Dopo alcuni commenti a questo post e a questo (per i quali ringrazio, fra gli altri, Alice, Lola e Matteo), e anche naturalmente per via del gran parlare che si sta facendo del nuovo libro di Murakami da poco uscito sul mercato americano, mi sono interessata sempre di più alla questione delle traduzioni dal giapponese, e di un autore come Murakami in particolare.
Ne sono uscite riflessioni scollegate, come appunti sparsi che vorrei raccogliere qui, sperando che suscitino qualche altra riflessione.
Forse la prima cosa a incuriosirmi è stata un'intervista rilasciata al New Yorker da uno dei traduttori di Murakami, Jay Rubin, che si concludeva con il consiglio, davvero paradossale da parte di un traduttore professionista, di evitare di leggere libri tradotti. In un'intervista successiva, Rubin, a mio parere per cercare di rimediare alla gaffe, afferma: “I’m not saying that people should stop reading translated works; that’d be bad for world culture. What they should do is learn more languages—especially Americans. We should learn what it’s like to live in another language.”
Da una chiacchierata con Mariko Nagai, scrittrice e traduttrice giapponese, sono emersi altri spunti. Mariko, che insegna scrittura creativa e letteratura giapponese alla Temple University di Tokyo, mi dimostra con un esempio quanto la lontananza della cultura giapponese da quella "occidentale" possa porre notevoli problemi al traduttore. Il romanzo Sasameyuki (細雪) di Junichiro Tanizaki (in italiano Neve sottile, traduzione di O. Ceretti Borsini) pone diversi problemi al traduttore (già a partire dal titolo. Ne parla anche Lawrence Venuti in Gli scandali della traduzione), ma uno forse meno noto è quello che riguarda i "movimenti intestinali" dei protagonisti. In un romanzo dove, secondo gli studenti americani di Mariko, in apparenza "non succede nulla", la descrizione di quanto accade, letteralmente, nelle viscere dei protagonisti assume un'importanza simbolica fondamentale per chi conosce a fondo la cultura e la letteratura giapponese, e sotto l'apparente "nulla" c'è in realtà un intero mondo di sentimenti e passioni.
Secondo Mariko, è proprio questa stratificazione, questa complessità che manca nelle opere di Murakami, che scrive, secondo molti giapponesi, "come un occidentale".
È forse questa la chiave per comprendere quello che emerge dal commento di Giappone Mon Amour al mio post di ieri: "Ogni volta che parlo con qualcuno (ovviamente giapponese) confermo la mia prima impressione. Murakami e' MOLTO meglio in traduzione che in lingua originale. Prosa piatta, personaggi stereotipati che parlano in un giapponese all'americana."
O forse c'entra anche quello che ho aggiunto nel mio commento successivo, ossia il processo di "nobilitazione" di cui parla Antoine Berman in La traduzione e la lettera o l'albergo nella lontananza? (E a proposito del post di ieri, non perdetevi il brano dell'articolo inviatomi da Paolo Merlini, giornalista della Nuova Sardegna).
La ricerca continua...
Non so praticamente nulla di letteratura giapponese ma mi piacciono due autori inglesi che hanno forti legami con il Giappone, Kasuo Ishiguro e David Mitchell (vive in Giappone), e per questo tempo fa mi era capitato di leggere un articolo in cui venivano interpellati proprio su Murakami e sul suo essere molto “occidentale”. Sono riuscita a recuperarlo: The cult of murakami.
RispondiEliminaGrazie Licia, questo articolo e l'intervista di Murakami alla Paris Review che cercherò di leggere appena avrò un momento libero mi forniranno senz'altro nuovo materiale per la mia ricerca!
RispondiElimina(PS: mi spiegheresti come si fa a mettere i link nei commenti? Non ci riesco!)
