori
da capire, quattro incontri con chi ha lavorato sui testi, due
esercitazioni di traduzione.
2 incontri con LANGUE&PAROLE: con
noi sono previsti due incontri collettivi. Il primo appuntamento
introduttivo agli argomenti e allo scopo del seminario; il secondo sarà
invece alla fine del laboratorio come sintesi e conclusione.
4 incontri collettivi:
(due con Federica Aceto e due con Silvia Pareschi) di confronto sulla
traduzione dei romanzi, con esempi pratici. La storia personale di come
si può capire un autore e restituire un testo
2 laboratori applicativi:
degli autori proposti ogni partecipante potrà tradurre due brani
(indicati a inizio del laboratorio). Dopo gli con incontri collettivi
con le due traduttrici, seguirà una revisione personalizzata e un
appuntamento di raffronto individuale sull’elaborato (con i revisori di
Langue&Parole).
Materiale didattico e insegnanti: ogni partecipante
riceverà una breve raccolta di appunti di presentazione degli autori e
dei romanzi; una presentazione da parte delle due traduttrici sul loro
lavoro e sulla loro esperienza legata ai testi del laboratorio.
FEDERICA ACETO
ALI SMITH, There but for the STANLEY ELKIN, Searches&Seizures
SILVIA PARESCHI
JONATHAN FRANZEN, The Corrections AMY HEMPEL, At the Gates of the Animal Kingdom
Federica Aceto: nata a
Formia nel 1970, ha studiato Lingue e Letterature Straniere a Napoli,
per poi conseguire un MA in Letteratura Anglo-Irlandese a Dublino e un
Master in Mediazione Linguistica e Culturale a Roma. Ha vissuto per
diversi anni in Irlanda, dove ha lavorato come lettrice presso il
dipartimento di italianistica dello University College Dublin. Ha
tradotto una quarantina di libri di narrativa. Tra gli autori da lei
tradotti: Ali Smith, A.L. Kennedy, Stanley Elkin, J.G. Ballard, Martin
Amis e Don DeLillo. Ha anche curato la revisione delle traduzioni in
italiano di autori quali David Foster Wallace, Jonathan Franzen e Thomas
Pynchon.
Silvia Pareschi: lavora
come traduttrice letteraria da più di dieci anni. Fra gli autori da lei
tradotti, oltre a Jonathan Franzen (tra i tanti titoli, citiamo Le
correzioni, Einaudi 2002, e Libertà, Einaudi 2011), figurano Cormac
McCarthy (Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002), Don DeLillo
(Cosmopolis, Einaudi 2003, Running Dog, Einaudi 2005), Amy Hempel (Ragioni per vivere. Tutti i
racconti, Mondadori 2009), Nathan Englander (Il Ministero dei casi
speciali, Mondadori 2009), Junot Díaz, E. L. Doctorow, Denis Johnson, Annie Proulx, David Means e T. C. Boyle. Attualmente sta
traducendo Love in a Cold Climate di Nancy Mitford. Vive a metà fra
l’Italia e San Francisco, insieme al marito, l’artista e scrittore
Jonathon Keats, di cui ha tradotto in italiano una raccolta di racconti,
Il libro dell’ignoto. Quando è negli Stati Uniti, oltre a tradurre,
insegna italiano agli americani. Dopo la laurea in Lingue e Letterature
Straniere, ha seguito il Master in Tecniche della narrazione alla scuola
Holden di Torino. Durante un seminario sulla traduzione, è stata notata
dalla docente, Anna Nadotti, che l’ha segnalata alla casa editrice
Einaudi. È stata quindi “scoperta” da Marisa Caramella, l’editor che le
ha affidato la sua prima traduzione in assoluto, Le correzioni di
Jonathan Franzen. Il suo blog è http://ninehoursofseparation.blogspot.com
Obiettivi del laboratorio: lo
scopo di questo laboratorio di aggiornamento professionale è il
confronto. Confronto con chi ha tradotto molto e autori impegnativi, con
il testo, con le proprie capacità, con chi ha sempre voglia di crescere
e migliorarsi. Questo laboratorio vuole essere un esperimento creativo
per chi ha voglia di affrontare la letteratura nella sua concretezza.
