sabato 20 ottobre 2012

Oggi sono su Nazione Indiana


Ho fatto un po' di ricerche, ho intervistato un po' di persone (anzi, ringrazio Brent Sverdloff, direttore del Center for the Art of Translation di San Francisco; Minna Proctor, scrittrice, traduttrice dall’italiano e editor in chief di “The Literary Review"; Susan Bernofsky, traduttrice dal tedesco di autori come Walser e Hesse, curatrice del blog Translationista; Anne Milano Appel, traduttrice dall’italiano di autori come Primo Levi, Claudio Magris, Giovanni Arpino, Goliarda Sapienza; Alison Anderson, traduttrice dal francese autori come il premio Nobel J. M. G. Le Clézio, Amélie Nothomb e Muriel Barbery).

Insomma, mi sembra che sia venuta una cosa interessante. Buona lettura!

31 commenti:

  1. questo articolo mi ha aperto un mondo! Non pensavo ci fosse ostruzionismo verso la traduzione, pensavo fosse una di quelle cose così, normali, visto che già ci sono tanti testi in inglese, e anche visto che per esempio nel Regno unito, se guardi la classifica dei libri più venduti, c'è da piangere: autobiografie di star, libri di cucina, romanzi rosa e qualche thriller. In Italia ci sono romanzi e saggi, pensavo fosse una questione di gusto insomma. Poi il fatto che il nome del traduttore venga nascosto per non mostrare che si tratti di una traduzione, è pazzesco!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Quello che ho scritto sugli Usa si applica quasi alla perfezione anche al Regno Unito. In Italia è un po' diverso, i traduttori hanno altri problemi...

      Elimina
  2. Un articolo davvero interessante, Silvia. Il divario tra la percentuale italiana e quella statunitense è impressionante (Mi chiedo se in Canada la percentuale sia più alta di quella USA). Sarebbe interessante sapere quanti libri italiani vengono tradotti ogni anno per il mercato americano: tra i più recenti Camilleri (Montalbano) è presente (ma, ovviamente, il suo siciliano perde molto nella traduzione); sono riuscito recentemente a reperire anche alcuni volumi di Salgari, Buzzati, Artusi...
    Certo è che i nostri governi ci fanno davvero una pessima figura, quanto a promozione della nostra letteratura all'estero.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, Camilleri è tradotto in molti paesi, se guardi online se ne parla molto. Io però non li invidio, i suoi traduttori!
      Quanto alla promozione della nostra letteratura all'estero, dai un'occhiata anche al commento di Grazia qui sotto, che parla di Bruxelles :-(

      Elimina
  3. Anche io come Riruinglasgow credevo dipendesse dal fatto che il numero di persone che scrivono in inglese e' maggiore rispetto a quelle che lo fanno in italiano. Non sapevo ci fossero altre ragioni dietro.
    A me e' capitato di trovare, e quindi comprare, due libri italiani tradotti in inglese, uno e' Skylark Farm della Arslan, l'altro e' Without Blood di Baricco. Il primo e' tradotto da Geoffrey Brock, il secondo da Ann Goldstein.
    Confesso di non avere mai letto Baricco in Italiano.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non conosco Geoffrey Brock, però so che Ann Goldstein è una bravissima traduttrice, che fra l'altro ha appena ricevuto una Guggenheim Translation fellowship (non si sa esattamente a quanto ammonti la fellowship, ma pare che nel 2008 la cifra media fosse di $43.200. Sigh.) per la sua traduzione delle opere complete di Primo Levi.

      Elimina
  4. Bellissimo articolo, complimenti anche a Zucco. Ne parlerò su Finzioni (finzionimegazine.it) giovedì.
    Laura Caponetti

    RispondiElimina
  5. Interessantissimo il tuo articolo, Silvia. La situazione degli Stati Uniti forse, per quanto riguarda i libri italiani, si lega a un disinteresse e a un mancato sostegno della lingua italiana nel mondo. In Belgio nessuna(o poca) promozione, chiusura di sezioni di enti benemeriti come la Dante Alighieri e la direttrice dell'Istituto italiano di cultura che tiene seminari e conferenze in inglese te la dice lunga sull'importanza che anche in Europa, le nostre istituzioni accordanno alla diffusione della nostra lingua.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Gia'. Ieri riflettevo sul fatto che stiamo sempre a piangere sul fatto che l'italiano viene sporcato da inglesismi anziche' introdurre equivalenti in italiano, ma da quando vivo qui ho scoperto che ci sono tantissime parole italiane o latine usate in inglese, come quelle in campo musicale.
      Grazie per questo articolo Silvia, anche io credevo dipendesse da un fattore numerico. Incredibile.