Devi usare il codice HTML, ad esempio il link nine hours of separation va scritto così:
RispondiElimina<a href="http://ninehoursofseparation.blogspot.com">nine hours of separation</a>
Se poi vuoi aggiungere una descrizione che appare al passaggio del puntatore sopra il link, in questo esempio blog di Silvia Pareschi, traduttrice letteraria in trasferta a San Francisco devi aggiungere l’attributo title:
<a title="blog di Silvia Pareschi, traduttrice letteraria in trasferta a San Francisco" href="http://ninehoursofseparation.blogspot.com">nine hours of separation</a>
(non ho potuto mettere gli esempi di codice scritti come testo normale perché nei commenti sarebbero stati convertiti automaticamente in link, quindi ho “barato” usando il codice stesso come nome dei link)
È tutto molto più semplice se scrivi il commento in un editor e poi copi il codice, ad esempio io uso Live Writer.
Grazie, ora mi esercito!
RispondiEliminaSilvia, quanti spunti interessanti. Sono di corsissima oggi, ma nei prossimi giorni vorrei tornare su questi "orizzonti" che hai aperto, qui. Buon lavoro.
RispondiEliminaPotrei parlare per ore o scrivere pagine su questo argomento. Cercherò di sintetizzare qualcosa prima che mia figlia si svegli.
RispondiEliminaPremessa: il giapponese è una lingua molto diversa sia dall'italiano che dall'inglese (tant'è che solo adesso mi rendo conto di quanto ita e eng si somiglino). Sia dal punto di vista della costruzione (costruisce a sinistra) che dal punto di vista della struttura e dell'espressione (ad esempio è una lingua che "responsabilizza l'interlocutore", in altre parole se non "leggi" il contesto non capisci un cavolo).
Altra premessa: la cultura giapponese, per quanto pienamente occidentalizzata, è molto, molto diversa dalla nostra, E questo, che te lo dico a fare, si riflette o meglio si esprime nella lingua.
Da tutto ciò si capisce che una traduzione "letterale" del giapponese è sì possibile, ma spesso non auspicabile perché si ottiene un testo molto elementare (il che è dovuto alla struttura della lingua) e molto criptico (perché responsabilizza l'interlocutore, tu devi GIA' sapere delle cose, devi intuirle).
Ora il problema è: qual è il confine tra l'interpretazione, l'accompagnare il lettore attraverso la porta che divide la nostra cultura dalla loro, e la riscrittura?
Fino a che punto deve o può spingersi un traduttore?
Silvia, grazie della citazione e sopratutto del bellissimo post.
RispondiEliminaAvrei tantissimo da dire ed è difficile in una solo commento...
Mi limito solo a riflettere sul fatto, banale, che lingue diverse corrispondono a culture diverse ed essendo a contatto continuo con i giapponesi mi sono reso conto di quante cose ci separano da loro e si trasformano nei libri in elementi "intraducibili".
Quante volte mia moglie ha cercato di spiegarmi le infinite sfumature del linguaggio di cortesia che dai noi si appiattiscono nel solo solo uso del "lei" invece che del "tu"?
E quanto ho riso quando, facendole vedere San Pietro a Roma, ho tentato invano per un'ora di spiegare il concetto di "preghiera" che da loro non esiste, o almeno non nella forma che intendiamo noi? Quando leggiamo di "Dei" in un testo sul Giappone dovremmo farci molte domande...
Non capisco cosa ci sia di paradossale nel suggerire a traduttori (o futuri tali) di non leggere libri tradotti. In genere la traduzione "si sente", anche se per una sorta di contratto interiore facciamo spesso e volentieri finta di no (altrimenti ci rovineremmo il piacere della lettura). Se per la brama di conoscere più testi possibile della letteratura del paese che ci interessa passiamo anni della nostra vita a nutrirci di letteratura tradotta, anche il nostro italiano ne finirà inevitabilmente marcato (anche se non a vita, per fortuna).
RispondiEliminaAll'università, nel corso di giapponese (altri tempi, certo)i professori ci supplicavano di leggere soprattutto italiano, perché ben prima del giapponese, era quello che ci chiedevano di consolidare. E non l'ho mai trovato un suggerimento a vanvera. Il Giapponese lo puoi conoscere da dio, ma se non sai scrivere in italiano, buone traduzione non le partorirai mai.