Per chi ha voglia di aggiornarsi con le parole, attraverso le parole.
A chi si rivolge:
considerando la complessità dei brani affrontati, il lavoro è adatto
soprattutto a chi ha già qualche esperienza di traduzione. Non è
d’obbligo che questa esperienza sia in campo editoriale o letterario. La
natura di questo laboratorio è puramente artigianale: la voglia di
confrontarsi, in modo aperto e non accademico, con i testi, i traduttori
e gli altri partecipanti è l’unico requisito indispensabile.
Ho parlato spesso di Venivamo tutte per mare, il bellissimo libro di Julie Otsuka che ho avuto l'onore e il piacere di tradurre. In particolare vi rimando a questo post, a questa intervista sul blog Biblioteca giapponese e a questa recentissima recensione sul blog Anarene di Roberto Manassero.
Ieri Julie Otsuka ha vinto il prestigioso PEN/FAULKNER Award (“In The Buddha in the Attic Julie Otsuka
creates a voice that is hypnotic and irresistible, and renders her
story with the power of the most ancient, timeless myths, the legends
that crowd our dreams, and the truths we cannot bear. Her skill is
awesome and utterly inspiring. The story she tells with the ear of a
poet, the touch of an artist, and the wisdom of a very old soul is
breathtaking in its scope and intimacy. This slender volume simply stole
my heart,” said judge Marita Golden), e oggi ho deciso di darvi un assaggio del primo libro di Julie Otsuka, When the Emperor Was Divine, che comincerò presto a tradurre.
In questo libro, uscito nel 2003, Otsuka racconta la storia della deportazione di una famiglia nippo-americana in un campo di concentramento nel deserto dello Utah, all'inizio degli anni '40. Eccone due brevi assaggi: il primo è la scena in cui il padre viene portato via dagli agenti dell'FBI, il secondo è un'immagine dalla scena del suo ritorno.
"In the morning she had sent all of the boy's father's suits to the
cleaners except for one; the blue pin-striped suit he wore on his last
Sunday at home. The blue suit was to remain on the hanger in the closet.
'He asked me to leave it there, for you to remember him by.' But
whenever the boy thought of his father on his last Sunday at home he did
not remember the blue suit. He remembered the white flannel robe. The
slippers. His father's hatless silhouette framed in the back window of
the car. The head stiff and unmoving. Staring straight ahead. Straight
ahead and into the night as the car drove off slowly into the darkness.
Not looking back. Not even once. Just to see if he was there."
“Because the man who stood there before us was not our father. He was
somebody else, a stranger who had been sent back in our father's place.
That's not him, we said to our mother, That's not him, but our mother no
longer seemed to hear us... 'Did you...' she said. 'Every day,' he replied. Then he got down on his knees and he took us into his arms...”
E mentre si parlava di film, e mentre pensavo che voglio fare la lista dei dieci attori più bravi ma poi anche quella dei dieci attori più sexy, ho trovato questa. Mi sembra che per oggi possa bastare.
Paul Newman e Joanne Woodward, la coppia più bella e duratura di Hollywood (50 anni di matrimonio)
Raccolgo la sfida giocosa di Andrea Rényie pubblico la lista dei miei dieci film preferiti. Alcuni si sono lamentati perché dieci libri erano pochi. Be', io ho avuto gravissimi problemi a scegliere dieci film. Tanto che ho deciso di barare, e di pubblicare presto una lista di altri film che mi piangeva il cuore a lasciar fuori da questa.
Sono in maggioranza film americani, ma io sono un'americanista, quindi sono giustificata, no? Eccoli qua, rigorosamente in ordine sparso.