      Elimina
    2. Grazie a voi, sono contenta che vi sia piaciuto.
      Ho appena sentito parlare di un altro direttore di istituto italiano di cultura che rifiuta la proposta di una serata sulla traduzione perché "non interessa a un pubblico generale". Ecco qua.

      Elimina
  6. La nostra ricchezza in campo artistico è tale che da sempre viene presa per scontata. Forse è per questo che anche la diffusione dell'italiano non riceve sostegno e finanziamenti. E' la solita ottusità e poca lungimiranza dei governi. Bello il tuo articolo, Silvia. Mi piace pensare che un poco vi abbia contribuito la poltrona dei massaggi. ;-)

    RispondiElimina
  7. una lezione da tenere a mente, da quando ti seguo scopro cose alle quali non ho mai prestato la minima attenzione, per cui ti ringrazio.
    mi viene in mente il cugino di una mia amica che, emigrato negli USA decenni fa, si vergognò talmente di provenire dall'Italia che non insegnò nemmeno la sua lingua madre ai figli, volendoli "americani al 100%", mi fece una tristezza infinita ma credo che quella Nazione ti fagociti così tanto in certi casi che ti fa sembrare di non avere alternative, soprattutto se non sei un minimo critico mentalmente.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie Barbara, hai ragione, però a me la Nazione fagocitatrice fa proprio l'effetto opposto: voglia di scappare a gambe levate.
      Quello che dici mi fa venire in mente una cosa che rimane un po' sottintesa nelle affermazioni dei traduttori che ho intervistato, forse perché sembra troppo un luogo comune, o forse perché loro stessi preferiscono non esplicitarlo: l'assoluta insularità degli Stati Uniti, l'effettiva chiusura verso le espressioni culturali che vengono da fuori. Basta vedere quanta fatica devo fare per trovare un film straniero in una città come San Francisco.

      Elimina
    2. Un'insularità che sconfina nella totale ignoranza della storia, geografia e, in genere, cultura di qualunque nazione, al di fuori della propria. Io avevo avuto questa viva impressione già negli anni '70. :-(

      Elimina
  8. Bellissimo articolo, l'avevo letto ieri segnalato dal "nome del traduttore". Tristissimo il fatto che in Italia manchi la capacità di proporci all'estero, anche e soprattutto a livello istituzionale, e credo vada di pari passo insieme a tante altre cose che vengono lasciate al caso (cibo in primis), abbiamo tantissimi autori validi che andrebbero valorizzati :(

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Be', sai, quando il direttore di un istituto italiano di cultura pensa che la traduzione di libri da e verso l'italiano non sia un argomento di interesse generale...

      Elimina
    2. Che tristezza :( purtroppo in Italia si sta andando verso una deriva non molto incoraggiante dal punto di vista culturale e se chi dovrebbe promuoverla pensa questo è ancora più scoraggiante. L'interesse verso la lettura però mi sembra stia andando peggiorando o per lo meno questo è quello che ho visto un paio di anni fa anche all'università, chi studiava letteratura straniera si lamentava che la prof dava libri in lingua originale e che fossero troppi (4 libri soltanto!!) e l'esame era in italiano :( scusa la divagazione, ma la cosa mi infastidì tantissimo perchè quando mi laureai io dovevamo leggere almeno 20 libri di letteratura e mi sembrava poco e ora c'è chi si lamenta del fatto che se ne legge 1 quarto! Certe volte ti chiedi ma perchè si iscrivano all'università se non hanno voglia di conoscenza e soprattutto perchè iscriversi a letteratura se non piace leggere

      Elimina
    3. Io cerco sempre, per principio, di non dire "ai miei tempi era meglio", perché credo che ogni momento abbia i suoi pregi e i suoi difetti. Però, anche sentendo parlare alcuni amici che insegnano all'università, comincio a pensare che qualcosa sia effettivamente cambiato in peggio. Iscriversi all'università senza voglia di conoscenza è un po' la frase chiave, però... però... quelli così non c'erano anche quando andavo all'università io?
      Quanto alla scoraggiante deriva culturale, anche questo purtroppo temo che non sia una questione solo contemporanea, ma un problema che dura ormai da tanto tempo, e di cui adesso ci troviamo di fronte agli scoraggianti risultati.