Secondo appunto, che spero non venga recepito come polemico: l'accenno ai sommovimenti intestinali dei protagonisti di Neve Sottile, così come impostato, cioè appena accennato, a me che ho letto l'opera ormai lustri e lustri fa non riaccende alcuni lumino di memoria. Dubito riesca a comunicare qualcosa (a meno di non integrarlo con qualche spiegazione aggiuntiva) a chi il romanzo non l'ha letto affatto. Espressioni come "assume un'importanza simbolica fondamentale per chi conosce a fondo la cultura e la letteratura giapponese, e sotto l'apparente "nulla" c'è in realtà un intero mondo di sentimenti e passioni" sono ahimè un tantino sfuggenti, povere di riferimenti concreti e nel peggiore dei casi svianti (...sommovimenti intestinali...)
Ripeto, per evitare fraintendimenti. Ho scritto di fretta, ma la mia intenzione non è polemica, e solo quella di offrire un contributo. Un augurio di buon lavoro.
Nell'intervista, Jay Rubin suggerisce a tutti, e non solo ai traduttori, di non leggere libri tradotti ("I strongly advise people not to read literature in translation" sono le parole che usa). Il suo è un suggerimento diverso da quello che si dà ai traduttori, di leggere prima di tutto opere ben scritte nella propria lingua. Per come lo esprime - e per questo probabilmente si è corretto in seguito - l'effetto è quello di un traduttore professionista che dice ai lettori "non leggete libri tradotti, perché io lo so, vi perdete un sacco di roba". Un'affermazione un po' infelice direi, e ancora di più in un paese come gli Stati Uniti, dove la percentuale di letteratura tradotta è già bassissima (3/4%).
RispondiEliminaQuanto al secondo appunto, il mio scopo qui è proprio quello di suscitare una discussione sulla traduzione, e visto che non conosco il giapponese mi sono limitata a offrire qualche spunto che ho raccolto negli ultimi tempi, senza fingere di avere una conoscenza che non ho. Quelle che ho riportato sono le parole di un'altra persona che mi parlava in inglese ("bowel movements" era l'espressione da lei usata), e io non so più di quello che ho scritto. Per questo accolgo con molto piacere qualunque commento che possa aiutarmi a saperne di più.
Copio e incollo un interessante commento pubblicato su facebook da Anna Lisa, autrice del blog www.bibliotecagiapponese.it/ (non mi sono ancora esercitata con i link!).
RispondiElimina"Mentre leggevo l'intervento sulle traduzioni dal giapponese, conoscendo le tue opinioni [di Giappone Mon Amour] in merito a Murakami, mi sono chiesta: come mai è meglio la sua prosa in italiano, piuttosto che in giapponese? E' un'operazione del tutto naturale da parte dei nostri traduttori (che, oltretutto, sono scelti tra i migliori nell'ambito degli studi yamatologici italiani), o ha un che di premeditato, magari legato a ragioni editoriali? Oppure questa 'intensificazione' (se così si può dire) della sua scrittura è apparsa a coloro che dovevano trasporre il testo dall'originale come uno dei possibili modi per sanare gli scarti tra le due lingue? Vista la mia ignoranza in materia, lascio ad altri più preparati di me la risposta. :) In ogni caso, credo sarebbe interessante confrontare traduzioni in italiano di una stessa opera di Murakami realizzate da mani differenti, e rifletterci su."
Riporto qui il mio commento per dare continuita' a tutte le tracce sparse per il web che il tuo bel post ha fatto scaturire :)
RispondiEliminaIn una conferenza tenutasi di recente presso la Tokyo University of Foreign Studies, si dibatteva, invece, sulla teoria secondo la quale Murakami Haruki scriva con la consapevolezza del passaggio dal giapponese alla traduzione inglese. Una scrittura, quindi, profondamente conscia della sua resa in un'altra lingua.
Il mio spunto, invece, riguarda la doppia veste di scrittore e traduttore di Murakami Haruki. E' stato lui a tradurre Carver in giapponese, cosi' come Salinger, Capote e Fitzgerald.
La mia teoria fonda le sue radici qui. Una scrittura influenzata, quindi, dal proprio lavoro di traduzione.