La donna che visse due volte (Vertigo, Alfred Hitchcock, 1958). Per Hitch (un film per rappresentarli tutti), per Kim Novak e Jimmy Stewart, per San Francisco (nella foto: Fort Point. Pare che Hitch, seccato con Novak che si lamentava del suo guardaroba poco glamour, l'abbia costretta a ripetere 25 volte la scena in cui si tuffa nell'oceano).
Amarcord (Federico Fellini, 1973). Fellini, di nuovo una parte per il tutto. Per il Transatlantico Rex. Per Ciccio Ingrassia che grida "Voglio una donna!" Per il nonno che esce di casa, si ritrova immerso nella nebbia e dice: "Ma guarda che roba…non si vede proprio niente… ma
dov’è che sono? Certo, se la morte è così non è mica una bella cosa".
Thelma & Louise (Ridley Scott, 1991). Pertutte le volte che ho detto "dai, facciamo come Thelma e Louise" (non prima di buttarmi da un dirupo). Perché ho sempre voluto essere Susan Sarandon. E per la prima apparizione di Brad Pitt.
Manhattan (Woody Allen, 1979). Per la colonna sonora. E per Diane Keaton che dice "I'm from Philadelphia; we believe in god".
Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, Wim Wenders, 1987). Per Bruno Ganz. E per Peter Falk che si sfrega le mani davanti a una tazza di caffè.
Daunbailò (Down by Law, Jim Jarmusch, 1986). Per New Orleans e le paludi in bianco e nero, fotografate in modo eccezionale. Per la colonna sonora più perfetta che abbia mai sentito. Perché Tom Waits è il mio idolo. Perché John Lurie, oltre a essere un ottimo musicista, era anche molto sexy. Perché Benigni che parla in inglese è una delle cose più memorabili che mi sia mai capitato di vedere. E perché per molto tempo ho usato questo film come test per valutare l'affinità con gli uomini: se non amavano Daunbailò, con me non avevano neppure una chance.
Lolita (Stanley Kubrick, 1962). Per Kubrick (anche qui, una parte per il tutto) e per il sommo Peter Sellers. Di entrambi metterei l'intera cinematografia (escluso Arancia Meccanica, che non riesco a guardare nemmeno se mi legano alla sedia).
Chinatown (Roman Polanski, 1974). Per Jack Nicholson. Ma anche per Faye Dunaway e John Huston. E per "Forget it, Jake, it's Chinatown".
La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, Charles Laughton, 1955). Per Robert Mitchum, per Shelley Winters (che appare due volte in questa lista, anche in Lolita. E adesso che ci penso, ha praticamente lo stesso ruolo in entrambi i film) e Lillian Gish. E per il mio meraviglioso maestro di cinema, Bruno Fornara, che mi ha fatto conoscere questa perla.
Jules e Jim (Jules et Jim, François Truffaut, 1962). Per Jeanne Moreau.
The pennycandystore beyond the El is where I first fell in love with unreality Jellybeans glowed in the semi-gloom of that september afternoon A cat upon the counter moved among the licorice sticks and tootsie rolls and Oh Boy Gum
Outside the leaves were falling as they died
A wind had blown away the sun
A girl ran in Her hair was rainy Her breasts were breathless in the little room
Outside the leaves were falling and they cried Too soon! too soon!
826 Valencia, nel Mission District,è il famoso indirizzo dellascuola di scrittura non-profit fondata da Dave Eggers, oltre che della famosa casa editriceMcSweeney’s,e del famosoPirate Store.
Sopra
l’insegna del negozio, un'illustrazione di Chris Wareracconta lo sviluppo parallelo dell'uomo e della comunicazione.
Sotto l'insegna, nella vetrina, si susseguono installazioni di artisti locali. Una di questi è la nostra amica Lynn Rubenzer, che lavora spesso con i manichini.
Ecco alcuni esempi dei suoi lavori per la vetrina di 826 Valencia.