      Elimina
    4. Nemmeno io, è che purtroppo per "i miei tempi" non c'è stato tempo perchè hanno fatto talmente tante di quelle riforme in pochissimi anni che io ho affrontato esami difficilissimi i primi anni (quelli da 20 libri di letteratura) e esami facilissimi gli ultimi anni (30 pagine per un esame). Quello di cui parlavo io è che se già chi studia all'università si lamenta del fatto che deve leggere tanti libri in un posto in cui è ovvio che sei andato per studiare è davvero triste e mi fa tanta rabbia perchè si esce dall'università non molto più colti di prima, ma il problema non è degli studenti (che è ovvio ci sono quelli che studiano di più e fanno un lavoro extra) è proprio dell'insegnamento in generale, se vai al ribasso è ovvio che si andrà sempre più al ribasso :(

      Elimina
    5. E del sistema che premia le università con il maggior numero di iscritti, per cui i professori si sentono dire che non devono dare voti bassi né tantomeno bocciare, perché poi gli studenti sono scontenti e si iscrivono da un'altra parte...

      Elimina
  9. complimenti silvia, mi è piaciuto molto il tuo articolo. conoscevo già la questione, l'ho studiata da pochi mesi per un esame di semiotica. In un capitolo di un libro si parlava del "fenomeno" stephen king e si affrontava anche la questione che pochissimi libri sono tradotti in inglese. in effetti però non mi risulta che l'autore accennasse al fatto che non ci sia mercato, ma si concentrava di più sul fattore numerico. grazie, molto interessante.

    RispondiElimina
  10. Grazie, Silvia. Molto interessante, anche perché sveli un lato oscuro dei tanto "decantati" States. Anche la questione del nome del traduttore... questo proprio non me l'aspettavo. Per quanto riguarda gli Istituti di Cultura italiana all'estero... si potrebbe aprire un'altra inchiesta o capitolo doloroso.
    Un abbraccio

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Per dimostrazioni del lato oscuro degli States puoi sempre contare su di me, Clara. Sto diventando, mio malgrado, un'esperta in materia.

      Elimina
  11. ho letto, ottimo articolo Silvia!
    Anche se ammetto che è triste leggere certe cose, si lavora con amore ma ci si ritrova spesso in un limbo, e questo spesso dipende da incapacità altrui

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Già, il lavoro fatto con passione e competenza che viene ostacolato dall'incapacità altrui è un grave problema, e sappiamo bene i danni che provoca (non solo nel nostro paese, ma nel nostro paese sono spesso più macroscopici).

      Elimina
  12. Poco alla volta, sto diventando sempre più critica nei confronti dei miei amati States. Alcune tue lucide e serene considerazioni mi aiutano in questa nuova analisi. GRAZIE!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Titti, basta che non mi diventi troppo critica, sei tanto bella così :-)

      Elimina

  13. Ciao, voglio portare uno spunto e mi scuso se sono OT. I traduttori sono importanti, il loro lavoro è essenziale (soprattutto in Italia, i motivi li sappiamo tutti). Ma se è vero che molto spesso il recensore, in sede di recensione, manca di riconoscerne il merito, lo stesso si può dire del demerito.
    Quando leggo "...tradotto dalla bravissima X", ecco, mi viene il dubbio che sia una frase buttata lì. Sono in malafede? Forse. Ma sta di fatto che io non ho mai letto una recensione che criticasse il lavoro di un traduttore. Mi capita così di chiedermi se il recensore ha veramente confrontato il testo tradotto con quello originale, se si è fatto veramente un'idea di come il lavoro è stato svolto; o se per lui è stato più facile e sbrigativo (ci fa pure bella figura!) liquidare il discorso con un complimento che non si sa quanto sia sincero.
    Sono d'accordo con la campagna che invoca una maggiore considerazione del traduttore, ma allora perché non giudicarne anche l'operato? Una riga, non dico di più. Sennò questi giornalisti adducono la scusa dello scarso spazio.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non vai affatto fuori tema, anzi, il tuo è un commento molto pertinente. Un maggiore interesse per la traduzione da parte dei recensori sarebbe auspicabile non solo per una questione di correttezza professionale nei confronti dei traduttori, ma anche come servizio nei confronti del lettore, che ha il diritto di sapere di chi è la traduzione - bella o brutta - che sta leggendo. E naturalmente sarebbe auspicabile che la traduzione venisse giudicata (sempre che chi recensisce sia in grado di farlo) per quello che è, quindi anche in modo critico se è fatta male (a volte succede di leggere giudizi critici ben argomentati, però è raro. Io stessa una volta mi sono vista tagliare un giudizio negativo su una traduzione, in una recensione di un libro tradotto da un traduttore famoso che probabilmente l'aveva data da fare a qualcun altro). Però bisogna essere capaci, e avere anche il tempo per farlo: forse il punto è anche questo.

      Elimina