(piccola aggiunta: personalmente preferisco un traduttore che mi sappia restituire le atmosfere e le sfumature della lingua piuttosto che uno studioso che, per eccessivo timore di violarla, la deprivi del suo fascino)
Grazie! Stavo proprio pensando di fare lo stesso, perciò ri-copio e ri-incollo anche la mia risposta al tuo commento.
RispondiEliminaSulla questione della scrittura conscia della propria resa in un'altra lingua mi viene in mente Ishiguro, che afferma (qui: http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/interviste/ishiguro_kazuo.html):
“Anche la letteratura è stata toccata dalla globalizzazione. Tutti noi scrittori, più o meno consapevolmente, scriviamo pensando alla traduzione dei nostri libri. Quando scrivo mi viene spontaneo pensare se le parole o le frasi che sto usando troverebbero una facile traduzione in un’altra lingua oppure no, e cerco di evitare i giochi di parole che sono così caratteristici della lingua inglese.”
(Non è proprio vero per tutti, aggiungo io. Se così fosse non avrei sudato sette camicie per tradurre lo spanglish di Junot Diaz, tanto per fare un esempio!)
Sulla questione della scrittura influenzata dal lavoro di traduzione, non c'è dubbio. Anch'io finisco sempre per scrivere come gli autori che traduco (molto peggio, però!)
Nel frattempo ringrazio anche Alice e Matteo per i loro commenti che mi fanno venir voglia di approfondire (e lo farò al più presto).
RispondiEliminaSpero inoltre di poter riportare qui (se gli autori me ne danno il permesso) una serie di altri commenti molto interessanti che sono stati pubblicati su facebook.
A proposito del romanzo di Tanizaki, ecco cosa mi specifica Mariko:
RispondiElimina"... my argument is that in this novel, everything is done by gestures, unsaid things, that unless you get the cue (the cultural one), you may miss it... sorry, i don't have the book in front of me, but here's a reference made by Kenneth Rexroth - one of the poets/translators:
(from http://www.bopsecrets.org/rexroth/essays/japanese-novels.htm)
"The Makioka Sisters is certainly an eminently Far Eastern story, but it could also be by Balzac or Thackeray. It resembles Thomas Mann’s Buddenbrooks. In addition, although Tanizaki may not be a better writer than Balzac, he has things the French writer lacks — the close narrative plotting, almost as dense as Dick Tracy or a soap opera, derived from the great Chinese novels, and of course the poignant imagism of a writer saturated in Japanese poetry. Perhaps the best characterization would be to call The Makioka Sisters the seamy side of Jane Austen. The story opens with the Makioka family administering vitamin B injections to each other. The last sentence of the novel drives this characterization home with a vengeance. Yukiko is the central figure, the problem sister of four problem sisters. 'Yukiko’s diarrhea persisted through the twenty-sixth, and was a problem on the train to Tokyo!'"
Ed ecco uno dei commenti pubblicati su facebook, da Paola Cantatore:
RispondiEliminaCredo che la differenza stia nel fatto che la lingua italiana è lessicalmente più ricca di varianti immediatamente recepibili dal nostro sentire rispetto a quella giapponese, che invece ha una capacità di "suggerire", "esprire non definendo..." affidandosi all'insieme, alle atmosfere, ad essere spesso aerea, incompiuta... a una sottigliezza sempre un pò sospesa, alla comprensione di un contesto piuttosto che alla degustazone di una frase ben costruita,all'articolazione di un pensiero in maniera che soddisfi quasi il palato. Il fascino della scrittura di Banana è la sua semplicità, ma per uno che ama leggere Nobokov, ad esempio, leggerla in originale o con una traduzione piatta, potrebbe risultare semplicemente banale. Ci sono traduttori che riescono a rendere in italiano la suggestione di un testo giapponese, o straniero in genere, perchè vanno al di là delle parole semplicemente lette, riuscendo a ritrasmettere al lettore in lingua italiana ciò che un italianoc he anche conosce lalingua di partenza no nr iesce a vedervi. In questo gioca moltissimo anche la sensibilità e la conoscenza della lingua di arrivo.