Se ne parla moltissimo, in questi giorni. Il 26 febbraio scorso, il diciassettenne Trayvon Martin è stato ucciso da un volontario del neighborhood watch (sorta di vigilantes di quartiere) a Sanford, in Florida. Quel giorno il ventottenne George Zimmerman venne insospettito dall'aspetto chiaramente losco del ragazzino che potete vedere qui a fianco, il quale si aggirava per una gated community (quartiere residenziale recintato) con indosso un loschissimo hoodie, una felpa con cappuccio. Trayvon, che stava andando a casa del padre dopo aver fatto la spesa, armato di un sacchetto di Skittles e una lattina di tè freddo, venne seguito dal vigilante Zimmerman, il quale, dopo aver chiamato il 911 e aver ricevuto l'ordine di non seguire il ragazzo, decise lo stesso di seguirlo e di sparargli, ammazzandolo. La versione è confermata da testimoni, che hanno sentito il ragazzo chiedere aiuto e poi gli spari.
Quello che distingue questa storia da altre altrettanto orribili è il seguito agghiacciante che finora ha avuto. Zimmerman, reo confesso, non è stato arrestato. C'è una legge, in Florida, che si chiama “Stand Your Ground”, e che altera la tradizionale definizione di legittima difesa: il cittadino che si sente minacciato, anziché tentare prima la fuga, ha il diritto di sparare per primo. Secondo questa legge, il sospettoso Zimmerman avrebbe avuto il diritto di sparare al losco ragazzino nero con cappuccio. E di sparargli alle spalle, a quanto pare ("And two women who live near the shooting scene have said that Martin was
lying face-down, with Zimmerman looming over him, after he was shot. 'If it was self-defense, why was he [Zimmerman] on Trayvon’s back?' one of the witnesses, Mary Cutcher, told CNN in an interview." Il resto dell'articolo qui.)
E se il ragazzino fosse stato bianco? E se Zimmerman, anziché sudamericano di pelle chiara, fosse stato nero? Se lo chiedono in molti.
Il quinto capitolo del libro di David BellosIs That a Fish in Your Ear, intitolato "Fictions of the Foreign: The Paradox of 'Foreign-Soundingness'", cita, fra l'altro, due splendidi esempi di gibberish(insieme di parole senza senso) creato per suonare "straniero". Nel primo caso, per suonare francese (o meglio, come dice Bellos, "Generic Immigrant Romance") a orecchie inglesi, e nel secondo caso per suonare inglese a orecchie italiane. I risultati sono due capolavori.
Il primo esempio vede come protagonista Charlie Chaplin in Tempi moderni. La canzone è Je cherche après Titine, ma le parole sono inventate. Bellos ne trascrive il testo, a orecchio (e per lettori di lingua inglese), a pag. 47-48 del suo libro.
Se bella giu satore Sa montia si n'amura
Je notre so cafore La sontia so gravora
Je notre si cavore La zontcha con sora
Je la tu la ti la toi Je la possa ti la toit
La spinash o la bouchon Je notre so lamina
Cigaretto Portabello Je notre so consina
Si rakish spaghaletto Je le se tro savita
Ti la tu la ti la toi Je la tossa vi la toit
Senora pilasina Se motra so la sonta
Voulez-vous le taximeter? Chi vossa l'otra volta
Le zionta su la sita Li zoscha si catonta
Tu la tu la tu la oi Tra la la la la la
Il secondo esempio, quello del gibberish che suona inglese a orecchie italiane, è naturalmentePrisencolinensinainciusol di Adriano Celentano, qui proposto in una versione con sottotitoli, aggiunti da una persona di madrelingua inglese che cerca di "tradurre" la lingua inventata di Celentano. I risultati sono esilaranti, dal poco politiamente corretto "let a hooray maybe if the colored boss died", a "My eyes like sizziling and you're so gold with diesel. Eyes!", al ritornello: "You call me silver freezing cold and ants and I tools old. All right?" (con la variante "You done gone and made us jaywalk freezing cold and lacing our shoes off. All right?").