Post appassionante!
RispondiEliminaMi permetto di intervenire forse in modo provocatorio parlando anche di "responsabilità del lettore" oltre che quella ovvia del traduttore.
Se leggiamo un romanzo su un cultura diversa come quella giapponese dovremmo capire che la reale comprensione di molti aspetti del testo li potremo cogliere solo facendo lo sforzo di imparare di più sulla cultura in oggetto.
Per carattere adoro le note a piè di pagina, ma non incolpiamo necessariamente il traduttore se certe sfumature si perdono. Come dice sarcasticamente mia moglie "a voi occidentali bisogna sempre spiegarle esplicitamente le cose, da noi bisogna capirle nei silenzi"
Sono d'accordo con quello che dici, Matteo. La "responsabilità del lettore" è ciò a cui si fa appello quando nella traduzione si decide di non "spiegare" (con note a piè di pagina o con note "interne" al testo). Le note a piè di pagina sono una questione delicata: si cerca di evitarle il più possibile, almeno nei testi letterari, ma ci sono casi in cui non possiamo farne a meno. Mi viene in mente, in "Libertà", tutta la questione dei testi e dei titoli delle canzoni. Li avevo ricreati in italiano (con tanto di assonanze, rime e giochi di parole) là dove erano inventati dall'autore, ma avevo dovuto mettere delle note per tradurli letteralmente là dove si trattava di canzoni reali, il cui titolo o testo assumeva un ruolo specifico nel contesto della narrazione.
RispondiEliminaADORO questa conversazione! Una vera meraviglia. Leggo da tanto autori giapponesi e li apprezzo immensamente, per cui questi aspetti da voi lucidamente analizzati sono fonte di grande interesse per me.
RispondiEliminaEra proprio questo a cui mi riferivo quando scrivevo che il giapponese è una lingua che "responsabilizza l'interlocutore": una frase ti suggerisce un'atmosfera, poi sta a te coglierla. Che poi è il concetto dello haiku.
RispondiEliminaSono poi pienamente d'accordo con quanto scrive Paola Cantatore a proposito di Banana Yoshimoto: tradotta "letteralmente" sembra una ragazzina delle medie. Ma il fascino della sua scrittura è anche quello.
A proposito di "Neve sottile" poi è verissimo che è un romanzo tutto costruito sulle atmosfere, a partire dal titolo. I movimenti intestinali non sono poi così importanti ma ad esempio è proprio su di loro che finisce il romanzo. Ed è vero anche che può essere goduto non tanto più in originale che in traduzione quanto più da chi conosce il contesto culturale e in questo caso anche storico.
Un'ultima opinione sulle note a pie' di pagina: io ne metterei a profusione, le adoro. Gli editori sono quasi sempre di tutt'altro avviso però :-)
Sì è abbastanza evidente che Murakami sia stato influenzato dal suo lavoro di traduttore..
RispondiEliminaNon ho capito però, in questa discussione, se per questi motivi..cioè per il suo modo di scrivere "occidentale" sia ritenuto uno scrittore minore rispetto ad altri in cui è più vivo lo spirito giapponese.
In Giappone sì, anche se non certo da tutti, visto che nel suo paese Murakami è amatissimo e vende milioni di copie.
RispondiEliminabeh.. io mi riferivo ai partecipanti di questa discussione :)
RispondiEliminaNon ero certa di aver capito se la sua influenza/contaminazione con gli autori americani fosse considerata come un aspetto negativo. Poi ho visto un tuo commento in un altro post e ho capito che lo apprezzi molto.
Tuttavia.. credo che il suo stile sia poco confrontabile con gli altri e nasconda più elementi della tradizione giapponese di quanto si pensi
Ah, scusa, non avevo capito! Proprio perché non conosco il giapponese e quindi non posso farmi un'idea personale dello stile originale di Murakami, sono stata contenta di ricevere questi contributi. Più che trovare soluzioni mi si sono aperti nuovi interrogativi, che è sempre quello che cerco in una discussione. E poi ho visto confermata la mia voglia di saperne di più sulla cultura giapponese (cosa che, fra l'altro, mi ha aiutata a decidere sulla meta del nostro non ancora consumato viaggio di nozze...)
RispondiEliminaNon potevate fare scelta migliore!!!
RispondiEliminaSpero di vedere presto il tuo diario di viaggio :)
Se ne parlerà verso l'autunno, quando la mia amica Mariko sarà a Tokyo e potra farci da guida! Non vedo l'ora!
RispondiEliminaInteressante il tuo articolo, Silvia. Capita giusto a fagiolo, mentre leggo '1Q84' in italiano. La traduzione di Giorgio Amitrano è scorrevole, ma manca a mio avviso di un certo orecchio, di una scrittura più raffinata. Questo mi ha portato a chiedermi, come spesso avviene, quale sia la sonorità del romanzo in giapponese. Dalla discussione questo aspetto non emerge, per cui occorrerebbe l'analisi d'un attento lettore dell'originale, non importa se sia traduttore o meno.
RispondiEliminaQuando parlo di "scrittura raffinata" non mi riferisco allo stile, ma al rapporto del contenuto e della forma, o meglio del loro interagire in quanto 'materiale' quale lo ha ben definito a suo tempo Viktor Sklovskij. Hai portato un esempio, Silvia, su alcuni aspetti problematici della tua traduzione di 'Libertà', ed altro esempio sull'intraducibilità del titolo di Tanizaki. Sia l'uno che l'altro problema ricorrono in grandi scrittori, in forma non solo di citazione scoperta ma anche come calco en passant.
Avevamo, tempo addietro, scambiato alcune osservazioni sull'intraducibilità dei diversi titoli di Margaret Atwood. Va qui osservato, per rimanere a tema, che la scrittura di Atwood in certi romanzi è 'volutamente' pesante, caparbiamente 'trattenuta', per così dire, per cui scrittori americani d'indubbio talento non colgono il perché di tale scelta, azni non si accorgono neppure che di scelta si tratti, non conoscendo altri romanzi dell'autrice nei quali il fraseggio è snello, buffo e spedito. Una poeta americana di una certa fama mi ha chiesto di recente cosa pensassi de 'Il racconto dell'ancella', poiché l'aveva letto decenni addietro e non le era piaciuto per come era stato scritto. Ancor più, credo, le sarebbe dispiacituto 'L'altra Grazia', che è un gioiello proprio per la capacità di Atwood di farti indugiare attimo dopo attimo nelle incertezze e nel dolore misterioso della protagonista, per poi, con un improvviso colpo di pennello, d'accelerare fluidamente gli eventi nel finale, non meno de 'Il racconto dell'ancella' (benché l'ambientazione sia diversa sono entrambi due romanzi 'puritani' sulla scorta dell'insegnamento di Perry Miller). Con questo intendo "scrittura raffinata" e "materiale", nel quale la forma ingloba il contenuto e ne fa sottilmente da spia.
Leggendo '1Q84' la prima impressione è l'enorme occidentalizzazione degli oggetti (Marlboro, pistole Beretta, whiskey, tacchi alti, tailleur, minigonne, completi maschili con camicia e cravatta ecc. ecc.). Il giapponese meno abbiente è guardato come uno straniero, un alieno, un povero sfigato, se mi si lascia passare l'espressione.
Leggendo questa discussione emerge che Murakami abbia abbandonato un certo modo di costruire l'immagine 'interna' della fisiologia umana privandosi di un valore non so se simbolico o allusivo insito nella letteratura giapponese. Quel che mi piacerebbe sapere è se Murakami non abbia apportato altre stratificazioni semantiche attraverso, per esempio, 'polemiche nascoste' o 'giudizi velati' sulla società giapponese e non solo; e se il suo modo di scrivere non sia teso ad un rinnovamento della letteratura giapponese più consono a a raffigurare l'attuale cultura del Giappone, il suo modo di sentire ecc. In altri termini, il movimento degli oggetti di '1Q84' e la sua scelta espressiva non comportano un chiarimento più palese del superamento di tradizioni precedenti in un Giappone da tempo occidentalizzato? Quanto sono in grado i critici giapponesi di cogliere il per noi evidente nesso colla cultura occidentale, a cominciare da Kafka o Orwell?