E il balletto è fantastico e Raffaella Carrà un mito.
Al momento di correggere questa frase del tutto innocua (esercizi di grammatica sui verbi modali. "Può" viene spesso pronunciato "puah"), i miei studenti mi guardano con gli occhi sgranati. Cosa c'è di strano, penso, qui gli uomini sono ben più abituati che in Italia ad aiutare in casa, no?
E poi mi viene in mente. Lo stramaledetto latte. Faccio un profondo respiro e spiego: "Ok, latte in italiano non vuol dire quello che pensate voi". Occhi ancora più sgranati. "If you ask for a latte in Italy, you don't get coffee with milk. What you get is a glass of milk".
Io bevo di rado il caffè fuori casa, e ancora più di rado metto piede da Starbucks (il principale responsabile del fenomeno linguistico che definirei "furto del latte"), e così non avevo ben chiaro quanto il "nuovo" significato del latte fosse diffuso da queste parti. Sì, perché è vero che sul menu di Starbucks c'è scritto Caffè Latte, ma per comodità si è cominciato a chiamarlo "Latte", e ora tutti pensano che anche in Italia quella broda marroncina si chiami latte.
Tempo fa avevo letto un interessante articolo sul "New Yorker" che parlava della cultura del caffè in America (l'articolo ripercorre le "tre fasi" del caffè negli Usa: da Maxwell House a Starbucks all'attuale ondata di caffè gourmet da fighetti, dove la gente si mette in coda per bere una tazza di caffè proveniente da una specifica piantagione in una specifica annata con una specifica tostatura, preparato con un metodo specifico che richiede qualcosa come dieci minuti per tazza. Questi locali, come il Blue Bottle di Oakland e San Francisco, hanno lunghi menu, cupping rooms per la degustazione e prezzi che partono da $6 a tazza).
Il caffè gourmet
Leggendo l'articolo - che il "New Yorker" ha messo online solo per gli abbonati, ma che qualcuno ha postato ugualmente qui - mi ero stupita di come i famosi fact-checkers della rivista avessero lasciato passare frasi come: "in 1983, during a business trip to Italy, he [Howard Schultz, CEO di Starbucks] tried latte for the first time"; e: "He retells the story of his magical trip to Italy, and talks about the
country's seductive espresso-bar culture. But one drink is conspicuous
by its absence from the story: latte".
Giù le mani dal latte!
A parte le baggianate come "his magical trip to Italy", sembrava proprio che a nessuno fosse venuto in mente che la parola "latte" potesse significare qualcosa di diverso da quella broda marroncina.
Ora, io adoro la creatività dell'inglese, e mi fanno simpatia persino parole dal suono non proprio musicale come "frappuccino", perché credo che ognuno sia libero di inventarsi le parole che vuole. Ma rendermi conto che un intero paese è convinto che in Italia chiamiamo latte quella broda marroncina mi ha suscitato, diciamo, una certa perplessità.
Visto che in questi giorni qualcuno è arrivato sul blog cercando la frase "botanico francese dai capelli verdi", colgo l'occasione per pubblicare la seconda parte del post sul giardino verticale creato da Patrick Blanc (quello con i capelli verdi, appunto) sui muri della Drew School di Pacific Heights.
L'avevo visto allo stadio iniziale, con qualche ciuffetto verde che spuntava dalla copertura dei muri, e qualche giorno fa sono andata a rivederlo. Dopo quasi un anno, ecco com'è diventato.
Ispirata da questo articolo di Flavorwire che parla dei libri preferiti di dieci famosi autori (da cui si scopre che David Foster Wallace, per esempio, amava Paura di volare e Il silenzio degli innocenti, e che la lista di Franzen è più lunga di Libertà), mi sono divertita a pensare ai miei dieci libri preferiti in assoluto.
La cosa più difficile, naturalmente, non è stata trovarli, quanto limitarli a dieci. L'unica regola: nessuno tradotto da me (e nella lista ce ne sarebbe stato sicuramente uno).
Eccoli qui, in ordine rigorosamente casuale.
Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby. Per una scrittura che è puro godimento dei sensi.
Vladimir Nabokov, Lolita (traduzione di Giulia Arborio Mella). Per tutto. Per "Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia." Per la splendida traduzione. E anche per il film di Kubrick.
Fëdor Dostoevskij, L'idiota (traduzione di Alfredo Polledro). Uno per tutti, ma potrebbe essere anche uno qualsiasi degli altri suoi libri. Nella disputa fra gli amanti di Tolstoj e quelli di Dostoevskij, non ho mai avuto dubbi su chi scegliere.
Jane Austen, Pride and Prejudice. Per Mr. Darcy, ovvio.
Gabriel García Márquez, Cent'anni di solitudine (traduzione di Enrico Cicogna). Per la pioggia di fiori gialli dopo la morte di Josè Arcadio Buendìa.
Michail Bulgakov,Il Maestro e Margherita (traduzione di Vera Drisdo). Per Margherita, per Ponzio Pilato, per Woland e per il tram che decapita Berlioz.
Philip Roth,American Pastoral. Anche in questo caso, una parte per il tutto. Per "the Swede", uno dei personaggi più grandi della letteratura americana.
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Perché ho amato rileggerla da grande.
Christa Wolf, Cassandra (traduzione di Anita Raja). Perché è un libro potente su una figura potente.
Lewis Carroll,Alice in Wonderland. Perché non c'è bisogno che spieghi perché.
Candy Chang è un'artista e designer che nel novembre 2010, a New Orleans, ha dato inizio al progetto I Wish This Was. A New Orleans, la città di Candy, ci sono molti negozi vuoti, e anche molte persone che hanno bisogno di servizi. E così, con una combinazione di street art e pianificazione urbana, Candy ha
creato degli adesivi con la scritta, appunto, "I Wish This Was" (sul sito si trova anche un disclaimer per i pedanti che hanno protestato per l'uso di "was" al posto di "were". Così scrive Candy: "I’ve received a few comments from people who are
telling me that 'I wish this was' should be 'I wish this were' because
this would be the proper use of the subjunctive mood. I hear you, and the last thing I want is to be an enemy of proper grammar. Long discussions
on the topic suggest that both usages are acceptable. This project is
about striking up a casual conversation in the city, and most people,
including smart ones, say 'I wish this was' in daily conversation. And
it just sounds right in this context. I hope you understand! Don’t hurt
me!").
Con il sostegno diEthnographic Terminalia, Candy ha disposto
scatole di adesivi gratuiti in giro per la città, e ne ha attaccati altri sulle vetrine dei negozi vuoti per invitare i passanti a scrivere i loro pensieri (gli adesivi possono venire facilmente rimossi senza danno). Le
risposte andavano dal funzionale al poetico: un mercato agricolo a prezzi accessibili, un ristorante cinese, un posto per
sedersi e parlare, la casa di Brad Pitt, una scuola di danza, il paradiso. Il progetto si è esteso alle città di tutto il mondo. Gli adesivi si possono comprare sul sito e sono disponibili in diverse lingue.
In questo periodo i traduttori godono di una certa attenzione. Mentre la rubrica di Baricco sulla Repubblica esce finalmente con il nome del traduttore sia nell'edizione cartacea sia in quella online, e mentre anche il Fatto Quotidiano pubblica un articolo sui traduttori (ecco, non vorrei essere troppo esigente, però magari la prossima volta proviamo con qualche titolo nuovo? La vita agra e Lost in Translation sono, come dire, un tantino abusati), sta per uscire in Italia un libro molto interessante.