Un'altra cosa che mi piacerebbe sapere, non sapendo leggere il giapponese, è quali siano i più prestigiosi premi letterari in Giappone, e se ve ne sia alcuno importante quale il Man Booker, un premio che mi sembra non sia mai stato assegnato ad autore che scrivesse meno che in modo eccellente, a prescindere dalla sua grandezza (uno su dieci vincitori del Booker finisce per vincere anche il Nobel).
RispondiEliminaDando una scorsa ai premi giapponesi indicati da Wikipedia in inglese, ho notato che praticamente Murakami a vinto gli stessi premi di Kenzaburō Ōe: lo Yomiuri (assegnato anche a Mishima) e il Tanizaki, mentre Banana Yoshimoto non mi risulta abbia vinto premi così importanti, non so per quale motivo visto che, come leggo nella discussione, scrive in modo formidabile.
La discussione aperta dal tuo interessantissimo articolo mi auguro che possa portare ad alcuni contributi riguardo ai quesiti da me sollevati e per i quali non ho gli strumenti necessari a sciogliere il bandolo della matassa.
Caro Nicola, ho riletto a distanza di qualche mese i tuoi interessantissimi commenti, e mi dispiace che, essendo arrivati quando la dicussione sul post si era già "raffreddata", siano rimasti senza risposta. Qual è la tua opinione finale su '1Q84', visto che ormai avrai senz'altro finito di leggerlo?
EliminaMi accorgo ora della tua risposta, cara Silvia. Non ne ho ricevuto la notifica. Mi manca il terzo libro di '1Q84': aspetto che esca la traduzione italiana; non ho voglia di leggerlo in inglese ('1Q84' edito da Einaudi manca dell'ultima parte del romanzo).
RispondiEliminaSu alcuni problemi nel tradurre Haruki Murakami, mi sono soffermato nel mio recente articolo dedicato a 'Kafka sulla spiaggia', romanzo anch'esso pieno di allusioni, molte o alcune delle quali sfuggono di necessità al traduttore di testi usciti da poco e sui quali si trovano a lavorare senza l'ausilio d'una critica variegata e meditata. Non so se lo hai letto, qui è il link (a presto): http://poesia.blog.rainews24.it/2012/04/22/haruki-murakami-kafka-sulla-spiaggia/
Anch'io aspetto che esca il terzo volume nella traduzione italiana, non voglio rimanere sospesa a metà della storia.
EliminaHo letto il tuo articolo e mi è piaciuto molto, davvero approfondito e illuminante. Quante cose mi erano sfuggite, leggendolo!
Sono lieto ti sia piaciuto, Silvia. Ho dovuto tener fuori molto materiale di ricerca per renderlo accessibile in questa forma. La parte relativa alle cavie umane, con più puntuali riferimenti storici e bibliografici, l'ho esposta oralmente in conferenza. Così come la ricostruzione dell'attentato di Tokyo fatta da Murakami in 'Underground', il quale è un gioiello di inchiesta giornalistica 'intima' e sociale. La complessità della visione edipica di Sofocle e la modernizzazione del mito in Murakami meritano una attenzione maggiore di quanto abbia potuto presentare, per ovvie ragioni, nell'articolo. L'originale sofocleo è molto più articolato della versione corriva, nel senso che è presentato come visione, possibilità, cecità, azione ed autoriflessione. La ricostruzione dell'orizzonte percettivo di Kafka Tamura porta a ritenere che tutta la costruzione narrata sia solo una sua fantasia. Il romanzo mi era sembrato più leggero di quanto fosse ad una prima lettura.
RispondiEliminaSperiamo che la terza parte di '1Q84' esca presto, avrebbero potuto tranquillamente farla uscire insieme alle prime due. Mi ha fatto sorridere l'articolo, apparso su 'Nature', secondo il quale una volta le Lune erano due: una Terra con due Lune. A presto)