Brice Matthieussent
La prima volta ne parlò la scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal, in questo articolo apparso sulla Stampa nel 2009. L'articolo annunciava l'uscita, in Francia, del libro Vengeance du traducteurdi Brice Matthieussent, parlandone così:
"Ma perché non l’ho scritto io, un libro così? Perché? (...) È un romanzo, ma anche e soprattutto un atto di sfida al mestiere che
io, lui e tanti altri come noi fanno da secoli. Con passione e
devozione, o meglio con un alchemico insieme delle due cose, che è
l’unico vero segreto di cui un traduttore letterario disponga. Questo
signore, che ha fatto? Ha tradotto un libro e l’ha cancellato, lasciando
«soltanto» (si fa per dire) centinaia di pagine di note a margine,
commenti caustici, dotti sfoggi di erudizione, appunti sintattici,
remoti riferimenti letterari a piè di pagina del libro che stava
traducendo. Che ha, per vendetta, fagocitato. Espunto. Anche
graficamente: il romanzo ha tutta la parte superiore della pagina
bianca, e un lungo tratto che separa il testo (soppresso) del
fantomatico romanzo tradotto, dalle note dell’autore/traduttore.
Naturalmente nel libro di Matthieussent succede molto altro, con buona
dose di fantasia. Ma non è questo che invidio al suo autore. No. È il
gesto rivoluzionario di fare quel che nel profondo di noi stessi, nei
momenti più cupi e in quelli più esaltati del nostro meraviglioso
mestiere, noi traduttori prima o poi vagheggiamo. Perché? Perché il nostro è il mestiere più invasivo eppure discreto al mondo:
entri dentro un libro e il suo autore, gli sfondi l’intimità (perché è
impossibile spiegare quale intrusione chirurgica sia il guardare
Elena Loewenthal
una
frase, un personaggio, un verso, per portarlo in un’altra lingua). E poi
però devi sparire, farti trasparente. Perché la traduzione più efficace
è quella che non c’è, di cui non ci si accorge. Una buona traduzione è
l’originale che quell’autore avrebbe scritto, se avesse scritto nella
lingua in cui ce lo porti tu con il tuo mestiere. (...)
Brice Matthieussent - accidenti a lui e alla mia inguaribile invidia -
ha capovolto quello spazio, è uscito allo scoperto, facendo sparire il
libro originale e mettendo al suo posto - anzi, sotto la linea a metà
pagina - l’avventura del suo (e mio) mestiere. (...)
A proposito: mi viene in mente che forse un modo per esorcizzare
l’invidia, anzi cacciarla via, ci sarebbe. Potrei tradurre dal francese
all’italiano La vengeance du traducteur. Ride bene chi ride ultimo."
Detto, fatto! Esce a maggio per Marsilio: La vendetta del traduttore, di Brice Matthieussent, traduzione di Elena Loewenthal.
Ecco cosa dice la presentazione:
"Un traduttore beffardo e maligno si
ribella al testo mediocre che sta traducendo e lo cancella
progressivamente moltiplicando ed espandendo le note a piè pagina, le N.d.T,
per dare voce al disgusto del romanzo, al disprezzo per il suo autore e
soprattutto per riferire le ferite inflitte al testo: elimina aggettivi
e avverbi superflui, poi paragrafi e infine pagine intere, facendo
spazio a considerazioni, sogni, digressioni. Ma i protagonisti del
romanzo s'insinuano inesorabilmente nel testo che leggiamo: Abel Prote,
noto e irascibile scrittore sul viale del tramonto, autore di un romanzo
intitolato Translator's Revenge, e David Gray, il giovane
traduttore newyorkese che ama travestirsi da Zorro, il "vendicatore
mascherato", che lo sta traducendo. È un vero e proprio romanzo nel
romanzo che prende corpo, costellato di amore, odio, tradimenti, colpi
di scena. Finché il traduttore trionfa sull'autore e s'insedia nella
parte alta della pagina per proseguire meglio la propria storia".
Ed ecco un assaggio del testo originale (grazie alla collega Carla Palmieri).